Interviste

Interviste

OGGETTO: Disquisendo di storia patria, nobiltà, cavalleria e debellatio con il presidente del Consiglio Araldico Italiano – Istituto M.se Vittorio Spreti, Don Francesco Maria Mariano duca d’Otranto e di Lipari. Intervista rilasciata in data 27 aprile 2005 al Corriere della Sera – Corriere del Veneto; a cura di Massimo Bottaro. Domanda: 1. – Ecco, Signor Duca, quando è sorto il Vostro Istituto e per quale scopo? R.: Il nostro è l’ISTITUTO CULTURALE PER LA RICERCA E LA TUTELA DEI VALORI STORICI, NOBILIARI, BORGHESI E CAVALLERESCHI, ed è stato fondato nel 1948 in Torino con il preciso scopo di dare sviluppo agli studi storico-araldici e genealogici, di censire le famiglie italiane e straniere mediante ricerche genealogiche, etimologiche, storiche e nobiliari, risalendo a tempi immemorabili le origini del loro casato. Ed essendo venute a cessare le funzioni della Consulta Araldica del Regno d’Italia a seguito della XIV Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione della repubblica italiana, nei limiti concessi dalla vigente legislazione, il Consiglio Araldico Italiano si prefigge di espletare analoghe funzioni; si occupa altresì, essendone il degno continuatore, dell’aggiornamento e dell’interpretazione dell’Enciclopedia Storica Nobiliare Italiana, opera del marchese Vittorio Spreti, nonché della sua salvaguardia, contribuendo così a dare fervido impulso alla cultura nazionale e alla continuità di quelle tradizioni che erano l’orgoglio dei nostri avi. Domanda: 2. – Di che cosa si occupa in particolare il Vostro Istituto? R.: Noi conduciamo diversi tipi di ricerca: genealogica, etimologica, storica e nobiliare. La prima è la ricerca etimologica, che tutti dovrebbero fare per scoprire l’origine del cognome quale fu determinato tra l’anno 1000 e i secoli XII e XIII. Con la crisi del Feudalesimo e il conseguente rafforzamento delle principali città, i Comuni costituirono centri di attrazione determinando fenomeni di importante immigrazione interna dai villaggi ai grossi centri, con movimento di beni e una più intensa partecipazione alla vita pubblica e sociale. Soltanto allora si sentì il bisogno di identificare esattamente gli individui con l’aggiunta di un “ marchio ” al nome. I cognomi italiani puri sono attualmente 280.000 circa, ma quasi la metà possono essere sia varianti grafiche, sia forme di altra natura ( relative a soprannomi, fitonimi, toponimi, mestieri, territori, virtù, gesta, caratteristiche personali: a esempio, i Rossi derivano da un soprannome che sottolinea una caratteristica ben precisa, il colore dei capelli, ed è attualmente il cognome più comune, portato da ben 23.000 cittadini italiani; dopo Rossi, i cognomi più diffusi in Italia sono Bianchi, Colombo, Costa, Esposito, Ricci, Romano e Russo). Il processo di fissazione del cognome si conclude in epoca rinascimentale, quando il casato divenne immutabile per legge e così trasmissibile di padre in figlio. I cognomi possono anche derivare da nomi personali di origine latina ( Adriani, Cesari ), germanica ( Carli, Federici ), greca ( Cristofori, Teodori ), da nomi di formazione medievale come Bonaventura e Benvenuti, da nomi storici come Achilli, Polidori, Rinaldi e Orlandi oppure di mestiere come Barbieri, Bottaro, Acquaioli, Fabbri, Sarti e Medici. Certi cognomi sono francamente bislacchi e anche i nostri studiosi più acuti devono arrendersi di fronte all’impenetrabilità del loro senso ( è il caso di Abbracciavento, Idrogeno, Tontodimamma, Sfondalmondo, Tuttoilmondo, ecc. ). Abbiamo altresì quelli di carattere latino ecclesiastico come Dominus, Sicuteri, Agnusdei, Paternoster, Chiesa, Diotallevi, ecc., e poi quelli che mettono in risalto l’aspetto e/o il carattere: Zoppi, Malfatti, Allegri, Onesti, Spinoso, Brutti, Belli; o etnici e toponimi: Lombardo, Tedeschi, Della Costa, del Monte, Bulgari, e ancora Ronchi ( abitante nei pressi di un vigneto ) oppure Brambilla, proveniente dalla valle bergamasca. Tanti altri italiani devono il loro cognome agli alberi, fiori, frutti che erano vicini alla propria dimora, fra gli altri: Oliva, Olmi, della Rovere, Quercia, Foresta, Uva, Boschi, Campagna, Allori, Agli, Ruta, Grano, Erba, Pigna. Altro criterio di distribuzione era quello delle cariche civili, dei titoli militari o della condizione sociale: Giudice, Cardinali, Padrino, Feroce. Mentre per il cognome satirico e sfottente o da antichi mestieri possiamo statisticamente affermare che nella nostra penisola ci sono molti Rasulo, lingua che taglia come un rasoio; Pochintesta, che non ha bisogno di spiegazioni; Fumagalli, ladro di polli; Pallavicini, che pela i vicini; Callegari, ciabattino; Pistore, fornaio; Marangoni, falegname; Zampari, calzolaio; Semerano, seminatore; Passatore, traghettatore; Scemapieco, beccaio. Quelli originati dal possesso di un feudo, i cui proprietari, prima ancora che la nobiltà venisse divisa nei differenti titoli, si dissero Signori della località dando così origine ai cognomi di Savoia, di Montalto, di Montefeltro, di Ventimiglia, di Capua, di Strassoldo, d’Otranto, di Risicalla, di Villa San Giorgio. Quelli tratti da nome di animali o similitudine di pregi e difetti: Gatti, Leoni, Lupi, Orsini, Cavalli, Porci, dal Verme, Vitelleschi, Luparelli; quelli da ornamenti: dello Scudo, Cicogna, del Carretto, del Drago, della Croce, quelli da oggetti di uso comune: Mazza, Spada, Lancia, Balestra, Barile, Bandiera, Panebianco, Miele, Anfora, Elmo, Nave, Ferro, Lanza. Quelli ricavati da mestieri: Medici, Cavalcanti, Fabbri, Muratori; o da fazioni cittadine: Ghibellini, Reali, Popoli, Guelfi. Quelli risultanti da soprannomi, comunissimi nel Medio Evo, e dei quali non furono immuni anche personaggi famosi come Umberto Biancamano, Federico Barbarossa, Baldovino il Lebbroso, Giovanni senza terra, Riccardo Cuor di Leone, Pipino il Breve, Federico il Gobbo, e poi ancora Pappafava, Machiavelli, Castracani, Pisacane, Baciadonna, Trentalance, Crollalanza, Cavalcabova, Fragipane, Bonaparte, Malaspina, Malatesta, Fieramosca, Bevilacqua, Buoncompagni, Villa San Giorgio, Ressicalla, d’Otranto ecc. Molti sono i cognomi imbarazzanti attualmente in uso, come: Vacca, Troia, Morte, ecc. La seconda ricerca da noi condotta è quella storica denominata Historia che identifica le origini di una famiglia risalendo a diversi secoli addietro e scoprendo le vicende talvolta non più familiari ma della casata, che è l’insieme di un determinato gruppo di famiglie della medesima stirpe. La ricerca nobiliare, a propria volta, trova il suo interesse nel prestigio storico di un titolo nobiliare e nella sua trasmissibilità ( tranne quando i titoli siano stati trasmessi ad personam; ovviamente, la nobiltà per mancato uso non si perde anche se siano passati secoli, perché i titoli sono concessi all’infinito attraverso l’atto di concessione, per magnanimità, per gesta, per virtù, e qualche volta per motivi di borsa, unitamente allo stemma, al motto e al predicato se pertinente ). Perciò, la concessione di un titolo nobiliare costituisce un riconoscimento morale e reale di particolari meriti ). Molti fra i propri antenati annoverano avi più o meno illustri. Certo è che questo tipo di ricerca può anche scoprire uno scheletro in soffitta, per esempio una nascita illegittima, un antenato “ poco di buono ”, ma rivelarsi anche molto utile per sistemare una situazione o raddrizzare un torto. La ricerca genealogica scientifica sulla linea retta, infine, è la rappresentazione grafica dei nomi di ogni familiare diretto che ci ha preceduto. Siamo in grado di risalire anche a 20/22 generazioni, cioè 500 anni di fantastica storia familiare. Le ricerche sono delle vere e proprie indagini molto accurate, talvolta cosi difficili da durare anche degli anni. Sono centinaia i documenti che, fra atti di nascita, matrimonio, battesimo, morte e aggregazioni familiari e nobiliari, compongono la monografia di un albero, e per fare tutto ciò valenti nostri ricercatori diventano dei veri topi d’archivio, in quanto sino all’Unità d’Italia ( 1861 ) troviamo parte dei dati nei municipî, mentre nelle parrocchie siamo in grado di risalire sino al Concilio di Trento ( 1545/1563 ), anno in cui le autorità religiose, per iniziativa di San Carlo Borromeo, imposero ai parroci di tenere in lingua latina un registro delle nascite, uno dei decessi, uno dei battesimi e uno dei matrimoni, che divennero di uso comune nei primi anni del ‘600. Più indietro ancora possono venire in aiuto gli archivi di Stato, siti in ogni provincia, e gli archivi notarili, attraverso i quali si può risalire, a volte, sino all’XI secolo. Talvolta, succede di dover rinunciare a una ricerca genealogica per scarsità di notizie, dovuta a distruzioni, disastri, guerre che si sono succedute nei secoli. Domanda: 3.- Insomma, conoscere la verità, tutta la verità, soltanto la verità? R.: Conoscere la verità è la principale aspirazione dell’uomo. Il pensiero dell’individuo è costantemente teso verso un solo obiettivo, sempre lo stesso: sapere la verità a tutti i costi e con qualunque mezzo. Penso, però, che non sia mutato nulla nella sostanza del vero ricordo; certamente il fenomeno è da attribuire a questo momento di perdita d’identità della famiglia, dei legami di parentela con il contesto di appartenenza creando così un forte vuoto ideologico, anche se è un diritto di tutti cercare nei secoli trascorsi tracce di qualcosa che si è sempre pensato di essere stati e di aver posseduto. È un diritto di tutti e di ciascuno cercare parte di una storia che gli appartiene e che gli può essere finalmente restituita. Domanda: 4. – Ma allora, la storia è la verità del passato? R.: Nel trascorrere della storia sta racchiuso lo stesso avvenire: se esiste un metodo divinatorio capace di svelare i segreti del futuro e che abbia un fondamento scientifico, questo sta nell’esame meticoloso del passato, ed è sotto questo aspetto che la critica storica di una schietta genealogia acquista un valore positivo, un’eredità da tramandare, pensando che ognuno di noi ha due genitori, 4 nonni, 8 bisnonni, 16 trisavoli, che 8 generazioni fa eravamo alla vigilia della Rivoluzione Francese, che il nostro dodicesimo antenato era coetaneo di Michelangelo e che il settantesimo era addirittura un contemporaneo di Cristo. Risalendo di figlio in padre ritorniamo ai primordi dell’unanimità; in sostanza dovremo essere tutti fratelli. Domanda: 5. – Che cos’è l’Araldica? R.: L’Araldica è una scienza sussidiaria della storia che attribuisce forma di disciplina a una materia, interpretando e classificando i colori, le figure e i complementi che trae dai simboli presenti negli stemmi: in questo modo, l’Araldica, in virtù dei blasoni, ha contribuito a edificare e riscoprire tanta parte degli avvenimenti delle italiche genti, nonché la loro genesi e la loro interpretazione. Lo scrivere la storia di una famiglia, il ricostruirla nelle sue linee principali, rivendicandola da pochi frammenti di vita superstiti all’inesorabile opera del tempo, richiede una lunga esperienza e un lungo lavoro, sì da essere tenuta in altissimo onore presso il nostro popolo di squisita tradizione cavalleresca e da essere proclamata: “ la scienza della gloria ” o, come fu chiamata dai nostri avi, Nobilissima Armorum Scientia. Scienza, minuziosa e paziente, accessibile a pochi privilegiati, come i nostri ricercatori, che possiedono per carattere e per vocazione una squisita sensibilità storica. Domanda: 6.- Qual è il tipo di italiano che si rivolge a Voi, e perché lo fa? R.: L’interesse è generale, giacché a ognuno importa conoscere qualcosa di più della propria storia e delle proprie radici. Direi, anzi, che è nell’inconscio di ciascuno di noi il bisogno di cercare conforto in qualcuno, qualcosa, in una storia, che può servire talvolta a supplire al quotidiano. Ogni ceto, ogni età, uomini e donne, sono tra i nostri Clienti, e non solo alla ricerca di “ sangue blu ” ma, soprattutto, di schiette origini. Domanda: 7. – Non è anacronistico oggi parlare di nobiltà? R.: La nobiltà proviene dall’animo: è ciò che uno compie a renderlo nobile. Non dobbiamo confondere nobiltà con titolature che sono diventate il “ coronamento ” di una nobiltà preesistente. Il poter dimostrare d’avere un cognome illustre, di appartenere a una famiglia nobile, è sempre stata per molti una questione di grande importanza. In Italia esistevano prima del 1861 varie fonti nobilitanti e ciascuna con criteri e principî propri ai numerosi Stati che formavano l’assetto politico del nostro Paese. Le famiglie o le persone riconosciute come nobili dalla Consulta Araldica del Regno erano circa 8000. Altre 170/200 sono state riconosciute e/o nobilitate da Sua Maestà re Umberto II fra il 1948 e il 1983, anno della sua morte. Altresì, si calcola che ci siano oltre 2000 famiglie in possesso di titoli fasulli o convinti d’esser nobili. I falsi nobili o nobili falsi sono coloro che equivocano sul reale e non acclarato stato di nobiltà e ostentano stemmi e corone ottenute nel tempo oppure, oggi, da “principi” dalle pretensioni fantasiose. Domanda: 8.- Allora esistono falsificatori della storia, e chi sono i veri ricercatori? R.: Niente di più naturale, quindi, che lo storico sia un professionista nella ricerca della verità. In molti casi è un patito, ma sempre per costituzione morale si rivela un predestinato. Una cosa è certa: uno storico onesto esercita una missione, non un mestiere. Certo è che io, nella mia veste d’appassionato e di presidente di un impegnato Istituto che custodisce e coltiva le scienze araldiche e genealogiche, non ho potuto sottrarmi all’imperativo categorico di impegnare tutto me stesso e tutte le mie cognizioni in una battaglia contro i falsificatori della storia, ivi compresi alcuni “ principi di vanagloria ”, che siedono su un trono di cartapesta e cingono una corona di latta. Oggi più che mai si sta facendo scempio della materia a causa della presenza sul mercato di vari personaggi non meglio qualificati ( falsari ! ), che distribuiscono della cartaccia utilizzando il metodo computerizzato dell’estrapolazione cognominale, e cioè affibbiando a persone diverse la storia di una famiglia di autentiche origini nobiliari o schiatte borghesi. In altre parole, costoro forniscono notizie improprie sulla storia dei cognomi e degli stemmi senza rendersi conto che con tutto ciò mistificano un vero e proprio patrimonio familiare e, soprattutto, storico e nazionale. Contro questi ignobili mistificatori, che sono degli autentici attentatori della storia, abbiamo agito avanti l’autorità competente, e agiremo continuamente impiegando l’arma assoluta contro la menzogna: la verità. Domanda: 9. – Ai fini del mondo del lavoro, del sociale, del politico, è così importante appartenere a una famiglia blasonata, cioè nobile? R.: Vi è una società dei simboli e delle esteriorità dove un determinato tipo di aggregazione esclusiva può servire. Ciò che impensierisce è il fatto che talvolta l’appartenenza a un determinato gruppo serva solo a contare quanto pochi si stia rimanendo. Più in generale, però, va detto che serve sicuramente a una migliore relazione sociale. Domanda: 10.- Nella storia, che ruolo ha svolto la nobiltà e, politicamente, come si colloca un nobile rispetto, a esempio, a un ricco imprenditore? R.: Un tempo le famiglie nobili venivano ad accentrare in se stesse le alte cariche e il governo delle genti locali, e così facendo creavano il diritto al privilegio e altresì, attraverso liete o tristi vicende, quegli avvenimenti sui quali noi oggi edifichiamo la storia a insegnamento delle futuri generazioni. Certamente non saprei definire con esattezza il ruolo storico della nobiltà, perché per un certo periodo gli avvenimenti dipendevano unicamente da tale ceto e allo stesso vanno imputati quindi eroismi e virtù come ogni altra sorta di bruttura. L’attualità della nobiltà è quella di cui ho parlato prima: un titolo e una corona valgono se uniti all’esercizio di un vivere sociale adatto a quei valori a cui faceva riferimento la nobiltà e la cavalleria nella tradizione storica del tempo che fu. Domanda: 11.- La borghesia, che cosa ha tolto di rilevante alla nobiltà e dove invece non è stata capace di sostituirla? R. : Come il figlio è fedele depositario del nome intemerato tramandatogli dal padre, così la nobiltà è fiera e gelosa custode di ogni familiare tradizione, del nome, del mestiere, dei titoli, nonché di tutti gli spirituali privilegi e delle gloriose reliquie che costituiscono simboli e patrimonio della schiatta. Anche se la storia muta con il succedersi degli eventi, la borghesia era ed è uno status dal quale sono pervenute molte delle nobiltà civili, la cosiddetta nobiltà legale. Se nobiltà significa ascesa e tradizione, si può ben sostenere che la borghesia sia qualità essenziale che accompagna i singoli e onora i popoli. Domanda: 12. – È vero che tutti i nomi portanti la particella “ de ” o “ di ” sono di estrazione nobiliare? R. :. C’è del vero nel fatto che la particella “ de ” fa riferimento a un patronimico e/o matronimico, cioè al nome o soprannome del padre o della madre preceduti dalla preposizione di o dagli articoli determinativi lo, la, e in qualche caso dalla forma tronca f, figlio di ( a esempio De Paoli, De Franceschi, Fittipaldi ), e tutto ciò si aggancia all’uso latino del praenomen, nomen, cognomen, propri della Gens Romana e, quindi, di quella stirpe o casato. Peraltro, l’uso delle particelle è andato via via ampliandosi, e siamo fermi al “ De ” con D maiuscola e alla “ d ” minuscola, a tutto favore del significato nobiliare di quest’ultima. Domanda: 13. – Quanto costano le Vostre ricerche? R. : La filosofia dell’Istituto favorisce, con costi finali accessibili a tutte le borse e senza distinzione di ceto e di reddito, una ricerca monografica proveniente da fonti primarie e certe, con l’effettuazione di un albero genealogico rilevato dai nostri ricercatori nei luoghi d’origine della famiglia, seguendo a ritroso tutte le migrazioni della stessa, sia nella via canonica che archivistica, riproducendo le copie ( che vengono autenticate ), dei vari documenti, sino ad arrivare ai giorni nostri. Perciò, la nostra iniziativa culturale sta avendo un notevole successo anche se qualche “ baronia ” ci fa il volto delle armi. Ma noi siamo per l’espansione della cultura alle masse e soprattutto per la conoscenza e la promozione di quei valori volutamente dimenticati da questa repubblica. Domanda: 14. – Ma lo status Nobiliare è vero che non è più riconosciuto? R.: Permetta che la corregga, la Costituzione Italiana nella sua XIV disposizione transitoria non ha mai abolito i titoli nobiliari; semplicemente non li riconosce, ma il fatto stesso di non riconoscerli significa unicamente il disinteresse repubblicano sui titoli, che sono patrimonio privato, prima che storico; l’Assemblea Costituente non poteva privare i cittadini di un diritto insito in loro, perché è come se domani fosse approvata una legge che cancellasse determinati cognomi. Riteniamo, perciò, che la magistratura sia oggi l’unica Autorità che, sotto il profilo della tutela del più geloso e delicato fra i diritti della personalità umana – quello al nome – abbia il compito e la potestà di accertare la legale esistenza del status nobiliare di un determinato personaggio e di dichiararne la spettanza come parte del cognome, giusta il disposto della XIV disposizione transitoria e finale della Carta Costituzionale. Non riteniamo che una guerra perduta e il cambiamento di regime istituzionale possano “ cancellare ” la storia e non annettere ancora oggi un’innegabile importanza storica ai titoli di nobiltà; e qualunque sia l’opinione che si abbia in proposito, quello che è certo è che di fronte al fenomeno della reale esistenza di tali idee, il diritto non può trascurarle e deve studiare e regolare gli attriti che ne possono sorgere. È altresì stato autorevolmente detto che una saggia porzione della moderna società conserva un giusto rispetto verso le tradizioni nobiliari e ne pregia l’alto decoro, ove sia fondato, mentre anche l’altra parte della società, che ostenta noncuranza e talvolta disprezzo per le vetuste forme della vita, non va del tutto immune dalla seduzione del “ titolo ” e dal lustro che ne deriva, ed è per questo che i nostri dotti ricercatori si applicano a redigere coscienziose e avvalorate relazioni genealogiche, che valgono a provare il buon diritto degli aventi causa, se suffragato da probante documentazione. Pertanto anche oggi, si può far dichiarare lo status nobiliare tramite accertamento giudiziario avente forza di sentenza di primo grado emessa dal Tribunale Arbitrale Internazionale e omologata dal presidente di un tribunale ordinario, cui segue il riconoscimento dello status nobiliare in capo all’avente diritto, con relativa pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Questa pietra miliare costituisce una verità incontrastabile rendendo giustizia a chi spetta di diritto, ma soprattutto alla nobiltà sia antica che ex novo. Nel caso dell’aggiunta di un predicato nobiliare, si può ricorrere al suo riconoscimento e all’aggregazione al cognome, sempre che sia stato concesso prima del 28/10/1922. Domanda: 15. – Duca, qualche curiosità R.: Le confidenze non possono portare la firma di una buona penna soprattutto quando sono così personali. La ricerca per noi è gioia, tormento e scoperta: quando rinveniamo, anche casualmente, una traccia, la seguiamo sviluppandola con tenacia e intuito, sentendo con noi gli innumerevoli personaggi raccolti nelle nostre carte, vivendo la loro vita, quasi uniti da uno spirituale legame a quel mondo scomparso. Quanti ricordi! Quante amarezze, ma anche quante soddisfazioni! A esempio, nella ricostruzione di un albero genealogico un’ava del committente si era sposata per ben tre volte, e il caso voleva che i poveri mariti, tutti nobili e possidenti, dopo poco decedessero e lei ne ereditasse corposi cespiti e molti denari: ed ecco che al quarto matrimonio, un nobile milanese, ben guardingo per la fine dei suo predecessori, scoprì in flagranza la bella e libertina moglie, la denunciò ed ella fu processata e condannata a morte per veneficio. Altro esempio è il ritrovamento dei colori dello stemma gentilizio di S. Antonio da Padova e che i genitori del Santo erano di stirpe Sovrana. Una scoperta genealogica che abbiamo in serbo, ma il Cliente è sordo per l’accertamento del Status, riguarda il discendente diretto di Romolo Augustolo, ultimo Imperatore Romano d’Occidente. Altra chicca è che il noto attore italo-americano Silvester Stallone lo avevano volutamente documentato con uno stemma che non era assolutamente il suo, ma bensì di un’antica famiglia aristocratica veneziana. Il dramma fu quando noi scoprimmo l’inganno e il bravo Silvester dovette distruggere ben 12.000 pezzi tra piatti, bicchieri, caraffe, posateria, di eccellente fattura francese. Domanda: 16.- Che venti di nobiltà spirano in Europa? R.: In primis la Germania, a seguire Austria, Spagna, Inghilterra e Francia: insomma ci sono venti di giusta riscoperta in Europa di quei valori quasi esclusi: chi è nobile e sa di esserlo, difficilmente lo ricerca, al contrario di migliaia di persone che nulla hanno a vedere con l’Aristocrazia, e in questo momento si fanno in quattro per ricercare e ricostruire la loro giusta parte di storia. Non è un contagio, è un dovere consacrare a tramandare ai posteri un’origine che sarebbe altrimenti destinato a perdersi, un ricordo che rischia di scomparire alla prossima generazione; certo è che il crollo delle ideologie di sinistra sta decretando la fine della credenza di volerci tutti uguali. Domanda: 17. – Ma oggi chi può concedere nobiltà? R.: Il Sovrano fu ed è la fonte prima ed esclusiva del diritto e degli onori ( quod principi placuit legis habet valorem ), e tutti i più alti poteri si accentrano nel Sovrano. Il loro complesso viene indicato con l’espressione “ prerogative della corona ” che sono così schematizzate: a) jus imperii, cioè potestà di comando; b) jus gladii, cioè diritto all’obbedienza da parte dei sudditi; c) jus majestatis, cioè diritto a ricevere difesa e onori; d) jus honorum, cioè diritto di premiare, concedere onorificenza, dignità nobiliari e cavalleresche, o investire altri della potestà di concedere tali onori. Nel diritto pubblico odierno la sovranità appartiene allo Stato, ossia, come tutti sanno, al popolo giuridicamente organizzato sopra un territorio. Dire popolo è dire “ tutto ” il popolo, così com’è nella realtà della natura, con le sue diverse classi distinte fra di loro, costituita ciascuna da gruppi d’individui simili, abili o inabili, gregari o condottieri, favoriti o avversati dalla fortuna o dalla società. Oggi in Italia la concessione del titolo nobiliare, non essendo prerogativa dello Stato, avviene per virtù dei meriti riconosciuti alla persona dalle prerogative e dalle facoltà discrezionali del principe pretendente al trono. Tale riconoscimento va a persone che si siano distinte per azioni rivolte a favore della Casa Sovrana, per atti indipendenti di valore e di carità e per il riconoscimento di benemerenze conseguite, privatamente o pubblicamente, ma che abbiano toccato la sensibilità del principe pretendente, e prescinde da rapporti costituiti con la cosa pubblica e con la Patria di appartenenza del concessionario. Tale concetto è stato assunto in ogni tempo dalle Case ex Regnanti che hanno perso il trono a seguito di occupazione definitiva del territorio: in questo specifico caso, ove manchi la debellatio, è sorta la figura del principe pretendente al trono. Il Sovrano abbandona il suolo Patrio, ma non perde i diritti della sovranità, o per essere più esatto, conserva intatte alcune prerogative che continua a esercitare, mentre altre sono sospese. Non c’è dubbio però, che fra le prerogative che conserva integre sia compresa il JUS HONORUM, cioè il diritto di concedere titoli nobiliari e dignità onorifiche di ordini cavallereschi che facciano parte del patrimonio della Corona. Un titolo nobiliare attuale, se meritato e ben portato, è pari a quello assunto nei secoli trascorsi, in quanto qualsiasi cosa è attuale nel momento in cui si acquisisce: tale titolo nobiliare, essendo emanazione della prerogativa Sovrana ( rex nobilem tantum facere potest ), si trova di fronte al Sovrano nella posizione di “ oggetto ” di fronte a un “ soggetto ”; il titolo nobiliare non è così originale “ antico ”, ma “ dativo ”. Il suo uso, la sua trasmissione, sono regolati dall’atto di investitura attraverso le “ Lettere Patenti ”. Pertanto, una Casata Principesca, già Sovrana, ha sempre il carattere di una Dinastia e l’attuale Capo di Nome e d’Arme conserva i titoli, le prerogative e le spettanze dell’ultimo Sovrano spodestato col nome di principe pretendente, sia ora Altezza Reale, Altezza Imperiale o Altezza Serenissima. In Italia le Case Sovrane con queste prerogative sono diverse e ricordiamo fra le altre: CASE SOVRANE: – d’Asburgo – Lorena, Asburgo – Toscana, Asburgo – Este e Asburgo – Spagna – Casa Reale Paternuense – Balearide; – Casa Reale Normanna d’Altavilla ( seu d’Huateville ) Sicilia-Napoli; – Casa Imperiale Amoriense – d’Aragona; – Lascaris – Comneno; Angelo Comneno; di Costantinopoli; Paleologo di Bisanzio; – Casa Imperiale Focas, Flavio, Angelo, Ducas, Comneno, de Curtis, Gagliardi di Bisanzio; Sul trono dello Stato Vaticano abbiamo il Santo Padre Domanda: 18. – Ci sono commissioni Araldiche che operano in Italia? R.: Esistono sul territorio delle private Commissioni Araldiche che fanno capo all’Associazione Privata denominata Corpo della Nobiltà Italiana, che accertano tramite indagini genealogiche la eventuale spettanza dello Status nobiliare, anche se queste sono abbarbicate su superati e non consoni concetti scientifici e di progresso ( vedasi la non accettazione dei titoli ex novo ). Stessa perizia può essere fatta dal SMOM, Sovrano Militare Ordine di Malta, ma in questo caso si tratta di uno Stato atipico, e dalla Real Casa Borbone – Due Sicilie, i quali si trovano di fronte a delle richieste di ammissione di cavalieri nella categoria di giustizia dei propri Ordini. Domanda: 19. – I nobili risultano iscritti in tutti i diversi Libri d’Oro, d’Argento ed Aurei? R.: È opinione generale considerare come autentici nobili solo coloro che risultano iscritti nei vari repertori. Ciò non è esatto, poiché quegli stessi repertori sono tutti parziali e incompleti sia ieri, che oggi, e, ahimé, anche domani. Ricordiamo che ogni Casa Sovrana allora dominante obbligava tutti i sudditi di nobile status a sottostare a certe disposizioni di riconoscimento dei loro titoli nobiliari, e quindi venivano confermati solo mediante alcune condizioni di solito poco favorevoli alla situazione economica e ideologica degli interessati. Anche i Savoia esercitavano questa coercizione, richiedendo la corresponsione di una tassa. Di conseguenza, proprio il pagamento della gabella divenne discriminante per il riconoscimento del proprio titolo o titoli malgrado il loro pieno diritto, e dunque frequente divenne l’esclusione da quegli elenchi di cui sopra e che tuttora vengono pubblicati da private associazioni. L’esclusione stessa, però, non può dirsi condizione sufficiente a far terminare quel determinato titolo, perché come ho già sottolineato la Nobiltà non si perde nei secoli, ma resta vincolata alla famiglia. Vi è di più. Sulla base della citata XIV disposizione della Carta Costituzionale alcune famiglie aventi diritto pur non essendo registrate nel Libro d’Oro o negli Elenchi Ufficiali, adirono l’autorità giudiziaria affinché il loro predicato nobiliare fosse iscritto nei Registri Anagrafici come parte del cognome. Questo per dirle che in molti vi è una sensibilità che giustamente travalica gli angusti confini posti da quelle pubblicazioni, che molto spesso lasciano il tempo che trovano pur riconoscendo loro una certa autorevolezza. Concludo. Un nobile che desideri usare liberamente il titolo che gli compete, non ha assolutamente più bisogno di essere riconosciuto e, meno ancora, di risultare iscritto al Libro d’Oro o in altri Elenchi “ Ufficiali ” della Nobiltà Italiana. Il non essere iscritto non impedisce di continuare a fregiarsi del titolo, purché ovviamente sia veritiero, arrivando così a una netta distinzione fra “ titolo esistente ” e “ titolo riconosciuto ”. Quello che conta è l’effettiva concessione del titolo e la legale pertinenza di esso all’individuo o alla famiglia; pertinenza che deve essere comprovata mediante documentazione storica, genealogica, giuridica e canonica. Occorre cioè essere in possesso dell’atto potestativo di nomina ( lettere patenti e decreto ), che comprovi il diritto alla nobiltà vantata, in modo da non aver necessità di essere riconosciuto e, meno ancora, di risultare iscritto nei vari Elenchi. I titoli nobiliari conferiti dal Capo di Nome ed Arme di una Dinastia, per essere ricevuti e portati, non abbisognano di alcuna iscrizione nei registri della passata Consulta Araldica, né di registrazione nei diversi Elenchi Ufficiali o elencati negli attuali Libri d’Oro tenuti da privata associazione ( il Collegio Araldico ), in quanto quelli annotati ai sensi dell’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano riguardano esclusivamente i titoli concessi o riconosciuti dai Savoia e successivamente quelli del Vaticano, riconosciuti in conseguenza al Concordato dell’11 febbraio 1929. Domanda: 20. – Come si tutela oggi un titolo nobiliare o uno stemma? R.: Crediamo opportuno esaminare un po’ più a fondo l’argomento, anche se prima fugacemente citato sembrandoci che lo meriti così per l’importanza intrinseca, come per quella derivatagli dalla novità del caso e dalla probabile sua ripetizione nell’avvenire; poiché evidentemente siamo al principio di un risveglio da parte di molti oculati cittadini, i quali finora si erano accontentati o avevano creduto doversi accontentare dell’incompleto enunciato dalla Carta Costituzionale. Giacché molti sono coloro che ai titoli di nobiltà annettono ancora un’innegabile importanza storica, e ovviamente genealogica, e qualunque sia l’opinione che si abbia in proposito, quello che è certo è che di fronte al fenomeno della reale esistenza di tali idee, il diritto non può trascurarle e anzi deve studiare e regolare gli attriti che ne possono sorgere. Dispone la ricordata norma XIV transitoria della Costituzione vigente che ha ormai l’istituto araldico e nobiliare non ha più alcun riconoscimento da parte dello Stato, dettando: “ non sono riconosciuti i titoli nobiliari. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte integrante del cognome. La legge regolerà la soppressione della Consulta Araldica ”, fra l’altro mai avvenuta. La formulazione, non certo troppo felice di questa disposizione, dà luogo a disparità di pareri sulla sua interpretazione, ma con l’espressione “ non sono riconosciuti i titoli nobiliari ” non si è inteso abolire i titoli e vietarne comunque l’uso. Infatti, il diritto degli aventi ragione non è stato revocato e caducato con un conseguente divieto assoluto di farne uso, ma lo Stato si è spogliato della funzione che aveva – non per jure proprio – di concedere il crisma della legalità all’uso dei titoli o alla loro conferma, e a tutte le questioni araldiche, avendo il titolo nobiliare perduto la particolare protezione della legge. Secondo la Costituzione, insomma, allo Stato non interessa affatto che qualcuno abbia un titolo nobiliare sia atavico che nuovo, e non gli vieta di fregiarsene e farne uso nei rapporti pubblici e privati, né considera reato l’abuso di titoli nobiliari. La costituzione repubblicana, intenzionata a non soffocare e lasciar perire parte del patrimonio storico della nazione ( estrinsecatosi attraverso il rilascio del titolo di nobiltà ), ma volendo insieme sopprimere la nobiltà come distinzione onorifica di una categoria d’individui, lasciò che i titoli nobiliari rimanessero come puro ricordo storico e valessero come parte del nome nei loro disgiunti predicati, o figurassero accanto al cognome, giusta la loro funzione di predicato. Tale annotazione si rende necessaria per non nuocere alla dignità storica posseduta nel tempo dalla famiglia, onde il titolo diventa ricordo anagrafico, ossia biografia storica della persona. Pertanto, la magistratura ordinaria è oggi l’unica autorità che ha il compito e la potestà di accertare la legale esistenza in una determinata famiglia – e di dichiarare la spettanza – dei titoli nobiliari, predicati e stemmi annessi alla medesima. Oggi, come gruppo di studiosi del diritto nobiliare, attenti e conservatori delle tradizioni della storia patria siamo riusciti a coniugare la realtà giuridica con la virtù nobiliare, in quanto disquisire di elevazione nobiliare, oggi come ieri, non è anacronistico anche se ora in contrasto con gli orientamenti politici, filosofici e sociali che, alimentati da una logica di egualitarismo, vorrebbero negare storia e tradizione. Il Tribunale Arbitrale Internazionale, costituito nei modi e nei termini della legge italiana e del diritto internazionale, con sentenza accerta la spettanza del titolo nobiliare, del predicato e della legittimità dello stemma gentilizio in capo agli aventi diritto. La sentenza pronunciata dal Tribunale Arbitrale Internazionale assume la forza di sentenza di primo grado, secondo la legge italiana, dopo l’emissione del decreto d’esecuzione da parte del presidente del tribunale ordinario, ex art. 825 del codice di procedura civile. L’estratto della sentenza e del decreto del presidente del tribunale ordinario, sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. La suddetta sentenza, divenuta irrevocabile secondo la legge italiana, può avere esecuzione, salvo le limitazioni stabilite dal diritto internazionale, nel territorio degli Stati aderenti alla convenzione di New York del 10 giugno 1958. La sentenza, altresì, stabilisce la trascrizione sugli atti di cresima e di battesimo, secondo facoltà, del titolo e del predicato nobiliare. Questa pietra miliare costituisce una verità incontrastabile rendendo giustizia alla nobiltà che vanta un’eredità d’onore e un patrimonio di virtù. Domanda: 21. – La debellatio di Casa Savoia e le sue possibili implicazioni costituzionali a cosa portano? R.: La formale dichiarazione di fedeltà alla Costituzione repubblicana, compiuto per sé e per il figlio da Vittorio Emanuele di Savoia, rende attuali considerazioni di ordine giuridico i cui riflessi si dispiegano anche sull’efficacia di alcune delle disposizioni costituzionali direttamente e indirettamente coinvolte dalla riforma della XIII disposizione transitoria e finale della Carta. Per meglio chiarire i termini della questione, è per prima cosa opportuno distinguere fra abdicazione, rinuncia al trono e debellatio. Nel diritto pubblico moderno, il concetto di abdicazione, mutuato dal diritto romano, ha conservato il senso di volontario abbandono dell’ufficio regio in forza di una manifestazione di volontà dello stesso monarca, la quale ha per effetto di aprire regolarmente la successione come in seguito a morte. L’abdicazione è un atto di natura personale, che deve essere fatto solo per il Re e non per i suoi discendenti – rispetto ai quali potrebbe essere efficace solo con la successiva approvazione da parte del parlamento – né può ammettersi che il Re abdichi in favore di persona diversa da quella chiamata immediatamente a succedere in virtù della costituzione. Dev’essere assoluta, non temporanea o revocabile, di modo che il Re abdicatario non possa essere nuovamente chiamato al trono se non in virtù di una legge che modifichi l’ordine naturale della successione. Infine, deve risultare da atto autentico, di modo che nessun dubbio rimanga sulla manifestazione esplicita e libera della volontà del Re, anche se non si ritiene necessaria all’uopo una legge, trattandosi di un atto personale del Re. L’abdicazione, a propria volta, si distingue dalla rinuncia all’eredità del trono, che consiste nel rifiuto o non accettazione della corona al momento dell’apertura della successione ( per cui chi abdica è Re mentre chi rinuncia non è ma dovrebbe diventare tale ) e dalla debellatio, termine mutuato dal diritto internazionale, ove indica il fenomeno corrispondente alla totale dissoluzione di uno Stato vinto. Con riferimento a un sovrano o a un pretendente, la debellatio consiste invece nella perdita della sovranità mediante un atto spontaneamente accettato con il quale essi rinunciano alle proprie funzioni e alle particolari prerogative connesse all’effettivo esercizio del potere. In mancanza di essa, compete al sovrano, in qualunque modo sia stato spodestato, la continuazione di alcune manifestazioni del potere regio, e sorge la figura del pretendente. Con la debellatio, purché essa non sia imposta e sia liberamente effettuata, il sovrano e il pretendente rientrano nel novero dei privati cittadini, pur conservando i titoli sovrani con la qualifica di Altezza Reale. Senza la debellatio, invece, i titoli sovrani spettano al sovrano in quanto tale e ai suoi discendenti, e restano tali anche quando il sovrano abbia perduto la effettiva sovranità su di un territorio: titolare ne è sempre il primogenito e la sovranità ( sia pur priva del jus imperii, cioè della potestà di comando, del jus gladii, vale a dire del diritto all’obbedienza da parte dei sudditi, e del jus majestatis, ossia del diritto a ricevere difesa e onore ) fa comunque parte del patrimonio della famiglia. In altre parole, un sovrano potrà sì essere privato del trono, e cioè essere spodestato; potrà anche essere bandito dal paese, ma non potrà mai essere privato della sua qualità: in queste fattispecie, come detto, mancando la debellatio, ha origine il pretendente al trono, istituto anch’esso internazionalmente riconosciuto. Al pretendente è generalmente imposto di abbandonare il suolo patrio ma mantiene comunque intatti quei diritti della sovranità al cui esercizio non è di ostacolo la mutata posizione giuridico-istituzionale e che può continuare a esercitare, mentre gli altri vengono sospesi: non c’è dubbio che fra i diritti che conserva integri sia compreso il jus honorum, cioè il diritto di conferire titoli nobiliari e gradi onorifici di ordini cavallereschi che facciano parte del patrimonio personale dinastico della famiglia. I sovrani che abbiano perduto il trono a seguito di regolare debellatio e i pretendenti che compiano regolare atto di rinuncia o comunque che contrastino con la volontà di conservare la figura di pretendente, conservano all’infinito la sola titolatura sovrana, senza i diritti inerenti; cessa altresì ogni diritto alla eventuale riassunzione al trono. Per tornare alle conseguenze istituzionali della formale dichiarazione di fedeltà alla Costituzione repubblicana di Vittorio Emanuele di Savoia e del figlio, essa configura l’ipotesi della debellatio per sé e per i discendenti, e comporta riflessi attuali di ordine giuridico che si dispiegano su diversi piani, interni ed esterni a Casa Savoia. In ogni caso, Vittorio Emanuele di Savoia era già decaduto dal rango di pretendente per effetto delle leggi dinastiche che regolano la successione al trono – l’art. 92 del vigente codice civile, che dispone che ” Per la validità dei matrimoni dei Principi e delle Principesse reali è richiesto l’assenso del Re Imperatore “, e le Regie Patenti del 7 settembre 1780 e del 16 luglio 1782, emanate da Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, secondo cui per il matrimonio dei ” principi del sangue ” occorre il consenso del sovrano e, qualora il consenso non ci sia e il matrimonio “fosse stato contratto con persona di condizione e stato inferiore, tanto i contraenti che i discendenti di tale matrimonio s’intenderanno senz’altro decaduti dei diritti provenienti dalla Corona e dalla ragione di succedere nei medesimi come pure di ogni onorificenza e prerogativa della famiglia “. Ebbene, re Umberto II negò formalmente il consenso alle nozze del figlio con Marina Doria né, come pure avrebbe potuto fare secondo le stesse Regie Patenti, convalidò il matrimonio. Infatti, con una nota indirizzata a Vittorio Emanuele, gli ricordò ” la legge della nostra Casa, vigente da ben ventinove generazioni e rispettata dai 43 Capi Famiglia, miei predecessori, succedutisi secondo la legge Salica attraverso matrimoni contratti con famiglie di Sovrani. Tale legge, io 44° Capo Famiglia, non intendo e non ho diritto di mutare, nonostante l’affetto per te “. Per inciso e con riferimento alla possibilità per Vittorio Emanuele di Savoia di continuare a conferire distinzioni cavalleresche degli ordini cavallereschi sabaudi pur dopo la cessazione degli effetti della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione, l’applicazione delle citate Regie Patenti avrebbe già comportato la recisione in radice di tale prerogativa. Oggi, dopo che il figlio di re Umberto II è divenuto a tutti gli effetti cittadino italiano, gli si applicano senza limiti tutte le disposizioni normative vigenti nel nostro Paese, ivi compresa la legge 3 marzo 1951, n. 178 – disciplinante l’Istituzione dell’Ordine ” Al merito della Repubblica italiana ” e disciplina del conferimento e dell’uso delle onorificenze – il cui art. 8 prevede che ” Salvo quanto è disposto dall’art. 7 ( che riguarda gli ordini non nazionali o conferiti da Stati esteri ), è vietato il conferimento di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, con qualsiasi forma e denominazione, da parte di enti, associazioni o privati. I trasgressori sono puniti con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 1.250.000 a lire 2.500.000 “. L’art. 9 della legge n. 178/1951 dispone a propria volta che ” L’Ordine della SS. Annunziata e le relative onorificenze sono soppressi. L’Ordine della Corona d’Italia è soppresso e cessa il conferimento delle onorificenze dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro “. Ma quand’anche non si volesse considerare Vittorio Emanuele di Savoia già decaduto dal rango di pretendente al trono per effetto delle disposizioni dianzi citate – pur volendo, cioè, riconoscere al principe, ex ante, la qualifica di pretendente al trono in virtù della mancata debellatio del Padre, re Umberto II – cionondimeno la cessazione degli effetti della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione repubblicana comporta un duplice ordine di conseguenze. Il primo aspetto è che viene reciso ogni legame fra l’ordinamento vigente – che nella sua massima espressione indica indirettamente Casa Savoia come legittima pretendente al trono, chiunque ne sia l’erede all’interno della Famiglia secondo le leggi dinastiche – e la Casa stessa, di modo che, scomparendo dalle norme costituzionali ogni riferimento positivo alla ex casa regnante, si azzera ogni pretendenza giuridicamente fondata ( s’intende, secondo l’ordinamento repubblicano ) nella famiglia Savoia, mettendola sullo stesso piano di qualsiasi altra famiglia, sia essa titolata o meno ( con il risultato, marginale, che ogni dibattito o discussione su chi sia l’erede al trono fra i diversi membri della ex casa regnante non riguarda più direttamente la pretendenza al trono d’Italia ma degrada a mera questione interna alla famiglia Savoia, con l’ulteriore esito che la caducazione degli effetti della XIII disposizione importa che nessun altro membro della ex famiglia reale, eventualmente riconosciuto erede al trono in virtù delle leggi dinastiche dianzi citate, possa più essere esiliato in vece dei discendenti maschi degli ex re di Casa Savoia, cui fa riferimento diretto la XIII: in quest’ordine di idee, è in ogni caso Casa Savoia Aosta la legittima pretendente al trono d’Italia, e ciò nel suo Capo, Amedeo di Savoia, duca d’Aosta ). La seconda conseguenza, strettamente connessa alla prima e tutt’altro che secondaria, è che con la cessazione degli effetti della XIII disposizione transitoria e finale della Carta fondamentale si esauriscono altresì, per ciò stesso, gli effetti della norma costituzionale di cui all’art. 139, contenuta nella sezione dedicata alla revisione della Costituzione, secondo cui ” La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale “. Infatti, la considerazione della sussistenza di un contrasto fra quest’ultima disposizione, che la dottrina considera di autorottura costituzionale, e la norma di cui all’art. 1 della Costituzione, contenuta nei Principi fondamentali di essa, secondo cui ” La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione “, comporta il corollario ineludibile di una limitazione intrinseca del dispiegamento degli effetti di cui all’art. 139 sino a che permangano quelle condizioni di emergenza o di pericolo che ne costituirono la ragion d’essere e che ne determinarono l’adozione e la vigenza, che sono le medesime che consigliarono ai Costituenti di apprestare la XIII, come risulta dai lavori preparatori della Costituzione: invero, si volle escludere la modificabilità della forma istituzionale ritenendo pericoloso per la vita stessa delle istituzioni riproporre una decisione sul tema. Ora, dato che l’art. 139 è intimamente intrecciato, nella sua ratio, alla XIII, cessando gli effetti di questa vengono meno anche, per disapplicazione, gli effetti di esso. Chi ne ricava veramente nuova luce o, meglio, luce tout court, sono i principî di sovranità popolare e democratico che, non più condizionati, possono manifestarsi liberamente anche sotto il profilo della libertà nella scelta istituzionale, perché la sovranità di cui parla l’art. 1 della Carta costituzionale, cessando gli effetti di cui all’art. 139, ritorna veramente al popolo. Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, cioè, anche ove il suo esito fosse stato diverso, ha di per sé introdotto nell’ordinamento un fondamento di sola sovranità popolare nella forma istituzionale, che l’ordinamento può sì comprimere, purché, in ogni caso, la durata della limitazione non sia indeterminata, salvo negare la sua stessa essenza: non si può infatti porre a fondamento della scelta del sistema istituzionale il principio di sovranità popolare e, al tempo stesso, la negazione di esso. La contraddizione, cioè, non può essere imperitura, salvo dover affermare che l’ordinamento repubblicano, così come configurato dalla Costituzione, degradi a regime illiberale. La questione istituzionale allora, non essendo più limitata nella scelta la forma monarchica alla sola famiglia Savoia, ne risulterebbe ” sdoganata “, e nessun ostacolo sussisterebbe più, formalmente, a un libero e sereno dibattito su monarchia e repubblica ed eventualmente, qualora gli italiani lo volessero, alla celebrazione di un nuovo referendum istituzionale, non condizionato da un riferimento giuridicamente doveroso ad alcuna famiglia o dinastia predeterminata se non per eventuali considerazioni di ordine differente. 22. Concludendo, potremmo dire: a) la Nobiltà è solo emanazione della prerogativa Reale, Imperiale e Serenissima e, per essere più precisi, Sovrana; b) Una volta acquisito il titolo nobiliare con relativo predicato e arme, non si ha perdita per non uso o prescrizione, facendo parte esso come attributo del patrimonio indisponibile della persona; c) il predicato dovrebbe far parte integrante del cognome; d) non debbono confondersi i “ Titoli Nobiliari ” con i “ Titoli Sovrani ”, anche se la loro particolare qualificazione ( es. Principe ) può essere la medesima e ricordare che se i primi sono sottoposti a particolari norme ( circa il loro riconoscimento, la successione, ecc. ), i secondi non hanno bisogno di alcuna formalità, in quanto nativi. Così il concetto di nobiltà, oggi spoglio d’ogni vanagloria e privilegio, si inserisce nella sociologia quale affinamento della specie umana nel suo continuo divenire, al fine di tenere alto il vessillo della storia patria, che è simbolo di rispetto delle tradizioni, forza innegabile della vita e fonte di energia in qualsiasi evoluzione di tempi, di società e di Istituzioni.

Don Francesco Maria Mariano Duca d’Otranto

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