Ordinamento Nobiliare Casa Savoia 1935

Ordinamento Nobiliare Casa Savoia 1935

PARTE I – PRECEDENTI STORICO GIURIDICI

1) La nobiltà nel diritto romano
2) La nobiltà al tempo delle invasioni barbariche
3) Il feudalesimo in Italia
4) Distinzione di feudi
5) Il titolo feudale
6) La successione nei feudi
7) La vita milizia e la dote di paraggio
8) La réfuta
9) La perdita del feudo
10) Il matrimonio nel diritto feudale
11) La successione feudale napoletana
12) La successione feudale siciliana
13) Il fedecommesso
14) La nobiltà dall’epoca dei Comuni alla abolizione del feudalesimo (nobiltà per diplomi, per cariche, derivante dagli ordini cavallereschi esistenti in Italia [di S. Maurizio e Lazzaro di Piemonte, di Leopoldo di Austria, di S. Ludovico di Parma, di S. Giuseppe di Toscana, Pontifici: della Milizia Aurata, Piano], di distinta civiltà). (In nota: gli Ordini Pontifici della Milizia Aurata o dello Speron d’Oro, di S. Silvestro, Piano, di San Gregorio Magno, del S. Sepolcro di Gerusalemme).

LA LEGISLAZIONE NOBILIARE DEI VARI STATI PRECEDENTI L’UNITÀ ITALIANA

15) Piemonte
16) Genova
17) Sardegna
18) Lombardia
19) Veneto
20) Parma
21) Modena
22) Lucca
23) Toscana
24) Province romane
25) Napoletano
26) Sicilia
27) Le varie specie di nobiltà secondo gli scrittori

PARTE II – LEGISLAZIONE POSITIVA

28) Fondamento del potere del Re di conferire titoli nobiliari – Varie teorie
29) Teoria della R. Prerogativa – Concetto di prerogativa – Opinioni di scrittori – Impugnativa del R. D. 16 agosto 1926 n. 1489 e raffronto di detto Decreto con quello 21 gennaio 1929, n. 61
30) Teoria del potere di autarchia o di autodecisione del Re
31) Teoria della facoltà regolamentare
32) Teoria della competenza istituzionale
33) Attributi della R. Prerogativa
34) Titoli, trattamenti e stemmi della Famiglia Reale
35) Mantenimento ed acquisto di titoli, predicati, qualifiche e stemmi
36) Titoli ammessi nel Regno
37) Titolo di Principe
38) Titoli di Principe Reale Ereditario, di Principe Reale, di Principe del Sangue
39) Titolo di Duca (In nota: I titoli di pretensione)
40) Titolo di Marchese
41) Titolo di Conte – Conte Palatino – Conte Lateranense (In nota: il Contestabile, l’Ordine Pontificio di S. Giovanni Laterano detto dei Cavalieri Pii)
42) Titolo di Visconte
43) Titolo di Barone Barone (In nota: I Baroni di franco allodio)
44) Titolo di Signore
45) Titolo di Patrizio e Nobile Civico
46) Titolo di Cavaliere Ereditario
47) Titolo di Nobile
48) Titolo di Città
49) Il predicato
50) Qualifiche e trattamenti (In nota: I Marchesini baldacchino, il Sovrano Ordine Militare di Malta, i quarti di nobiltà)
51) Manifestazioni della R. Prerogativa – Provvedimenti Sovrani di grazia
52) La rinnovazione
53) Il riconoscimento
54) L’autorizzazione. I titoli della Repubblica di S. Marino.
55) I titoli nobiliari pontifici prima del 1929
56) I titoli nobiliari pontifici dopo il Concordato Lateranense. (In nota: Il titolo di Conte conferito agli Arcivescovi e Vescovi assistenti al Soglio Pontificio) .
57) L’assenso
58) I Provvedimenti governativi di giustizia
59) I provvedimenti governativi di giustizia e la R. Prerogativa
60) Lo stemma. (In nota: Bibliografia di stemmari)
61) Lo stemma della Famiglia Reale
62) Lo stemma delle Province e dei Comuni – I Gonfaloni – L’emblema Araldico dell’Istituto del Nastro Azzurro
63) IL FASCIO LITTORIO E IL CAPO DEL LITTORIO
64) Stemmi conferiti dal Sommo Pontefice
65) Lo scudo, i sostegni o supporti e i tenenti. (In nota: Gli smalti e la tratteggiatura).
66) L’elmo e gli svolazzi
67) La corona della Famiglia Reale
68) La corona delle famiglie nobili
69) La corona degli enti morali: Provincia, Città, Comune
70) Il cimiero, la ornamentazione della basilica, il manto, i motti e le distinzioni di dignità.
71) Le insegne femminili
72) Le tasse nobiliari e i diritti di cancelleria
73) Modi di acquisto delle distinzioni nobiliari: originario e derivato; raffronto. La investitura – Il privilegio
74) Incommerciabilità, imprescrittibilità, divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso
75) La surrogazione nel titolo in seguito a réfuta
76) Acquisto della nobiltà per matrimonio. (In nota: Il matrimonio morganatico)
77) La primogenitura – L’abuso dei diminuitivi
78) Il titolo ex feudale appoggiato al cognome
79) Divieto di rinnovazione e di passaggio ad altra famiglia di titoli concessi da Potenza estera
80) I titoli concessi da Sovrani italiani prima dell’unificazione nazionale. (I titoli del Sacro Romano Impero, quelli conferiti da Napoleone I, da Murat, di Conte Palatino).
81) Il chirografo sovrano non seguito dal diploma
82) Il possesso di un territorio o ex feudo titolato
83) Il Grandato di Spagna. I titoli stranieri (In nota: La Paria di Sicilia)
84) La perdita della nobiltà nelle vicende storiche
85) La perdita definitiva e temporanea (ossia sospensione) della nobiltà
86) Gli infermi di mente – Gli ecclesiastici
87) La successione nobiliare e la successione civile – Differenze
88) La filiazione legittima, naturale derivante da matrimonio putativo
89) La filiazione legittimata
90) La filiazione adottiva
91) Le donne titolate – I titoli degli ultrogeniti
92) Regime dei titoli ricevuti per via di femmine o in possesso di femmine
93) Divieto di surrogazione nei titoli e nel nome – Restituzione in forma italiana di cognomi e predicati nobiliari
94) Successione eccezionale nei titoli da parte di donne
95) Uso di titoli da parte del figlio primogenito dell’intestatario
96) Uso da parte del marito di titoli della moglie; passaggio dei titoli in caso di assenza
97) Libertà della R. Prerogativa di non attenersi alle disposizioni dell’ordinamento nobiliare
98) La Consulta Araldica
99) Sua composizione
100) La Giunta Araldica
101) Ripartizione di competenza fra la Consulta e la Giunta Araldica
102) Funzionamento della Consulta e della Giunta Araldica
103) Portata delle deliberazioni della Consulta e della Giunta Araldica
104) Il Commissario del Re
105) Le Commissioni Araldiche Regionali
106) L’Ufficio Araldico
107) I libri araldici
108) Il libro d’oro
109) Il libro dei titolati stranieri
110) Il libro degli stemmi di cittadinanza
111) Il libro degli enti morali
112) L’elenco ufficiale nobiliare
113) I documenti d’archivio
114) Natura del diritto ai titoli nobiliari – Varie teorie degli autori e della giurisprudenza
115) Attività da svolgersi per ottenere provvedimenti nobiliari
116) La domanda
117) Prove documentarie da porre a corredo della domanda. (In nota: Ordini Cavallereschi italiani estinti che richiedevano la prova della nobiltà: di S. Stefano di Toscana, di S. Gennaro di Napoli. L’Ordine Sacro Angelico Imperiale Costantiniano di S. Giorgio di Napoli e di Parma)
118) Istruttoria della domanda
119) Opposizione di terzi in sede amministrativa
120) Esame della domanda da parte della Giunta o della Consulta Araldica
121) Comunicazione delle deliberazioni della Giunta e della Consulta Araldica al Capo del Governo – Provvedimenti consequenziali
122) Impugnativa contro il rigetto della domanda – Ricorso in via giudiziaria
123) Limiti fra l’esercizio della R. Prerogativa e l’autorità giudiziaria
124) Obbligo della notifica all’Ufficio Araldico dell’inizio delle contestazioni giudiziarie su titoli nobiliari
125) Obbligo di promuovere la iscrizione nei registri della Consulta Araldica delle decisioni dell’autorità giudiziaria
126) Uso dei titoli nobiliari – Obbligo della iscrizione nei registri della Consulta Araldica dei titoli e attributi nobiliari
127) Contravvenzione per uso illegittimo di titoli
128) Delitto di usurpazione di titoli
129) Azione di tutela dei titoli: di reclamo e di contestazione
130) Testo del R. D. 22 settembre 1932 n. 1464 relativo all’imposizione di tassa per i provvedimenti nobiliari «di giustizia»

PARTE I

PRECEDENTI STORICO GIURIDICI

La nobiltà nel diritto romano
Prima di passare all’esame del nuovo ordinamento e per poter valutare con esattezza la sua portata e la sua grande importanza legislativa unificatrice, si rende necessario conoscere quali erano gli ordinamenti e le consuetudini abrogate che regolavano la materia nobiliare.
In diritto romano antico erano chiamati patres o anche patricii i signori o capi che stavano a rappresentare nel Senato le antiche gentes ed essi formavano una nobiltà ereditaria. Successivamente quando la scelta dei senatori venne fatta anche tra persone che avevano ricoperto cariche pubbliche, questi senatori, che potevano essere indifferentemente patrizi o plebei, erano chiamati conscripti. Ma poiché col tempo si era indebolita l’organizzazione gentilizia, e siccome solo i patrizi potevano essere patres, mentre i plebei non potevano essere che conscripti, col termine patres venivano designati i senatori patrizi, e con quello di conscripti i senatori plebei. Donde la espressione patres conscripti serviva ad indicare l’insieme dell’assemblea senatoria1 .
Ma rallentatisi i primitivi rigidi costumi romani, venne a costituirsi una nobiltà plutocratica, accanto agli antichi patrizi, formata da quei magistrati che nel governo delle province avevano accumulato ricchezze enormi. Fu questa nobiltà che introdusse l’uso di tener esposte nell’atrio delle case le figure di cera degli antenati che avevano rivestito cariche curuli, ed essa sola aveva lo ius imaginum.
Una specie di nobiltà inferiore era costituita dai cavalieri, i quali avevano aumentato le loro ricchezze facendo gli appaltatori delle imposte ed i commercianti. Essi risorsero sotto l’impero e furono chiamati a coprire, insieme coi senatori, tutte le cariche dello Stato. Di tal che la nobiltà ereditaria come era all’epoca regia si trasforma in nobiltà burocratica nell’epoca repubblicana e tale si conserva sotto l’Impero.
Il carattere fondamentale della nobiltà romana può così considerarsi come una causa d’onore per le gesta degli antenati2 , e tale concetto ritorna nell’ordinamento nobiliare rimasto dopo l’abolizione della feudalità, perché fa del titolo soltanto una decorazione del nome di famiglia.
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1 – BONFANTE, Storia del Diritto Romano, 3a ediz., 1933, pagina 81; DE FRANCISCI, Storia del dir. rom., vol. I, pag. 132, 265, Roma 1926.

2 – FADDA e BENSA, Annotazioni alle Pandette del Windscheid, vol. IV, pag. 172, Torino 1926. La descrizione dei privilegi dei senatori, dei patrizi e dei cavalieri romani, nonché dei loro segni distintivi, trovasi in MOMMSEN, Disegno di diritto pubblico romano, trad. Bonfante, Milano, pag. 43.

La nobiltà al tempo delle invasioni barbariche
L’intima connessione della nobiltà con le istituzioni politiche impone la necessità di tracciare a grandi linee, e dal nostro punto di vista, quale sia stato nel nostro paese lo svolgimento delle istituzioni stesse dalla caduta dell’impero romano (anno 476 d. Cristo) alla abolizione del feudalesimo. È da ricordare anzitutto che le invasioni barbariche culminarono al V secolo.
Nell’ordinamento longobardico in Italia stava a base il principio del diritto barbarico della inscindibilità perfetta fra l’amministrazione civile e quella militare, per cui i capi dell’ordinamento militare e gli ufficiali erano i reggitori e gli organi del potere civile.
A base del governo locale stavano i duchi (duces, ducones) che erano gli antichi capi popolari, ed il territorio era ripartito in ducati che generalmente prendevano il nome dalla città che ne era capoluogo. I duchi erano sottoposti al potere prevalente del Re ed erano di nomina regia, ma, in conseguenza della loro origine popolare avevano ufficio vitalizio nei loro distretti ed assomma vano nelle loro mani ogni autorità militare, giudiziaria e di polizia.
La restaurazione dell’impero romano d’occidente, rimasta nei voti delle popolazioni italiche durante le invasioni barbariche, venne realizzata da Carlo Magno a Roma la notte di Natale dell’800, ma l’elemento barbarico predominante non fu in grado di comprendere la necessità di un governo centrale che lo avesse guidato sulla via del progresso, pur nominandolo con la forza. Di tal che, 29 anni dopo la morte di Carlo Magno, il suo impero si divise in tre stati: Francia, Germania e Italia; e, dopo Carlo il Calvo, ognuno di essi fu diviso in una quantità di possessi grandi e piccoli, che iniziarono il periodo storico del feudalesimo3 .
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3 -Immensa è la bibliografia sul feudalesimo, che può rilevarsi dalle opere di storia del diritto italiano, ultime fra l’altre quelle del SALVIOLI, 9a edizione, Torino 1930; SOLMI; 2a edizione, Milano 1918 – con la bibliografia citata.

Il feudalesimo in Italia
In Italia i diversi popoli germanici, che si erano succeduti: Eruli, Goti, Longobardi, Franchi, vi avevano gettato il seme del feudalesimo germanico, ma le impronte lasciate dalle istituzioni romane nelle province erano rimaste così vive soprattutto nelle città, dimodoché il regime feudale acquistò in Italia un carattere tutto speciale. Gli Imperatori nell’Italia settentrionale e centrale, per tenerla meglio assoggettata, accanto ai feudatari laici, dei quali poco si fidavano, concessero amplissimi poteri ai Vescovi, e, non di rado, l’ufficio del conte nelle città di loro residenza, con l’incarico di organizzare una propria feudalità sulla quale gli Imperatori potessero contare.
Dato che la feudalità aveva una base spiccatamente militare e gerarchica, in Lombardia si distinsero 4 gradi di feudi e di nobiltà.
Al primo appartenevano i feudatari maggiori o principes, aventi feudi col titolo di duchi, marchesi, conti, i vescovi, gli abati e le abadesse possessori di feudi. Essi formavano la curia del principe ed eleggevano gli imperatori ed i re.
Al secondo appartenevano i capitanei, detti poi generalmente conti.
Al terzo entravano i vassalli dei capitanei, o valvassori.
Al quarto i vassalli dei valvassori, chiamati valvassori minori o valvassini.
Con nomi e titoli diversi, le stesse classi appariscono nelle altre regioni d’Italia: nella centrale e parte della meridionale abbiamo tre classi: conti, baroni e militi, in Piemonte e Savoia: baroni, banderesi e vassalli.
Da questi rapporti feudali, era rimasta quasi immune parte dell’Italia meridionale e la Sicilia, ma vi si svilupparono poscia, soprattutto con le signorie normanne e con la formazione della monarchia in Sicilia. Quest’ultima ridusse ad obbedienza i capi normanni, che avevano costituito signorie autonome, e formò una vasta gerarchia feudale, che anche la monarchia sveva succeduta, tenne a freno. Ma quest’opera di freno non fu seguita né dagli Angioini in continente, né dagli Aragonesi in Sicilia.
Di fronte allo sviluppo delle signorie feudali sorge anche l’inizio delle libertà comunali nelle città.
Per il fatto che l’obbligo del servizio militare era uno dei principali doveri derivanti dalla tenuta del feudo, la milizia acquistò carattere professionale e divenne l’occupazione favorita e quasi esclusiva della nobiltà, ed i nobili furono chiamati con l’appellativo di milites, cavalieri, titolo d’onore e dignità, ereditario come il feudo, che li teneva segregati dalla plebe ed imponeva loro doveri rigorosi e precisi.
Allora si stabilirono le condizioni richieste per l’ammissione al cavalierato, il tirocinio, le prove preparatorie, i voti solenni con cui avveniva la vestizione, condizioni e riti che miravano studiatamente a conservare l’istituzione come patrimonio sacro nel seno della nobiltà, a mantenere puro lo spirito di corpo, a preservare la nobiltà da ogni corruzione.
La cavalleria si diffuse in Europa ed in Oriente, e rifulse al tempo delle crociate, le quali furono incentivo alla creazione di nuovi ordini cavallereschi con carattere misto di religione e di milizia.
Dopo il mille l’antica nobiltà militare fu combattuta dai comuni e dal monarcato, e decadde sotto il potere delle repubbliche comunali e dei principi, e cominciò il secondo periodo del feudalesimo, quello che può dirsi curtense, nel quale l’elemento privato del feudo, con tutto l’apparato economico e fiscale, prevale sull’elemento pubblico, e questo apparato economico e fiscale persiste attraverso il medio evo e l’epoca moderna fino al secolo XVIII.
In generale può dirsi che nell’alta Italia il feudalesimo come istituzione politica cessò di avere importanza nel secolo XIII, avendo i comuni di Toscana, Emilia e Lombardia abolito i vincoli personali ed il servaggio della gleba.
Le antiche classi feudali formarono la nobiltà, i magnati dei comuni e delle monarchie, con diritto speciale, privilegi, immunità ed onori, ma senza esercizio di sovranità territoriale, cioè senza diritto di tener tribunali, far leggi, tenere armati, ecc. Il feudalesimo invece nell’Italia meridionale si mantenne potente fino al XVIII secolo4 .
Carattere della feudalità italiana è che, anche dopo la costituzione delle grandi e piccole monarchie nella penisola, la maggior parte dei principi riconobbe gli stati come feudi avuti dall’imperatore, al quale prestavano i doveri feudali. Ciò avvenne specialmente per i principi dell’Italia settentrionale, i quali intervenivano alle diete dell’impero e sottostavano alle decisioni dell’imperatore per le questioni che sorgevano fra i principi stessi.
Ma allorquando gli eserciti sovrani non furono costituiti soltanto dalla nobiltà, ed al servizio militare fu sostituita l’adoha o adobha (contributo di denaro a vantaggio del signore, detta anche hostenditiae, e nell’Italia meridionale bursale) che servì per assoldare le compagnie di ventura, e furono formati dei veri e propri eserciti, dei quali fu capo il sovrano, la nobiltà perdette l’importanza politica che aveva prima, e si distinse dal popolo, sia per gli uffici ad essa riservati, sia per i privilegi di cui godeva.
Nei Libri Feudorum, compilazione privata dei secoli XII e XIII, divenuti il diritto comune intorno ai feudi, si trovano le fonti del diritto feudale, sull’oggetto del feudo, sui diritti ed obblighi che ne derivano pel Signore, per il vassallo, sui modi d’investitura, sulle regole della successione feudale5 .
Dato che nel medio evo era nobile chi era possessore di feudi e quindi feudatario e nobile erano sinonimi, occorre qui tracciare i principi del diritto feudale per quanto si attiene ai titoli nobiliari. Sarà detto in seguito dei titoli nobiliari di origine non feudale (vedi n. 18).
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4 – SALVIOLI, op. cit., pag. 213.

5 -Una sintetica ricostruzione storica della successione feudale trovasi nella sentenza della Corte di Appello di Napoli in sede di rinvio, 13-1-1931, Malagola Ubaldini – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Foro It., 1931, 1, 1309.

Distinzione di feudi
I feudi venivano distinti in titolati o di dignità e in non titolati. Nei titolati si riteneva che il titolo fosse loro inerente, e quindi passasse col possesso. I non titolati si chiamavano anche ignobili o burgensi. Il feudo titolato, anche se fosse passato ad un uomo rustico, rimaneva nobile, e viceversa il feudo rustico rimaneva tale anche se fosse passato ad un nobile. Inoltre un uomo rustico se avesse comprato un feudo nobile non diventava nobile, essendo opinione comune che generositas et virtus pecuniis comparari non possunt.
Se invece un nobile non titolato acquistava un feudo titolato, poteva prenderne il titolo.
Altra distinzione era quella di feudi di forma larga, alla cui successione erano chiamati tutti gli eredi, e feudi di forma stretta alla cui successione avevano diritto i soli discendenti; e quella di feudi pazionati, ereditari e misti. Si chiamavano pazionati, e in altre regioni retti e legali, o ex pacto et providentia, quelli concessi con la formula: tibi et filiis; tibi et successoribus; tibi et discendentibus ex legitimo corpore, nei quali feudi succedevano solo gli eredi del sangue del primo investito, ex pacto primi adquirentis et ex providentia dantis (del signore) in favore cioè dei discendenti del primo investito. Si chiamarono impropriamente feudi «ereditari», feuda mere haereditaria, quelle terre che erano paragonate ad allodio, che venivano concesse con la formula tibi et cui dederis; tibi et haeredibus quibuscumque; tibi haeredibus tuis in perpetuum, nei quali poteva succedere anche un estraneo, reputandosi trasmissibili a chiunque piacesse al primo investito; ed essendo il successore chiamato non jure proprio, ma ex persona defuncti, come erede dell’ultimo possessore. Poiché in tal modo si addiveniva alla commerciabilità dei feudi a danno del fisco, nelle investiture successive venne adoperata la clausola di stile: natura feudi in aliquo non mutata, che fu poi confermata da Carlo V, per cui la mutazione della natura del feudo doveva risultare da dichiarazioni esplicite dell’atto di investitura.
Carlo I d’Angiò a Napoli adoperò un altro tipo di feudo, che non danneggiava la regalia sovrana, ma l’avvicinava al diritto comune, con la formula d’investitura tibi et haeredibus ex corpore legitime discendentibus utriusque sexus. Questo feudo fu chiamato misto ed anche ereditario, mentre mere haereditaria erano detti i feudi impropri; ed avendo questa formula dato luogo a dubbi d’interpretazione venne da Carlo II interpretata nel senso che, nella successione, il fratello o la sorella succeda al fratello o alla sorella, servata la prerogativa della primogenitura e del sesso maschile. Cosicché in questi feudi poteva succedere un erede del sangue, e non un erede estraneo.
I feudi si distinguevano poi in maggiori, mediani, minori e minimi. I maggiori detti in capite erano costituiti dai grandi benefici concessi direttamente dal sovrano e per lo più annessi agli uffici civili e militari, e comprendevano i comitati, i marchesati, le baronie, i grandi feudi laici ed ecclesiastici.
I mediani, civili od ecclesiastici, erano formati dalle concessioni di patrimoni fondiari di minore estensione, con esercizio di cariche pubbliche di minore importanza.
I feudi minimi ed i minori comprendevano concessioni territoriali varie dei patrimoni laici ed ecclesiastici, compiute spesso a titolo di livello e gravate di oneri a carattere feudale.
Nell’antico diritto feudale era assoluto il principio della inalienabilità dei feudi, e l’alienazione o aggiudicazione all’asta importava la devoluzione del feudo alla corona. Successivamente, diffusosi l’uso, fu dal diritto feudale più recente ammessa la vendita del feudo, purché l’acquirente assumesse gli obblighi dell’alienante e previo assenso della corona.

Il titolo feudale
Il titolo nella generalità delle leggi feudali era nei primi tempi connesso al feudo titolato.
Siccome il feudo era indivisibile, e quindi non si divideva fra i figli del feudatario, ma si devolveva al maschio primogenito, così anche il titolo veniva attribuito al figlio che succedeva al feudo.
Allorquando venne ammessa l’alienazione del feudo, per la connessione fra titolo e feudo, in caso di alienazione del feudo titolato, il titolo veniva assunto dall’acquirente, e fu perfino di fatto, e non di diritto, ammesso che il titolo venisse assunto dal venditore e dal compratore. In diritto però venne sempre riconosciuta la indivisibilità dei titoli, anche allorquando, per abuso gli ultrogeniti assumevano titoli nobiliari spettanti al primogenito.
Ma cresciuta l’estimazione dei titoli, nei casi di vendita del feudo titolato, veniva stabilito che il titolo non sarebbe stato trasferito, usandosi la clausola retenti titulo. E per effetto di tale clausola, divenuta di stile, si ritenne che il titolo, a meno che non vi fosse espressa indicazione, non s’intendeva trasferito. Non mancarono però gli abusi che i compratori assumessero un titolo non trasmesso.
Venne così affermato che il titolo fosse separato dal feudo, e se ne aveva la prova nel fatto che, nel caso di confisca dei beni, i titoli si perdevano dal reo e non da chi doveva succedergli nel titolo. Nel Napoletano ed in Sicilia fu vietata la vendita, la donazione, il legato dei titoli, perché non potevano formare oggetto di private contrattazioni. In Piemonte fin dal 1475 fu consentita l’alienazione del feudo per dotare le fanciulle e per necessità di famiglia, e dal 1729 fu data facoltà agli acquirenti dei feudi dal Procuratore Generale di disporne sì per contratto che per testamento a favore di chi volessero, purché fossero persone capaci e gradite al Sovrano.

La successione nei feudi
Per quanto riguarda la successione nei feudi vi erano norme diverse. Per il diritto dei Franchi, il feudo era indivisibile, ed al possessore succedevano i figli e i discendenti fino all’infinito; ed i maschi erano preferiti alle donne, ed il primogenito escludeva il fratello minore; se poi non esistevano maschi, la prima figlia escludeva le altre, purché però non fosse maritata e dotata, e purché nell’atto d’investitura le donne non fossero state escluse.
Per il diritto longobardo i ducati e le contee soltanto erano indivisibili; i feudi minori invece si dividevano fra i figli, escluse di regola le femmine6 . Vi erano però feudi muliebri, nei quali le donne succedevano insieme ai maschi. Di regola il feudo longobardo si svolse nell’Italia settentrionale e centrale, quello franco nell’Italia meridionale, in Sicilia ed in Sardegna, ma ciò non toglie che gli Aragonesi, gli Svevi, Carlo V, gli altri Re spagnoli abbiano fatto in Italia concessioni di feudi secondo il diritto longobardo. I figli per succedere dovevano essere legittimi o legittimati per susseguente matrimonio, con esclusione della legittimazione per oblationem o rescriptum principis. Erano esclusi quindi dalla successione i figli naturali, riconosciuti o no, e i figli adottivi. Inoltre erano esclusi dalla successione coloro che avevano contratto voti solenni (frati e preti) o per difetto di corpo fossero stati inetti alle armi.
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6 – La forma di successione franca richiama alla mente la legge Salica, di cui parla l’art. 2 dello Statuto, quando dice che lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo ed il trono è ereditario secondo la legge Salica. Detta legge, secondo il Racioppi e Brunelli (Commento allo Statuto, art. 2, Torino 1909), è una compilazione di norme giuridiche redatta probabilmente fra il 453 e il 486 ad uso dei giudici di centèna (o cento famiglie rurali) dei Franchi Salii, cioè dei popoli stanziati lungo il fiume Yssel in Olanda. Una delle disposizioni di questa compilazione e la più famosa, stabilisce che le donne nella proprietà fondiaria erano escluse dalla successione, e questa devolvevasi ai maschi in parti eguali fra loro. Durante una controversia sorta verso il 1216 fra Enrico III d’lnghilterra e Filippo IV di Valois per la successione al trono d’Inghilterra, questa disposizione generica della legge salica fu richiamata dai giuristi per la prima volta in ordine alla successione di diritto pubblico; alterandosene però il significato le si diede il senso non solo della esclusione delle donne, ma anche il senso del passaggio della corona secondo l’ordine della primogenitura. Da allora in poi la frase «legge salica» diventò convenzionale, e fu così usata dal nostro Statuto, essendosi dalla dinastia di Savoia fin dal secolo XIII adoperato sempre il sistema della esclusione delle donne dalla successione al trono.

La vita milizia e la dote di paraggio
Circa la sorte dei figli nati dopo il primogenito, e chiamati ultrogeniti, provvedevano gli istituti della vita milizia per gli uomini, e della dote di paraggio per le donne.
La vita milizia fu un istituto creato dall’imperatore Federico II lo Svevo, e consistette, dapprima, in un vitalizio sui frutti del feudo di cui godeva, vita natural durante, l’ultrogenito, e cessava alla di lui morte, e, poscia, in beni o in contanti che si davano in piena proprietà ai maschi ultrogeniti.
La dote di paraggio consistette, dapprima, in una rendita vitalizia sui frutti del feudo ed ipotecata su di esso, poscia in denaro ed altri beni che venivano dati in proprietà alla dotata, secondo le sostanze della famiglia, il numero dei figli superstiti ed il matrimonio che la donna contraeva, circostanze tutte che diedero luogo ad altre disposizioni successive ed a litigi.
Nel diritto feudale longobardo, pel quale l’eredità feudale si divideva fra tutti i figli maschi chiamati del medesimo grado; coloro che venivano esclusi dalla chiamata per difetto fisico o morale, come i muti o i furiosi, avevano diritto ad essere convenientemente alimentati dagli eredi.

La réfuta
Nel diritto feudale era consentito che il possessore di un feudo, titolo, fedecommesso, maggiorascato potesse trasferirlo al prossimo successibile, a colui che avrebbe dovuto succedergli in virtù dell’atto di concessione. Questo trasferimento a favore del prossimo agnato era considerato non come donazione, ma come anticipata successione ammessa per modum legum, e veniva chiamato réfuta. I feudalisti equiparavano la refuta alla rinunzia del feudo, del titolo, in mano della corona.
Non occorreva per la refuta in mano del prossimo successibile alcun consenso degli altri agnati, né il regio assenso. La refuta poteva farsi anche del solo titolo, senza quella del feudo, specie quando il titolo ed il feudo derivavano da concessioni diverse ed il titolo era stato concesso intuitu personae. Quando la refuta era fatta a favore non del prossimo agnato, ma di agnato più lontano, la refuta non era una rinuncia,né un’anticipata successione, ma un vero e proprio atto di trasferimento, di alienazione, ed allora occorreva l’assenso regio e di tutti coloro ai quali sarebbe spettato il titolo o il feudo o la primogenitura secondo l’atto di concessione.
Nel Napoletano con la prammatica 20 de feudis venne prescritto che coloro avessero fatto refutazione dei feudi, e non dei titoli, ai loro figliuoli o altri successori dovessero, entro quattro mesi dalla data della prammatica, farla iscrivere nei quinternioni della R. Camera, e d’allora in avanti tutte le refute che sarebbero state effettuate dovevano essere fatte notare nei quinternioni predetti entro 15 giorni dalla refuta sotto pena di rimanere inefficaci, e ciò al fine del pagamento del relevio o laudemio al fisco.
Inoltre con rescritto regio 8 giugno 1842 fu stabilito essere necessario per le refute a favore di agnati remoziori, il consenso di tutti gli agnati che precedevano nel grado colui a favore del quale si effettuava la refuta. Quando alcuno degli agnati era minore di età, con regio rescritto 5-8-1843 venne stabilito che non vi fosse modo legale al di lui consenso. La giurisprudenza ha ritenuto variamente: che la refuta dovesse essere fatta con atto pubblico, ed altre volte che bastasse qualunque scrittura, specie per la refuta del solo titolo.

La perdita del feudo
Quando nel feudo si verificava la mancanza di successibili secondo l’atto di concessione, il feudo ritornava alla corona.
Il feudo si perdeva anche per fellonia, cioè delitti del feudatario verso il signore, o delitto comune, nel quale era compreso l’ingiusto trattamento dei sudditi.
Nell’antico diritto feudale la nobiltà si perdeva qualora il feudatario si fosse dedicato al commercio e non alle armi. Successivamente, quando i traffici ed i commerci si svilupparono ed il mestiere delle armi decadde, e i commercianti con le loro ricchezze poterono procurarsi un titolo, l’alto commercio e la tenuta di un banco o del cambio non furono più reputati causa di perdita della nobiltà7 . L’esercizio delle arti meccaniche era causa di perdita temporanea della nobiltà per colui che le esercitava, ma non la perdevano i successibili. Ma ciò non era uniforme per tutti gli stati. Anche per alcune professioni liberali, quali la chirurgia, la farmacia, il notariato, si discusse se l’esercizio di esse avesse fatto perdere la nobiltà, ed alcune leggi napoletane stabilirono che esse fossero incompatibili con la dignità di nobili.
Nella dottrina comune si ritenne che il feudo non potesse perdersi per prescrizione, né acquistarsi per usucapione, per cui il lungo possesso di un titolo o di un feudo costituiva soltanto una presunzione che ci fosse stata la relativa concessione.
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7 – STOLFI, op. cit., pag. 348 e seg.; SALVIOLI, op. cit., pagina 314. – Il commerciante non poteva diventare nobile se non dopo 30 anni dacché aveva cessato dal commerciare. Solo nel XVIII secolo (Lombardia 1760) si tolse questa eccezione pei commercianti all’ingrosso in seta e lana ed a Napoli nel 1757 venne nobilitato chi aveva esercitato da due generazioni siffatto commercio. Ad Ancona con bolla di Papa Urbano VIII del 7 giugno 1644 venne consentito l’esercizio dell’arte della lana e della seta ed il commercio di certe merci senza pregiudizio della nobiltà. La bolla è pubblicata sul Boll. Uff. della Consulta Araldica, 1933, n. 42, pag. 36-37. Colla costituzione 15-3-1671 di Papa Clemente X fu permesso ai nobili dello stato pontificio di esercitare il commercio senza pregiudizio della nobiltà. Il regolamento della nobiltà per le province toscane del 31 luglio 1750 decise che il commercio all’ingrosso, le grandi industrie della seta, della lana e della banca, la medicina, avvocatura, magistratura e le arti belle, scultura, pittura, architettura, non toglievano la nobiltà, ma che degradavano l’esercente e la discendenza sua il vendere al minuto, la chirurgia, la farmacia, il notariato e le professioni meccaniche. A Bologna in base al breve di Pio VII del 26 settembre 1820 qualunque esercizio di arti liberali e di commercio, purché gli esercenti non vendessero in nome proprio, non faceva perdere né acquistare la nobiltà. Erano esclusi dalla nobiltà coloro che personalmente e i loro padri avessero, almeno 30 anni addietro, esercitato un’arte meccanica. Nel Ducato di Milano per parere della Consulta al Senato del 1662 la condotta delle imposte camerali non pregiudicava la nobiltà; la prammatica 13 dicembre 1682 di Carlo II di Spagna stabiliva non essere contrario a nobiltà tenere fabbriche di seta, panni, tela, ecc.; la prammatica 28 giugno 1713 dichiarava che la mercatura nobilmente esercitata non si opponeva alla nobiltà richiesta per l’ammissione al Collegio dei nobili giurisperiti; il dispaccio 29 maggio 1760 di Maria Teresa dichiarava che l’esercizio di setifici e di lanifici non derogava a nobiltà.

Il matrimonio nel diritto feudale
Il matrimonio legittimo per eccellenza era quello di paraggio, cioè fra sposi di eguale condizione, e, per l’istituto del baliato, nei primi anni del feudalismo, i feudatari non erano liberi di sposare chi avessero voluto, ma chi fosse riuscito gradito al sovrano. Si disputava dai pratici se la donna non nobile che si maritasse ad un nobile diventasse nobile e viceversa. Secondo Bartolo, Fulgosio, Cuiacio, Tiraquello venne ritenuto che le donne non nobili, maritate ad un nobile, diventavano nobili e partecipavano alla dignità del marito. Inoltre dal sec. XIII si usò di dare alla donna il titolo ed il nome del marito, conservando altresì il titolo durante lo stato vedovile, salvo a smetterlo in caso di passaggio a seconde nozze, o a perderlo se le donne avessero condotto durante la vedovanza vita non corretta.
Nel caso contrario, di una donna nobile che avesse sposato un uomo ignobile, questo non acquistava la nobiltà della moglie, e la donna la perdeva. Era fatta eccezione per la Regina o la titolare di un feudo di alta dignità, poiché esse, se avessero sposato un uomo ignobile, non solo non perdevano la nobiltà, ma facevano di lui un uomo nobile, specialmente se quella alta nobiltà fosse stata data in dote.
Nel diritto vigente in Italia prima dell’unificazione legislativa non si avevano disposizioni uniformi. Nel ducato di Lucca, ad esempio, nel 1826, il matrimonio con i non nobili non faceva perdere, né all’uomo, né alla donna, la nobiltà che rimaneva personalmente; per il regolamento della nobiltà per le province toscane del 31 luglio 1750, qualunque donna patrizia o nobile, che si fosse maritata con un uomo ignobile, non era scancellata dalla Sua classe, benché, costante il matrimonio, si dovesse estimare della condizione del marito; nel ducato di Aosta in base alle consuetudini del 1588 il matrimonio di un uomo di media condizione con donne nobili non nobilitavano il marito, e la donna nobile non perdeva la nobiltà; in Piemonte con le R. Patenti 16-7-1782 furono comminate speciali pene contro i nobili che avessero contratto matrimoni sconvenienti; in Lombardia per l’editto 20 novembre 1769 le mogli e le sorelle dei nobili, collocandosi in matrimonio, seguivano la condizione dei mariti; per Bologna in base al breve del 26 settembre 1820 di Pio VII8 , il matrimonio era mezzo all’acquisto della nobiltà del coniuge per la moglie non nobile solo per speciale concessione sovrana; e per il marito non nobile di una moglie nobile purché egli avesse giustificato di avere la di lui famiglia una rendita stabilita; perdeva la nobiltà chi avesse preso una moglie che avesse portato pubblica nota di infamia all’onor suo o per altra guisa fosse ignominiosa ed abbietta; a Venezia con decisione 26 maggio 1422 venne stabilito dal Maggior Consiglio che di esso non potessero far parte i nati da schiava, serva, o donna di vile condizione, e con decisione 9 marzo 1533 venne proibita la approvazione e la discussione della nobiltà dei figli nati da matrimonio di un patrizio con una fantesca, villana o donna abbietta. Nel Napoletano con Regale dispaccio 20 dicembre 1800, il matrimonio con non nobili importava la cancellazione dal libro della nobiltà. Ed essendosi venuta formando una consuetudine contro legge, per la quale il marito ignobile portava il titolo della moglie nobile, con Reali Dispacci del 4 marzo e 24 aprile 1828 fu ratificato questo uso, permettendosi che il marito della titolata portasse personalmente il titolo della moglie durante la costanza di matrimonio o la di lui vedovanza, purché non fossero viventi i genitori di lei. In base al regolamento sulla Consulta Araldica del 1896 doveva ritenersi che il marito non acquistasse il titolo della moglie, e la Consulta fissò le massime che i figli non acquistano la nobiltà pel solo fatto della nobiltà materna, e perché il marito potesse portare, maritali nomine, cioè durante la costanza di matrimonio o di vedovanza, i titoli nobiliari che erano in capo alla moglie, occorreva si provvedesse di un decreto ministeriale, anche in quei paesi ove tale assunzione si faceva per antica usanza (mass. 18).
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8 – Detto breve sul riaprimento del Libro d’Oro e sull’ammissione al ceto nobile della città di Bologna è pubblicato nel Boll. Uff. della Consulta Araldica, n. 41, del maggio 1931, pag. 72-77.

La successione feudale napoletana
Altri due sistemi di successione in Italia erano il napoletano ed il siciliano, il quale ultimo può considerarsi una sottospecie del primo, quantunque sia da altri ritenuto che il diritto feudale siculo costituisca un sistema a sé. Per il regno di Napoli e Sicilia, Federico II lo Svevo, al quale il regno era pervenuto per via di donna, regolò con due costituzioni «In aliquibus» e «Ut de successionibus», la successione.
Con la prima ammise alla successione, oltre che i figli maggiori o minori, anche le figlie puberi. Con la seconda ammise alla successione la discendenza maschile, e fra i maschi soltanto il maggiore di età, se il defunto fosse vissuto secondo il diritto dei Franchi. Se fossero mancati i figli maschi succedevano le figlie, con preferenza per quella di maggiore età. Che, se la figlia maggiore di età fosse stata dotata coi beni paterni o fosse maritata, essa veniva esclusa nella successione della sorella minore nubile (in capillo), e ciò in conseguenza dell’istituto del baliato che consentiva al re di dare in sposo alla zitella uno dei suoi favoriti. In tal modo la successione collaterale in linea maschile veniva abolita, e sostituita con la femminile in linea retta. Inoltre era esclusa la successione retrograda o ascendentale.
Con la prammatica di Giovanna II, detta prammatica Filangeria, ed emanata nel 1418 per favorire Giovanni, detto Sergianni, Caracciolo, nominato poi gran siniscalco, che aveva sposato Caterina Filangieri, venne confermata la successione per via femminile in mancanza di discendenti maschi, con esclusione dello zio paterno, e venne stabilito che la sorella per essere esclusa dalla successione fraterna doveva essere stata dotata nei feudi ex jure francorum coi beni del fratello, e nei feudi ex jure longobardorum bastava che fosse stata dotata coi beni del padre.
Carlo V nel 1532 ammise lo zio, fratello del padre, alla successione dell’ultimo possessore morto senza legittimi e naturali figliuoli, nonostante le clausole delle investiture (v. n. 70).
Successivamente i baroni del regno di Napoli ottennero dall’imperatore Filippo II di Spagna nel 1595 con la prammatica 33 che si potesse disporre di feudi e titoli in favore di quel maschio della loro famiglia il quale nel tempo della disposizione sarebbe succeduto, nonostante che vi fossero donne ugualmente successibili prossimiori. A modifica del precedente statuto feudale venne anche consentita la facoltà di disporre dei feudi e dei titoli sia per atti fra vivi, sia anche per atto di ultima volontà, a favore del prossimo agnato, con esclusione delle figlie eredi del refutante e loro discendenti. Detta prammatica per avere adoperato una formula imprecisa «feuda quoad haereditaria», diede luogo a dispute nella dottrina e giurisprudenza, nel senso se il nuovo principio si estendesse ai feudi impropri detti mere haereditaria, o anche ai feudi misti, e se la refuta e la disposizione mortis causa potessero avvenire solo quando vi fossero le sorelle e non le figlie del feudatario. Filippo IV con la prammatica 34 del 1655 estese la successione dei feudi fino al 4° grado collaterale con la facoltà di vincolarli a maggiorasco (v. n. 17).
Successivamente i baroni stessi nel 1720 si rivolsero all’imperatore Carlo VI per ottenere la grazia che si potesse, per via di sostituzione diretta o fedecommissaria, disporre dei feudi antichi e nuovi (erano nuovi quelli nei quali l’acquisitore poteva imporre qualunque legge in pregiudizio dei suoi successori, quelli che cominciavano in persona dell’acquirente sia per munificenza del principe, sia per acquisto, sia per ogni altro titolo) anche titolati e di gran momento, con esclusione non solo della femmina immediata, o del maschio discendente dalla femmina, anche se questa si fosse maritata nella famiglia (cioè ad uno quindi che aveva lo stesso cognome, femmina che sarebbe stata immediata succeditrice), ma anche con esclusione perpetua nelle femmine e loro discendenti, intendendosi sempre la esclusione suddetta in benefizio del maschio agnato remoziore alla elezione del disponente, anche in grado non successibile. In questo caso le femmine avrebbero avuto la legittima sul prezzo o sui beni burgensatici per la concorrente quantità della legittima, che loro spettava sui beni feudali.
L’imperatore Carlo VI con la prammatica 38, consentì che fosse chiamato nei feudi il maschio remoziore, purché si trovasse in grado successibile, escludendo le femmine prossimiori.
Ma questa prammatica se tolse ogni dubbio che la refuta e la disposizione mortis causa potessero avvenire anche per i feudi misti, non parlò della femmina maritata in famiglia o dei discendenti delle femmine. Da qui sono sorte varie dispute sulla validità delle refute e sulle disposizioni mortis causa, ma fu ritenuto che dopo il 1720 si potessero preferire il maschio alla femmina per conservare il feudo alla famiglia.
Passato il regno a Giuseppe Bonaparte, con legge 2 agosto 1806 venne abolita la feudalità, ma fu conservata la nobiltà ereditaria e furono mantenuti ai possessori i titoli di principe, di duca, di conte e di marchese legittimamente concessi, con trasmissibilità in perpetuo con ordine di primogenitura e nella linea collaterale fino al 4° grado. Succeduto nella corona di Napoli nel 1808 Re Gioacchino Murat, questi con decreto 10 gennaio 1812 stabilì che i nuovi titoli da lui conferiti erano personali pei titolari autorizzati a portarli, e potevano divenire ereditari mediante la costituzione di maggioraschi, ai quali sarebbero stati annessi, ed in questo caso la successione nei titoli sarebbe avvenuta da maschio in maschio per ordine di primogenitura in favore degli eredi di coloro che avevano fondato il maggiorasco, o in favore di quelli pei quali il Sovrano fondava maggioraschi di motu proprio. Il titolo di cavaliere non poteva trasmettersi ai propri discendenti senza conferma sovrana. Ritornati sul trono i Borboni nel 1815, Francesco I, allo scopo di porre un freno agli abusi formatisi, con R. rescritto 24 settembre 1827 stabilì che, cumulandosi nel capo di qualche famiglia diversi titoli, questi non potessero arbitrariamente intestarsi agli individui della famiglia stessa, né in qualunque modo distrarsi, anche a favore dei collaterali, senza espressa sovrana autorizzazione, e con eccezione dei casi in cui, per consuetudine, il capo di qualche famiglia permettesse che, durante la sua vita, uno dei suoi titoli fosse portato dal figlio primogenito, o da chi ne tenesse luogo.
Ferdinando II ordinò con vari R. rescritti: 6 marzo 1841 doversi esigere il consenso di tutti i successori per il passaggio di titoli agli ultrogeniti; 8 giugno 1842 che nelle refute dei titoli, fra i compresi nella investitura occorresse l’assenso di tutti gli agnati prossimiori nella vocazione; 5 agosto 1843 che le refute a titoli fatte a nome di minorenni fossero inaccettabili; 2 dicembre 1843 che nelle ricognizioni di titoli nuovi la formula per sé e i suoi successori s’intendesse comprendere la sola famiglia del concessionario e ne escludesse i collaterali, massime quando discendevano da femmine; 28 giugno 1845 che un titolo conceduto in considerazione della nobiltà della famiglia, di servigi, e per avere il concessionario popolata la terra cui il titolo era annesso, fosse trasmissibile ai successori del concessionario nel modo di legge, ancorché non fosse detto nel diploma; 29 luglio 1853 che nella successione dei titoli materni, in difetto di prole maschile, succedeva colei che godeva la prerogativa dell’età, quantunque fosse congiunta pel solo lato materno, e che, dopo l’abolizione della feudalità e dei fedecommessi, i titoli spettavano sempre ai discendenti legittimi e naturali di coloro che, a quell’epoca, li godevano; 11 ottobre 1855 che gli affini non potevano succedere nei titoli.

La successione feudale siciliana
Nel sistema siciliano le concessioni feudali, quando mancava l’espressa menzione che fossero state fatte secondo il diritto longobardo, dovevano ritenersi fatte secondo il diritto dei franchi, e per questo succedevano dapprima i soli discendenti maschi, e dopo la costituzione «In aliquibus » del 1221 di Federico II lo Svevo, anche le femmine.
Con l’altra costituzione «Ut de successionibus » del 1221 di Federico II venne introdotta in Sicilia la successione dei collaterali, ma fino ai fratelli e ai figli di costoro (3° grado), con esclusione dello zio paterno e dei parenti nella linea retta e collaterale retrograda. Passata la Sicilia agli Aragonesi, dopo espulsi gli Angioini, Re Giacomo, incoronato re di Sicilia nel 1286, col capitolo Si aliquem dispose che, in mancanza di erede legittimo per linea discendentale, nei feudi e suffeudi succedesse tanto il fratello del defunto, quando i di lui figliuoli fino al trinepote, serbata la prerogativa del sesso e dell’età, e suo fratello Re Federico col capitolo Volentes del 1296 ammise a succedere i collaterali tanto nei feudi nuovi quanto nei vecchi.
Con le prammatiche di Ferdinando I di Borbone 3 ottobre 1786 e 14 novembre 1788 venne dichiarato che il capitolo Si aliquem estende la successione al 6° grado, e che erano da considerare come legittimi successori, nella linea collaterale, solo quelle persone che erano come tali indicate dal capitolo Si aliquem.
Come eccezione al principio di diritto normanno e svevo dell’inalienabilità dei feudi pazionati, principio successivamente attenuato, ma non distrutto, dal detto capitolo Volentes di Federico d’Aragona, era massima generale ed assoluta per antica consuetudine che il primo quesitore del feudo, sotto qualunque forma l’avesse ricevuto, e quindi anche ex pacto et providentia, aveva, senza essere legato alla forma stessa, una illimitata facoltà di disporre e poteva quindi istituire un fedecommesso agnatizio mascolino.
Con il capitolo Volentes anzidetto, venne ammessa la facoltà, senza bisogno del preventivo assenso regio, di permutare, pignorare, donare e disporre per testamento del feudo, anche col titolo, quando la trasmissione fra vivi o per causa di morte avesse luogo in favore di determinata persona, più degna o della stessa dignità dell’alienante, con esclusione però in favore delle chiese o persone ecclesiastiche, e col diritto, in certi casi, di prelazione per la regia corte.
Per detto capitolo la trasmissione poteva essere regolata dal primo investito, restringendo e non allargando l’ordine di successione. Questo capitolo fu interpretato dalla citata prammatica 14 novembre 1788, la quale lo intese nel senso che il feudatario, trovandosi disperato di prole e privo di legittimi successori in grado, non potesse neanche per atto fra vivi alienare il feudo; inoltre vietò l’abuso invalso di porre in vendita i titoli, perché se ne faceva dipendere l’acquisto dal denaro e dalle ricchezze, anziché dalle nobili e virtuose azioni.
Era sorta questione fra i feudisti sulla specificazione del grado cui corrispondeva il trinepote, sostenendosi da alcuni che esso costituisse il grado 6° e da altri il 7°; ma è ormai da tutti ammesso, in base anche al capitolo 258 del 1555 di Carlo V ed alla interpretazione di Ferdinando I, che trattavasi del grado 6°.
Ciò era anche conforme al capitolo di Papa Onorio IV, che, per il regno di Napoli, feudatario della Chiesa, aveva esteso la successione della linea collaterale fino al grado 6°.
Sorse discordia e si sostenne che, avendo il capitolo Volentes consentita non solo la vendita del feudo, ma anche la successione testata a favore di persona non parente, i feudatari fossero rimasti liberi di disporre del feudo a loro piacimento, e che, tanto la costituzione di Re Giacomo del 1221 « Si aliquem » e tanto la prammatica del 1788 di Re Ferdinando I, regolassero solo la successione legittima e non quella testata; ma è stato inteso e deciso dalla autorità giudiziaria nel senso che i feudatari potevano disporre del feudo a favore dei loro successibili compresi nei gradi stabiliti dalla legge, ma non potevano eccedere tali gradi e chiamare alla successione parenti più lontani od estranei, appunto perché avrebbero leso il diritto della corona.
Da re Alfonso d’Aragona col capitolo 454 venne accordata la remissione delle caducità incorse dai feudatari, per inadempimento di obblighi, purché i titoli feudali fossero rimasti nella forma antica, e, qualora non apparisse questa forma, s’intendessero conceduti colla clausola del diritto dei franchi, e col capitolo 456 venne confermato ai feudatari il possesso dei loro feudi secondo il diritto proprio di ciascuno, eccettuati coloro che avessero perduto i loro titoli, ai quali fu imposta la trasmissione secondo il diritto dei Franchi.
L’imperatore Carlo V, col capitolo 146 ordinò a quei feudatari che non avessero forma certa dei loro feudi di possederli colle clausole del diritto dei Franchi, col capitolo 118 dichiarò che il figlio del primogenito premorto doveva essere preferito al secondogenito vivente, col capitolo 204 prescrisse che la figlia femmina del maschio premorto dovesse essere preferita alla zia sopravvivente, non però allo zio pure sopravvivente, col capitolo 258 del 1555, per eliminare ogni falsa interpretazione del capitolo Si aliquem di Re Giacomo circa la successione dei fratelli uterini, nel quale si trovano le parole «et fratri communibus vel non communibus », stabilì che i fratelli uterini non fossero ammessi alla successione se non in mancanza di discendenti della linea del primo acquisitore, ad esclusione del fisco.
Re Filippo II col capitolo 18 stabilì che il figlio del secondogenito premorto dovesse essere preferito al terzogenito vivente, e la figlia del secondogenito alla terzogenita, non però al terzogenito. Con lo statuto costituzionale di Sicilia del 25 marzo 1812, venne disposto che non vi sarebbero stati più feudi, conservandosi però i titoli e gli onori annessi ai feudi nelle rispettive famiglie con l’ordine di successione che allora si godeva. E con la legge 10 agosto 1812 venne abolita la feudalità, conservando ognun0 i titoli e gli onori che fino allora erano annessi ai feudi, e dei quali aveva goduto, trasferibili questi ai suoi successori.
Dopo la restaurazione di Ferdinando I di Borbone nel regno di Napoli, con la legge 11 dicembre 1816 di unione dei due regni, all’art. 9 venne dichiarata conservata l’abolizione della feudalità anche in Sicilia. Con dispaccio sovrano 17 settembre 1917 fu dichiarato che la feudalità in Sicilia non fosse cessata prima del 2 giugno 1813. La legge abolitiva dei fedecommessi 2 agosto 1818 si mantenne estranea ai titoli di nobiltà, e quindi il fedecommesso, non più applicabile alla trasmissione di proprietà dei feudi, rimase in pieno vigore per regolare la successione nei titoli9 . Col dispaccio reale 22 settembre 1852 fu vietato il passaggio dei titoli siciliani ai collaterali, ma questo rescritto va posto in relazione alle disposizioni del capitolo Si aliquem di Re Giacomo.
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9 – Nei feudi vincolati a fedecommesso, esistendo un successore legittimo dell’ultimo investito e non potendosi perciò far luogo alla riversione al fisco, la successione si apriva a favore del chiamato dal fedecommesso, nonostante che egli si trovasse fuori del grado di legge in rapporto all’ultimo possessore. Anche dopo l’abolizione della feudalità conservarono vigore in Sicilia agli effetti della semplice trasmissione dei titoli di nobiltà le regole della successione fedecommissaria. C. App. Catania, 5-12-1932, Paternò-Impellizzeri, Rass. Giud., 1933, 1, 38.

Il fedecommesso
Un istituto di diritto romano, che trovò nella decadenza del feudo il suo svilluppo, è il fedecommesso. Con esso il testatore imponeva ad una persona di sua fiducia l’obbligo di trasmettere la eredità alla sua morte, o dopo un tempo determinato, secondo l’ordine di successione legittima, fissato da Giustiniano non oltre la 4a generazione. L’istituto mirò a conservare il patrimonio domestico, e a trasmetterlo integro nel fedecommesso di famiglia, dato che colui che otteneva il fedecommesso non poteva diminuire, né alienare il patrimonio, di cui aveva soltanto l’usufrutto, né confonderlo coi propri beni.
Sotto l’influenza delle istituzioni feudali si manifestarono due tendenze allo sviluppo del fedecommesso: da un lato il sistema della inalienabilità del patrimonio derivante dal feudo longobardo, dall’altro la tendenza alla indivisibilità del patrimonio col cercare di ridurre i diritti dei successori delle donne e di accentrare il patrimonio nelle mani di un solo, tendenza derivante dal feudo franco. Di tal che dal secolo XIV il fedecommesso servì ad assicurare il decoro e la potenza del casato, mediante l’inalienabilità del patrimonio e la conservazione e la trasmissione dei beni attraverso la linea agnatizia maschile. Il massimo sviluppo dell’istituto fu raggiunto in Italia nei secoli XVI e XVII, diventando il mezzo normale di trasmissione del patrimonio domestico, divenuto indivisibile e inalienabile mediante la volontà del disponente. La trasmissione era fissata preventivamente sia per contratto che per atto di ultima volontà, senza limiti di generazione, a favore generalmente della parentela maschile; ma poteva anche stabilirsi la chiamata dei collaterali, delle donne e dei loro discendenti, qualora fossero mancati gli agnati. Colui che otteneva il fedecommesso derivava il suo diritto, come nel feudo, non dall’ultimo possessore morto, ma dalla volontà del fondatore, senza che avesse rilievo il fatto che egli fosse discendente o collaterale dell’ultimo possessore, poiché sia l’uno che l’altro erano successori ex pacto et providentia maiorum.
Sotto l’influenza spagnuola, il fedecommesso si diffuse in Italia ai beni più svariati, passando dagli immobili compresi i feudi, alle industrie, ai prodotti del commercio, alle rendite, ai beni mobili, e consentendosi puro o condizionale, con trasmissione semplicemente familiare se i beni dovevano restare nella famiglia designata, o con trasmissione familiare lineare, se i beni, in caso di mancanza di una linea, dovevano passare in altra. La trasmissione fedecommissaria poteva aver luogo in 5 forme: per maggiorasco, per seniorato, per primogenitura, per juniorato, per ultimogenitura. Nel maggiorasco, i beni passavano al più prossimo parente dell’ultimo possessore; il maggiorasco poteva essere regolare o irregolare: nel regolare era chiamato il più prossimo parente secondo l’ordine di successione legittima; nell’irregolare era chiamato il primogenito, anche se non era il più prossimo parente dell’ultimo possessore. Se più persone erano dello stesso grado si preferiva il più anziano. Nel seniorato succedeva sempre il più vecchio fra i discendenti del primo istituito, senza riguardo alla linea ed al grado di parentela coll’ultimo possessore. Nella primogenitura, che era la forma ordinaria di successione del fedecommesso, succedevano i primogeniti successivamente generati nella famiglia, e senza riguardo alla strettezza di grado della parentela. In mancanza di primogenitura succedeva il più prossimo parente dell’ultimo possessore, o la sua discendenza. Il juniorato era l’opposto del seniorato, e succedeva il più giovane della famiglia. Nell’ultimogenitura succedeva la linea più giovane e l’ultimo nato di essa.
Il fedecommesso durava finché esisteva la famiglia, a meno che non fosse stato stabilito diversamente nell’atto di fondazione, come avveniva nello stato pontificio con l’istituto della surrogazione (v. n. 91). A causa dei vincoli che col fedecommesso si ponevano alla libera circolazione dei beni, gli stati cercarono di limitarne la fondazione. Solo l’ordinamento nobiliare napoleonico e muratiano favorirono lo sviluppo del maggiorasco.

La nobiltà dall’epoca dei Comuni alla abolizione del feudalesimo (nobiltà per diplomi, per cariche, derivante dagli ordini cavallereschi esistenti in Italia [di S. Maurizio e Lazzaro di Piemonte, di Leopoldo di Austria, di S. Ludovico di Parma, di S. Giuseppe di Toscana, Pontifici: della Milizia Aurata, Piano], di distinta civiltà). (In nota: gli Ordini Pontifici della Milizia Aurata o dello Speron d’Oro, di S. Silvestro, Piano, di San Gregorio Magno, del S. Sepolcro di Gerusalemme).
Nell’epoca dei comuni la nobiltà maggiore feudale fu sopraffatta dai popolani e dai borghesi e cacciata dalle città, ove fu costretta a ritornare, come ostaggio, dalle milizie comunali. Essa non rappresentò nell’Italia settentrionale e centrale un ceto potente, a causa del suo impoverimento, sia perché i feudi, regolati jure longobardorum, venivano frazionandosi, sia per esser costretta, per trovar partigiani nelle lotte politiche, a distribuire le terre a titolo di enfiteusi, i cui censi vennero a ridursi di valore per effetto dello svilimento della moneta.
Nei comuni la piccola nobiltà partecipò alla loro formazione, per la pratica nei maneggi politici e nelle armi, acquistando autorità e conservando qualche distinzione.
In generale però i nobili, nelle lotte di classe dei ceti mercantili e artigianeschi contro di essi, con gli ordinamenti di giustizia (di Firenze, di Bologna, di Modena, di Pisa, di Parma) detti sacratissimi, perché mai abrogabili, furono privati dei loro privilegi, del diritto di portar armi, esclusi dagli uffici pubblici, sottoposti a confische.
Mentre in tal modo declinava la grande e piccola nobiltà gentilizia, nelle città veniva sorgendo una nobiltà nuova, costituita da quelle famiglie che si erano arricchite coi commerci e che avevano acquistato beni feudali con giurisdizione, o che avevano ottenuto il privilegio delle armi dall’Imperatore, dal Papa o dal comune.
L’uso di concedere la nobiltà per diplomi si dice introdotto nel 1271 da Filippo l’Ardito di Francia, ma se ne hanno esempi fin dai tempi di Federico II e di Carlo d’Angiò. Più tardi, di questo uso si avvalsero non solo i Papi, gli Imperatori, i Re indipendenti, ma i principi soggetti all’impero come Amedeo VIII, i conti palatini, la repubblica di Venezia e perfino città minori. Questo uso però svalutava la nobiltà perché i diplomi e i titoli erano frequentemente concessi per denaro, anziché per premiare la virtù e il merito10 .
Nell’Italia settentrionale e centrale, succedute ai comuni le signorie, queste abbassarono la nobiltà vecchia e nuova e la spogliarono dei privilegi, riducendola al loro seguito, e le repubbliche di Venezia e di Genova trasformarono i loro reggimenti in governo aristocratico.
La nobiltà nelle città rette a repubblica assunse il nome di patriziato. Dopo il primo trentennio del quattrocento, delle altre città, pur conservandosi gli statuti e i consigli propri, alcune eleggevano le magistrature sotto la presidenza del capo che vi mandava il sovrano, altre eleggevano esse stesse il proprio capo. I consiglieri non erano presi da tutta la cittadinanza, ma dalle classi più elevate, con esclusione degli esercenti arti meccaniche o piccolo commercio e delle condizioni ancor più basse, ed in qualche luogo erano prescelti fra determinate famiglie, le quali formavano un corpo chiuso, che talvolta erano nobili e popolane, ma comunemente soltanto nobili, sia perché da esse originariamente veniva tratto il consiglio, sia perché si considerava fondamento e causa della nobiltà l’appartenenza al consiglio. Il consiglio prendeva allora il nome di Consiglio dei nobili, e quelle famiglie non nobili che vi venivano iscritte, in mancanza delle antiche o per concessione fatta al popolo, conseguivano la nobiltà.
Nel mezzogiorno nelle città regie, cioè non feudali, le famiglie erano divise in ceti o ordini, e la classe più cospicua costituiva il patriziato o la nobiltà civica o decurionale, la quale amministrava il comune o università col concorso, a volte, del rappresentante del ceto borghese.
Dai documenti esistenti risulta l’uso del titolo di patrizio in Napoli fin dal 1420. Le città si distinguevano in città di piazza chiusa e città di semplice ma vera separazione11 .
Come i principî germanici, dice il Pertile, avevano fatto attribuire la nobiltà all’uso delle armi, così il risorgere del diritto romano fece valutare i meriti dell’ingegno ed altri servizi, e unì la idea della nobiltà con certe cariche, oltre che militari, anche civili, che il diritto romano aveva chiamato milizia, e con la laurea dottorale nelle leggi, prendendo alla lettera i passi delle costituzioni imperiali che eguagliavano gli avvocati ai combattenti. Da qui la nobiltà venne poi estesa agli altri dottori in medicina, ma con limitazione. Si parlava così di cavalieri o conti delle leggi, o cavalieri di toga. In Piemonte fin dal 1584 erano considerati nobili alcuni ufficiali stipendiati e i giudici maggiori della Savoia; la riforma della repubblica genovese del 1576 mette insieme nella nobiltà e nei privilegi i doctores legum, artium et medicinae; Papa Gregorio XIII creò milites et equites auratos tutti i dottori del collegio dei medici e dei filosofi di Bologna.
Intanto lo sviluppo dei traffici aveva fatto sorgere il concetto che l’esercizio del commercio di mare, quello dell’arte del cambio, della lana e della seta all’ingrosso non costituiva ostacolo all’acquisto della nobiltà. Durante il dominio spagnuolo in Italia si verificò una mania per i titoli, e le città furono popolate di nobili sia per effetto di concessioni di titoli, sia mediante la vendita di carte di nobiltà. Dopo il secolo XVI può dirsi che la vendita dei titoli sia divenuto un mezzo ordinario di entrate pubbliche; dato che in generale ogni concessione di nobiltà importava nell’insignito il pagamento di tasse e di entrate straordinarie per far fronte ai bisogni delle guerre, come avvenne a Venezia e nel Piemonte, nel cui ultimo stato in 70 anni circa furono vendute 819 patenti di nobiltà per 11 milioni di lire, che costituirono la nobiltà del 1722 svalutata in confronto della antica. Nel 1700 si riconobbe anche una nuova classe di nobili di secondo grado o di civiltà, appartenente alle famiglie ammesse ai minori uffici, o a quelli che potevano provare di aver vissuto per tre generazioni comodamente senza esercitare impieghi bassi e popolari. Con Napoleone agli insigniti di certe cariche vennero accordati titoli di duca, conte e barone (v. n. 19 D).
Allargatosi d’altro lato sempre più il concetto della nobiltà, essa fu estesa agli ordini cavallereschi che venivano istituendosi12 . Così, prima dello Statuto, in Piemonte l’ordine (una volta Religiosa Milizia, Ordine Religioso e Militare) dei Santi Maurizio e Lazzaro, conferito in via di grazia, attribuiva la nobiltà personale13 ; l’ordine imperiale austriaco di Leopoldo, fondato da Francesco I nel 1808, conferiva ai commendatori e ai cavalieri il grado ereditario di barone o di cavaliere dell’impero, però con separato provvedimento ed a loro richiesta; la Milizia Aurata, detta volgarmente ordine pontificio dello Speron d’Oro o di S. Silvestro, conferiva14 fra gli altri privilegi concessi da Papa Paolo III, la qualità personale di conte palatino lateranense e la nobiltà ereditaria per i discendenti; l’ordine Piano, così chiamato dal suo fondatore Pio IV nel 1559 e rinnovato da Pio IX nel 1847, attribuiva ai cavalieri di 1a classe la nobiltà trasmissibile ai loro figli, e a quelli della 2a classe la nobiltà personale15 .
Vari altri ordini cavallereschi degli ex stati italiani (v. n. 115), oramai estinti, conferivano la nobiltà. Così l’ordine del merito di S. Ludovico di Parma, ricostituito nel 1849, conferiva ai decorati della gran croce o della commenda, che prima non l’avessero, la nobiltà, mediante la concessione, su richiesta, di speciale diploma; l’ordine di S. Giuseppe di Toscana, istituito nel 1807, conferiva col grado di cavaliere la nobiltà personale, e con quello di commendatore la nobiltà ereditaria16 .
Nel medio evo e fino alle leggi abolitive dei fedecommessi, le famiglie nobili per conservare più integri i loro privilegi e per difendersi dalle violenze e dagli arbitri popolari si strinsero in consorzi o consorterie di casati, detti Alberghi17 a Genova, Ospizi in Piemonte, e si organizzarono in Sedili o Seggi a Napoli18 e in Tocchi in Sicilia.
Le famiglie nobili usarono anche di starsene unite sotto un capo comune, che dapprima fu probabilmente il più vecchio, o colui che succedeva nella dignità, più tardi venne scelto per elezione a tempo, e finalmente si smise l’elezione del capo.
La nobiltà generosa e magnatizia, cioè quella feudale e dei nobili delle città regie o derivante dalla concessione di titoli fatta dal sovrano agli arricchiti, e quella acquistata per alte cariche ricoperte a corte o in curia o nella milizia formavano un ordine o corpo, con distintivi, regolamenti e privilegi, come l’esenzione da molti pubblici tributi, il foro particolare, il giudizio dei pari, l’avere riservati quasi tutti gli impieghi nello stato, i gradi di ufficiale nella milizia, il potere erigere fedecommessi e acquistar feudi, lo star seduti avanti i magistrati, e perfino alla presenza del principe, il non potere essere incarcerati per debiti civili, l’avere assegnate stanze separate nel caso di incarcerazione per delitto, la eclusione da pene infamanti, la tenuta di posti a parte in chiesa, a teatro, la istituzione di appositi collegi in cui educare i loro figli19 .
Ogni ordine, ogni città aveva i suoi libri d’oro in cui si scriveva il nome delle famiglie nobili, e di quelle che venivano aggregate, e per mantenere pura la nobilta si istituirono speciali tribunali araldici.
La legislazione nobiliare è così varia e vasta nei diversi stati d’Italia, da renderne necessaria l’esposizione almeno sommaria, come qui di seguito vien fatto. Essa però si presenta talvolta frammentaria per la dispersione delle fonti, tanto che ne riesce difficile l’organico svolgimento20 .
Oltre che delle leggi, delle prammatiche, degli statuti, delle patenti, degli editti, dei rescritti e dispacci sovrani, bisogna tener conto dei pareri dei corpi consultivi del tempo, che, se approvati dal capo dello stato, allora assoluto, hanno la stessa forza di legge.
La Consulta Araldica su questa complessa materia è venuta formulando una raccolta di massime che costituisce il suo massimario21 .
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10 – PERTILE, Storia del diritto italiano, TORINO 1894, 2a ediz., III vol., pag. 147 e seg.

11 – La differenza fra le città di piazza chiusa e quelle di semplice ma vera separazione nel napoletano è così indicata dalla massima 85 della Consulta Araldica: «All’effetto dell’attribuzione dei titoli di patrizio e di nobile, sono, nella regione napolitana, considerate di Piazza Chiusa, le città nelle quali, per titolo implicito di antichissima consuetudine, o per titolo esplicito di sovrana concessione, la nobiltà composta di determinate famiglie, costituenti un corpo o collegio affatto separato dalla rimanente parte della cittadinanza e dallo stesso governo municipale, e con diritto di discretiva in alcuni offici del governo medesimo, godeva eziandio delle prerogative di procedere liberamente e privatamente alle novelle aggregazioni, senza che altri, in suo dissenso, avesse potuto ciò ottenere per giustizia; di vedere roborato da regio assenso le novelle aggregazioni e le reintegrazioni; di potersi radunare senza intervento di regio ministro. E sono considerate di semplice, ma vera separazione, le città che, avendo tutti gli altri innanzi indicati requisiti, mancavano di alcune delle tre ultime prerogative». Per la legge sulla istituzione nel napoletano del Tribunale della Nobiltà del 1800 (v. n. 21 M) il patriziato spettava solo a coloro che appartenevano a città di piazza chiusa.

12 – Il SANSOVINO nell’opera: Della origine de’ Cavalieri, Venezia 1583, pag. 15 e seg., distingue 3 ordini di cavalieri: di collana (della Giarrettiera di Inghilterra, dell’Annunziata di Savoia, del Toson d’Oro di Borgogna, di S. Michele di Francia); di croce derivanti dalle Crociate (Cavalieri gerosolimitani di S. Giovanni e del S. Sepolcro di Gerusalemme); di sprone (creati in ogni tempo e da ogni principe). Questa tripartizione è ancora oggi accettata dagli storici del diritto. Vedi bibliografia citata dal GORINO, Titoli nobiliari ed Ordini Equestri pontifici, Torino, Bocca, 1933, pag. 18 nota 36. É da ricordare che gli ordini di cavalleria posteriori alla Rivoluzione Francese, creati sul modello della francese Legion d’Onore, conferiscono il semplice titolo, indipendentemente da qualsiasi qualità nobiliare del decorato e da ogni privilegio ereditario. Per gli ordini equestri pontifici vedi appresso.

13 – C0n lo Statuto Albertino questo privilegio rimase abrogato, e l’ordine divenne una semplice decorazione cavalleresca. Vedi pareri approvati 28 novembre 1832, 24 aprile 1834, 28 gennaio 1840 dal Procuratore Generale di S. M. presso la Camera dei Conti di Torino. Per entrare invece nell’ordine come cavaliere di giustizia era necessario provare quattro gradi di nobiltà.

14 – GORINO, op. cit., pag. 22. – L’ordine della Milizia Aurata, la cui istituzione era stata anche attribuita a S. Silvestro Papa, venne restaurato e riformato nel 1841 da Gregorio XVI sotto il titolo di S. Silvestro. Comprendeva due classi: di commendatore e di cavaliere. Gregorio XVI e Pio X revocarono ogni privilegio nobiliare annesso all’ordine per rialzarne il prestigio, scosso dallo stragrande numero di diplomi concessi dai delegati del Papa, senza alcun controllo, dato che la collazione dell’ordine era delegata ad alcuni alti dignitari della corte papale e ad alcune famiglie principesche romane, fra le altre alla Sforza Cesarini. Pio X nel 1905 separò l’ordine della Milizia Aurata da quello di S. Silvestro. Quello dello Speron d’oro (ex Milizia Aurata) ha attualmente una sola classe di cavalieri; quello di S. Silvestro consta di 3 classi: 1a cavaliere di gran croce; 2a commendatore con placca e commendatore; 3a cavaliere. Vedi CUOMO, Ordini cavallereschi antichi e moderni, Napoli 1894, pag. 746; PIETRAMELLARA, Elenco degli ordini equestri, loro origine e storia, Roma 1901, pag. 54. Un tempo anche il pontificio ordine equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme conferiva privilegi di nobiltà identici a quelli della Milizia Aurata. Attualmente si discute se il titolo di conte palatino che vi era annesso, si debba ritenere decaduto per effetto della generica abolizione del titolo stesso fatta da Pio VII, nonostante che una revoca nominativa per l’Ordine del S. Sepolcro non esista. Sull’antichissimo ordine del S. Sepolcro si disputa sulla data di istituzione e sul nome del fondatore. Anticamente era condizione per la ammissione all’unica classe di cavalieri dell’ordine l’appartenere a nobiltà di razza. Per delegazione pontificia, rettore e amministratore perpetuo dell’ordine è il Patriarca Latino di Gerusalemme, che rilascia agli ascritti i diplomi, i quali dal 1931 devono essere vistati e muniti del sigillo della Cancelleria dei brevi presso la S. Sede, ai fini del loro riconoscimento ufficiale. L’ordine attualmente comprende 3 classi: cavaliere di gran croce, commendatore, cavaliere. Ad esso possono essere ascritte anche le Dame. Vedi CUOMO, op. cit., pag. 735. Secondo il PASINI FRASSONI (Considerazioni sui titoli nobiliari e sugli ordini equestri pontifici, in «Rivista Araldica», 1914, pag. 354) gli ordini di S. Gregorio Magno, istituito nel 1831 da Gregorio XVI e di S. Silvestro predetto, attribuirebbero, seguendo una pratica ritenuta comune a tutti gli ordini pontifici, la nobiltà generica e personale per i gran croce, GORINO, op. cit., pag. 20.

15 – Vedi CUOMO, Ordini cit., pag. 751, PIETRAMELLERA, op. cit., pag. 52. L’ordine attualmente è diviso in 3 classi: 1a cavaliere di gran croce: 2a commendatore con placca e commendatore: 3a cavaliere. Il titolo di nobile annesso alla onorificenza di cavaliere di gran croce dell’Ordine Piano è stato riconosciuto all’uso nel regno per la prima volta nel 1932, con provvedimento distinto da quello di riconoscimento del titolo equestre. Bollettino Ufficiale della C0nsulta Araldica, n. 42, 1933, pag. 65.

16 – CUOMO, Ordini Cavallereschi cit., pag. 905, 908. Per detti ordini la Consulta Araldica ha adottato le massime 35 e 50.

17 – PANDIANI, Albergo di Nobili, in «Enciclopedia Italiana Treccani », vol. II, 1929.

18 – Il nome di sedili derivava dal luogo ove i nobili si riunivano. Essi in origine erano 29, e per la estinzione delle famiglie si ridussero a 5, pur conservandosi i rappresentanti dei primitivi seggi, chiamati capitani della nobiltà. I capi dei seggi rimasti si chiamavano eletti, ed avevano, insieme coll’«eletto del popolo », il governo municipale della città.

19 -PERTILE, op. cit., vol. III, pag. 152.

20 -Una raccolta di legislazione nobiliare con testi integrali o riassunti è contenuta nel Memoriale per la Consulta Araldica pubblicato nel 1888, e ristampato in Roma dalla Libreria dello Stato nel 1924.

21 – Un Massimario per servire alla Consulta Araldica fu pubblicato in Roma, Stab. Tip. Civelli, nel 1905. Un nuovo Massimario contenente massime di legislazione nobiliare approvate dalla Consulta Araldica e dal Real governo e nuovamente ordinate è stato pubblicato a Roma, Tip. delle Mantellate, nel 1915. Le massime successive sono pubblicate nel «Bollettino ufficiale della Consulta Araldica », e riportate dalla PIANO MARTINUZZI, op. cit.

LA LEGISLAZIONE NOBILIARE DEI VARI STATI PRECEDENTI L’UNITÀ ITALIANA

Piemonte
Negli Statuti di Amedeo VIII del 1430 si contenevano norme sui figli legittimi dei bastardi dei nobili e sulle insegne e le armi. La duchessa Iolanda e Bianca, rispettivamente nel 1475 e 1491, emisero norme sopra l’alienazione dei feudi per dotare le fanciulle e sovvenir necessità familiari. Nel 1503 Filiberto II riformò gli Statuti sopra la natura retta e propria dei feudi e sull’alienazione dei medesimi per cause dotali. Carlo Emanuele I nel 1588 emise le costumanze generali del ducato di Aosta. Per esse, nella gente nobile il figlio seguiva la condizione del padre, bastando che fosse nobile il padre affinché i figli nati da legittimo matrimonio fossero considerati tali e godessero dei privilegi della nobiltà. Se il padre fosse nato da nobile lignaggio e nondimeno si fosse sposato ad una donna plebea, i figli nati sarebbero stati considerati nobili, ancorché la madre non lo fosse. Se il padre fosse stato plebeo e la madre nobile, i figli sarebbero stati plebei. Erano nobili coloro che avessero ottenuto rescritti e privilegi di nobiltà dal sovrano. La donna plebea maritata ad un nobile godeva dei privilegi e prerogative dei nobili, quale li godeva il marito, sia durante la di lui vita che nello stato di vedovanza. Ma se rimaritata con un plebeo, ancorché rimanesse vedova di lui, riprendeva la sua condizione di plebea, perché essa conservava la condizione del tempo del suo ultimo matrimonio. Se la donna nobile si maritava ad un uomo di medio stato, ancorché non
fosse nobile, non perdeva il privilegio di nobiltà, ma di esso godeva tanto in costanza di matrimonio che dopo. I suoi figli avrebbero goduto di detto privilegio per acquistare eredità nobili lasciate da essa, purché la natura del feudo lo avesse comportato. Quelli che avevano lo stato di nobiltà e si mantenevano come nobili, erano ritenuti per presunzione nobili, fino a che non si fosse verificato il contrario. La persona nobile, che avesse fatto o esercitato atti in deroga alla nobiltà, era sottoposta a tutte le tasse, concorsi, sussidi e altre imposte.
Per porre un freno alla passione sorta per gli stemmi, nel 1597 e 1598 vennero emessi due editti di proibizione di valersi di armi nobili senza privilegio imperiale o ducale, e di divieto dell’uso di armi gentilizie a coloro che, non essendo né ecclesiastici, né nobili, non avessero ottenuto un privilegio sovrano. Nel 1613 Carlo Emanuele I ordinò la formazione dei registri delle armi, e diede ordine di consegna, entro due mesi, a tutti i capi famiglia, proibì a tutti i naturali l’uso delle armi dei loro progenitori, salvo col segno, filo o barra e purché vi fosse stato il consenso scritto della maggior parte degli appartenenti alla medesima famiglia, stirpe, e la conferma ducale; confermò l’us0 per quelle armi di semplice possesso almeno settantenario. Nel 1618 fu dato ordine perché quest’ultimo editto fosse eseguito nel Monferrato. Nel 1627 Carlo Emanuele I prescrisse che la nobiltà non sarebbe stata pregiudicata ai negozianti nel porto franco in Nizza, Villafranca e Sant’Ospizio, e nel 1633 Vittorio Amedeo I, per assicurare l’abbondanza delle derrate e la prosperità del commercio, stabilì un ufficio di abbondanza, consentendo che alla costituzione del fondo dell’ufficio stesso potesse concorrere la nobiltà senza esserne degradata. Carlo Emanuele I con ordine 16 luglio 1648, considerato che la divisione dei feudi aveva non poco scemato lo splendore nelle principali e più nobili famiglie e provocato discordie fra i consortili, permise ai possessori di giurisdizione e beni feudali, ancorché di natura di feudo retto e proprio, «il poter detti feudi, in tutto o in parte erigere in primogenitura, ed in essi e fra i chiamati alla successione di essi, in virtù delle antecedenti investiture stabilire una o più primogeniture con ordine di perpetua lineale successione primogeniale, ovvero di maggiorato, o sia seniorato, e in questo modo pregiudicare temporalmente alla simultanea vocazione degli altri agnati e discendenti, o altri che in qualsivoglia modo fossero, dalle antecedenti investiture, chiamati alla successione». Per favorire la nobiltà e porgerle la comodità di fare decentemente qualche profitto, col quale sostenere i pesi del decoro che le conveniva, sull’esempio di quanto si praticava in altre città, M. R. Giovanna Battista con l’editto 3 aprile 1680 stabilì di non considerare come repugnante alla nobiltà e non pregiudizievole alla sua riputazione e prerogative, il tenere fondaci o magazzini di mercanzie, vendendole all’ingrosso, purché ciò fosse fatto a mezzo di altri, il tenere banco aperto di cambio o collocar il proprio e l’altrui denaro in mani di mercanti perché trafficassero per mare o per terra, il far lavorare altri nelle arti della seta, della lana e simili.
Vittorio Amedeo II, divenuto poi nel 1713 re di Sicilia, e poscia di Sardegna nel 1720 per permuta della Sicilia, con due editti del 1687 diede disposizioni sulla registrazione e concessione delle armi gentilizie e con editto 26 marzo 1700 prescrisse le regole da osservarsi sull’uso dei titoli di marchese, di conte e di barone. Con editto 7 gennaio 1720 stabilì la inalienabilità del demanio della corona, revocò tutte le concessioni di feudi a titolo grazioso fatte anche dai predecessori, nel 1722, per far fronte alle spese del regno, fece una larga vendita di feudi, e, a complemento delle costituzioni 11 luglio 1729, nelle quali si trattava della natura e successione nei feudi, della erezione di essi in primogenitura, della alienazione dei feudi e dei beni feudali, con RR. Patenti 5 ottobre 1729 stabilì che coloro che avevano acquistato feudi dal procuratore generale di S. M. avessero, oltre la facoltà di disporre come primi acquisitori sì per contratto che per ultima volontà a favore di chi avessero voluto, purché fossero persone capaci e gradite al Sovrano, quella ancora di chiamare alla successione del feudo, dopo la linea mascolina dei loro discendenti maschi, o una delle femmine da essi discendenti, purché nel primo maschio da essa discendente il feudo riassumesse la natura di retto e proprio, o un agnato trasversale, purché questo fosse nel tempo in cui si sarebbe aperta la successione nel settimo grado di parentela civile. Con l’editto di Carlo Emanuele III del 16 aprile 1734 sulla impropriazione dei feudi22 veniva accordato ai primi acquisitori non solo l’impropriazione per le femmine da essi discendenti, ma anche la facoltà ai discendenti loro dell’uno e dell’altro sesso di poterne disporre sì per contratto fra vivi che per ultima volontà. Ai possessori di feudi che fossero loro pervenuti dagli antenati, se non avevano agnati trasversali, si consentiva l’impropriazione per le femmine da essi discendenti in mancanza di maschi, ed avendo agnati trasversali si concedeva l’impropriazione in modo che la vocazione delle femmine avesse solamente luogo in mancanza dei maschi sì di essi che dei loro agnati.
Si accordava a qualunque vassallo che l’ultimo chiamato alla successione del feudo, che altrimenti sarebbe tornato alla di lui morte al regio patrimonio, potesse disporne tanto per contratto tra vivi che per ultima volontà. I feudi posti in vendita con l’editto dell’ottobre 1733 avrebbero potuto alienarsi anche per femmine, e sarebbero stati disponibili per contratto e per atto di ultima volontà.
Dal parere, in data 20 luglio 1738, di un Congresso formato dai primi presidenti del senato di Piemonte e della camera dei conti e dell’avvocato generale del senato di Piemonte, e diretto a Carlo Emanuele III, si rileva che erano distinti tre generi di nobiltà:
1) per privilegio del principe: era quella che dal principe si concedeva a chiunque gli piaceva e voleva far nobile e questa si tramandava senz’altro alla discendenza;
2) di sangue: questa non aveva norme certe per misurarla. Per la legge dei romani, adottata universalmente ed osservata da quegli ordini di cavalleria i quali esigevano la nobiltà senza prefiggerne i gradi, erano considerati nobili quelli che erano nati da padre e da avo nobili. Erano poi considerati nobili quelli che erano nati e vivevano nobilmente, e non solamente vivendo delle proprie rendite, senza esercitare arte meccanica o vile, ma quando fossero altresì riputati nobili per stima e concetto pubblico, od ammessi negli ordini, assemblee ed impieghi civili, i quali si suolevano conferire se non a persone nobili, maggiormente se avessero contratto per matrimonio alleanze illustri. La prova di questa nobiltà era della natura di quelle cose che dipendendo da puro fatto ricevono dalle circostanze maggiore o minor peso. Per comporre questa nobiltà si richiedeva il concorso di tre generazioni vissute nobilmente;
3) per uffici di dignità coperti da persone, che si rendevano meritevoli di essere considerate per nobili. Già Carlo Emanuele I nell’editto del 27 marzo 1584, dichiarando quelli che, come nobili, andavano esenti dai tributi, aveva annoverato gli ufficiali stipendiati ed esercitanti l’ufficio col titolo di consiglieri del principe, di controllori di guerra, i segretari del Sovrano servienti presso la sua persona. Successivamente furono compresi i giudici maggiori della Savoia, quantunque il senato avesse dichiarato che questa nobiltà non sarebbe discesa ai loro figli.
Ora volendo fissare dei criteri per stabilire la nobiltà degli uffici, il congresso propose che fosse adottata la regola seguente. Se si trattava di persone discendenti dagli ufficiali dei tempi passati, avrebbero potuto considerarsi pur nobili quelli che discendevano da ufficiali che gli editti dichiararono nobili, o da altri i quali avessero posseduto impieghi che nel tempo degli editti non erano dichiarati nobili, ma vi erano e vi ebbero altresì annesso il titolo di consigliere del principe, per essere questo un titolo nobile da sé; se si trattava di ufficiali presenti conveniva distinguere le classi degli ufficiali per adattarvi le regole convenienti.
Cominciando dalla magistratura, i supremi tribunali erano stati sempre considerati come una specie di milizia e di sacerdozio, composti di persone distinte o per nascita o per altri meriti, e quelli che non erano nobili per sangue si facevano cavalieri nelle leggi, simili a quelli di spada. Per l’ufficio ricoperto, e per il fine di poter acquistare feudi di giurisdizione avrebbero dovuto annoverarsi fra i nobili, fra i magistrati, i presidenti, i senatori, i referendari, quelli che godevano un impiego simile, come i collaterali di camera, gli avvocati e procuratori generali, gli avvocati dei poveri, i mastri auditori che godevano la sedia e le insegne dei senatori e collaterali rispettivamente. Riguardo alle segreterie avrebbero potuto essere compresi fra i nobili coloro che avevano il titolo di segretario di stato e di guerra e di gabinetto e della M. S. e d’archivista di corte; inoltre i primi ufficiali del controllore generale, delle finanze e delle gabelle, e maggiormente il controllore generale, l’auditore generale di guerra, l’intendente generale della casa di S. M., dell’artiglieria, delle fabbriche e delle fortificazioni, gli intendenti generali delle province. Degli impieghi militari avrebbero potuto comprendersi nella nobiltà i governatori e comandanti di piazza, i maggiori, i colonnelli, i luogotenenti, i maggiori dei reggimenti, i capitani con 10 anni di servizio. Venivano anche proposti per la concessione della nobiltà i prefetti, gli intendenti delle province ed i sostituti degli avvocato, procuratore ed avvocato fiscale generale con 10 anni di servizio. Inoltre i posseditori di un feudo nobile avrebbero dovuto esser considerati nobili, operando in loro il feudo ciò che faceva l’ufficio nobile negli altri.
Circa la nobiltà così attribuita, se fosse solo temporanea finché si possedesse il feudo o si esercitasse l’ufficio, venne proposto che, rispetto al feudo acquistato, la prerogativa durasse in colui che lo aveva acquistato finché vi fosse stato il possesso; se il feudo fosse venduto o ritolto, più non avrebbe giovato, ma avrebbero conservato la nobiltà avuta col feudo i di lui figliuoli, ancorché avessero perduto il feudo, se però ciò non fosse avvenuto per atto volontario o per delitto. Negli altri casi avrebbero conservato la nobiltà acquistata dal padre e con la morte di lui consumata. Per la nobiltà per ufficio, essa si sarebbe perduta da colui che aveva abbandonato l’ufficio, e si sarebbe conservata nel caso di collocamento a riposo onorevole impetrato. Inoltre essa, per quegli uffici che erano nobili da sé, e nei quali il padre fosse morto, esercitandoli finché visse o fin quando fosse stato collocato a riposo, si sarebbe trasmessa nei posteri, purché questi la conservassero vivendo nobilmente, ma si sarebbe perduta in caso di esercizio di arte meccanica. Per quegli uffici, nei quali fossero richiesti dieci anni di servizio per far nobile il soggetto, la nobiltà non sarebbe passata ai figliuoli, ma ai figli dei figli, purché gli uni e gli altri fossero vissuti nobilmente, considerando simili impieghi, esercitati sempre dall’avo o lasciati per onorevole giubilazione, come un principio di nobiltà, la quale, coltivata nelle tre generazioni ed accresciuta, facesse nobile chi ne discendeva.
La nobiltà acquistata per lettere del principe, siccome si perdeva per l’esercizio di qualche arte meccanica, avrebbe potuto riacquistarsi quando si fosse ricorso al Sovrano, o si fossero da lui ottenute lettere di riabilitazione. Gli altri generi di nobiltà, una volta perduti, non si sarebbero più riacquistati. Per la patente sovrana del 25 febbraio 1735 furono anche dichiarati capaci di acquistar feudi i capitani dei reggimenti e i semplici laureati.
Carlo Emanuele III con editto 5 agosto 1752 dispose sulla natura ed alienabilità dei feudi del ducato di Savoia. Per esso, i feudi, conformemente al costume di quella regione, erano alienabili sia per contratto che per disposizione di ultima volontà, e trasmissibili a maschi e femmine. Facevano eccezione quei feudi ai quali fosse stata data una natura particolare e stretta. I feudi erano divisibili tanto in caso di successione che di alienazione, era però riservato il diritto di riscatto alla corona. I feudi di natura stretta non erano suscettibili di riscatto, e per la alienazione bisognava ottenere il consenso sovrano.
Lo stesso Carlo Emanuele III con le costituzioni del 7 aprile 1770 riordinò la materia dei feudi. Essi, salvo che nella prima investitura non fossero stati concessi con altra forma, erano retti e propri, e, nonostante la clausola adoperata nelle investiture dei feudi del Piemonte: « per sé e suoi eredi e qualsivoglia successori », erano ritenuti concessi per retti e propri. La clausola eredi e successori adoperata nelle investiture comprendeva soltanto i figli e i discendenti, rimanendo abolita ogni forma di feudo misto. Nei feudi concessi per maschio e femmina, le femmine succedevano solo in mancanza di maschi, di modo che il maschio più remoto, ancorché d’altra linea, escludeva la femmina più prossima in grado di succedere.
La clausola in antico, avito e paterno, apposta alle concessioni dei feudi, non comprendeva i fratelli o altri agnati, e quando gli agnati trasversali al primo acquisitore erano espressamente chiamati, non succedevano oltre il 7° grado. Ogni figlia nubile, o donna, che possedesse qualche giurisdizione o diritti feudali, venendo a maritarsi con uno straniero non abitante negli stati del regno, decadeva dal dominio e possesso di essi, e era incapace di acquistarne altri, tanto per atto tra vivi che di ultima volontà.
La giurisdizione e i diritti feudali si devolvevano a coloro che erano in grado di succedere, esclusi i discendenti dal matrimonio con lo straniero. l feudi in avvenire sarebbero stati concessi per retti e propri, ritenendosi nulla ogni altra forma, escluse le concessioni che anche, con qualche impropriazione della loro natura, sarebbero fatte in virtù di pubblici editti per urgente necessità o per evidente utilità della corona. Ogni feudo di giurisdizione, tanto retto e proprio, per maschi e femmine, che meramente ereditario, non poteva mai dividersi fra più possessori, benché fossero di ugual grado, ma si sarebbe conservato sempre indiviso, ammessa la divisibilità solo dei beni feudali rustici separati dalla giurisdizione. Coloro che avevano la facoltà di disporre di detti feudi potevano sottoporli a primogenitura fra i chiamati in quell’ordine che avessero creduto, tanto per contratto che per disposizione di ultima volontà, e, quando non li avessero sottoposti a primogenitura, sarebbe succeduto il primogenito fra i chiamati, ad esclusione degli altri, e fra primogeniti, concorrendo alla successione il patruo (zio paterno) e in virtù di rappresentazione il nipote, questo avrebbe escluso sempre il patruo. Le primogeniture istituite sui feudi ereditari e disponibili erano limitate fino al 4° grado. L’investitura dei feudi doveva esser chiesta dai vassalli alla camera dei conti, sotto pena di decadenza entro l’anno e un giorno, sia nel caso di successione che di acquisto, sia in caso di cambiamento di Sovrano. Le investiture concesse immediatamente dal Sovrano dovevano esser presentate entro un mese alla camera dei conti per la interinazione. In caso di decadenza del feudo, per non chiesta investitura, o per inadempimento delle altre obbligazioni di vassallaggio, se antico, retto e proprio, o per maschi e femmine, o ereditario vincolato, la sua devoluzione al r. patrimonio aveva luogo solamente a danno del contumace e durante la di lui vita, e dopo la morte del medesimo il feudo ritornava a coloro che erano in grado di succedergli. La stessa regola si osservava in caso di confisca del feudo per delitto comune. Nel caso di fellonia del vassallo o di reato di lesa maestà, decadeva dal feudo il vassallo e qualunque discendente, agnato, trasversale, o altro chiamato per disposizione di legge o per patto e provvidenza dell’uomo.
Nessuno avrebbe potuto usare il titolo di duca, principe, marchese, conte o barone o qualsivoglia altro, se non avesse avuto la patente del Sovrano o suoi predecessori interinata alla camera dei conti, e ottenuta la investitura dei feudi e delle giurisdizioni che avessero annesso un titolo. I possessori di piccole giurisdizioni feudali non avrebbero potuto fare uso del titolo, se non avessero avuto la metà intera del feudo nei luoghi di cento fuochi, o un terzo negli altri di maggior numero; se però anche per più piccole porzioni di feudo fosse stato accordato dal Sovrano qualche titolo, avrebbero potuto farne uso.
Coloro che avessero alienato i feudi, ai quali erano ammessi i titoli, non avrebbero potuto più goderne, anche se nel contratto se ne fossero riservata la facoltà. Era consentito ai possessori di quei feudi che erano alienabili di venderli ed ipotecarli col consenso sovrano, ma solamente per le doti delle loro figlie o di altre femmine discendenti dal primo acquisitore, o per i puri e meri alimenti del vassallo, o per i miglioramenti indispensabili del feudo. La vendita o la ipoteca doveva esser preceduta dall’interpellazione dei consorti ed agnati del feudo, i quali avevano la prelazione. Non erano capaci di acquistar feudi aventi l’esercizio di qualche giurisdizione se non le persone nobili, o quelle che, non essendo nobili, avessero prima ottenuto le patenti di nobiltà o abilitazione. Lo stesso limite si applicava per la successione nei feudi ereditari quando non si fosse trattato di successori ab intestato, ma di un estraneo in virtù di disposizione di ultima volontà.
Vittorio Amedeo III nel 1782 sancì speciali pene contro i nobili che avessero contratto matrimoni sconvenienti, e nel 1797, sotto l’influenza delle idee della rivoluzione francese, dichiarò allodiali i beni feudali e sciolti da ogni vincolo feudale, eccetto le terre costituenti appannaggi dei principi reali, abolì i diritti e prerogative feudali e proibì la istituzione di primogeniture e fedecommessi. Occupato il Piemonte dai Francesi, il governo provvisorio nel 1793 abolì tutti i titoli, le divise e distinzioni di nobiltà, l’uso delle livree, trine, armi e stemmi gentilizi, e prescrisse che sarebbe stato usato solo il titolo di cittadino; nel 1798 dispose che sarebbero stati bruciati solennemente i diplomi, gli stemmi, le investiture e le altre carte di aristocrazia, ai piedi dell’albero della libertà.
Il 9 dicembre 1799 Carlo Emanuele IV abdicava al regno, protestando contro l’occupazione francese, e nel 1802 il Piemonte veniva unito alla Francia, divenendone provincia, e seguendone la legislazione, per cui occorre occuparsi anche di essa.
Napoleone, proclamato l’impero nel 1804, pensò di accrescere lo splendore del suo trono con l’istituzione di una nuova nobiltà e di ordini cavallereschi. Così nel 1806 costituì la Legione d’Onore, e con decreto del marzo 1808 creò la nuova nobiltà, la quale derivava unicamente dall’imperatore, e non dal possesso di un feudo, non godeva di privilegi onorifici, né era esonerata dagli oneri pubblici. Con lo stesso decreto abolì esplicitamente la vecchia nobiltà, i cui titoli tornarono all’imperatore, il quale fu favorevole a concederli a quei nobili, che li avevano prima posseduti, e che si erano resi benemeriti del nuovo governo. Per collegare la vecchia alla nuova nobiltà, Napoleone creò nei territori italiani acquistati, dodici ducati negli Stati veneti, e sei nel Regno di Napoli, che furono poi concessi ai generali dell’esercito. Fece inoltre rivivere i titoli di principe e di altezza serenissima, per i grandi dignitari dello stato, e diede ai primogeniti di essi il diritto di chiamarsi duca dell’impero, qualora il padre avesse costituito loro un maggiorasco che producesse 20 mila franchi all’anno. Pose il titolo di principe sopra quello di duca, abolì il titolo di marchese e di visconte, stabilì che la nobiltà era personale, col diritto di renderla ereditaria quando si fosse costituito un maggiorasco, la cui rendita variava a secondo dei titoli. Nello stesso anno 1808, nella sua qualità anche di Re del Regno Italico, emanò il 7° statuto costituzionale sui titoli di nobiltà del quale sarà detto parlando della Lombardia. Caduto nel 1814 Napoleone, Vittorio Emanuele I ripristinò le costituzioni di Carlo Emanuele III del 1770 e gli altri provvedimenti emanati dai suoi predecessori fino al 23 giugno 1800.
Nella trasformazione, che subirono dopo la restaurazione del 1815 gli stati da regime assoluto a quello costituzionale, sorse il problema sulla conservazione o meno della nobiltà, e, nell’affermativa, delle garanzie a tutela del principio fondamentale della eguaglianza giuridica e sociale dei cittadini, e questo problema si presentò nel 1848 a Carlo Alberto al momento della concessione dello Statuto, ispirato alle costituzioni francese e belga.
Ed assicurato il principio dell’eguaglianza civile e politica dei cittadini con l’art. 24 dello Statuto, Carlo Alberto non ebbe difficoltà a mantenere, con l’art. 79, la nobiltà come affermazione storica.
Ciò risulta chiaramente dallo schema dello Statuto, nel quale era detto: «I titoli di nobiltà sono garantiti », mentre nel testo definitivo venne detto: I titoli di nobiltà sono mantenuti. In tal modo la formula Albertina risultò più precisa di quella usata nelle costituzioni francese e belga, volendo intendere che i titoli nobiliari erano mantenuti, senza distinzione d’origine e di epoca, generalmente a tutti coloro che potessero vantare per essi un vero e proprio diritto. A fianco di questo riconoscimento del passato non si dichiarò porta chiusa alla nobiltà, bensì si riconobbe al Re il potere di conferire titoli nuovi.
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22 – Ossia trasmissione od acquisto, devianti dalla natura retta e propria dei feudi. Una circostanza alterativa della natura del feudo, che diveniva improprio e corrotto, era l’abilitazione delle femmine a possederlo. V. Card. DE LUCA G. B., Il dottor volgare, Libro I, capo IV, parag. 3, Roma, Corvo 1673.

Genova
Nella repubblica di Genova la nobiltà era formata da quelle famiglie che dai tempi più antichi avevano dato al governo podestà e consiglieri del podestà. Le famiglie nobili erano coalizzate così potentemente nei 28 Alberghi (v. n. 18) da allontanare dal governo e da tutte le cariche pubbliche coloro che non erano nobili. Le prime disposizioni sulla nobiltà sono contenute nel regolamento del 1528, che prevede la formazione di un Liber nobilitatis da custodirsi presso la Signoria, in cui si sarebbero dovuti annotare tutti i cittadini nobili, raggruppati negli Alberghi, libro volgarmente detto «Libro d’oro» (v. n. 106). Varie disposizioni furono emanate successivamente per la iscrizione in detto libro, che fu bruciato il 1797. Genova nel 1805 fu aggregata alla Francia, e nel 1815 fu unita al Piemonte. Dai seguenti pareri del Procuratore Generale presso la Camera dei Conti di Torino si rileva che: il governo succeduto alla repubblica di Genova non riconobbe altra nobiltà fuor di quella che la repubblica riconosceva: cioé: quella derivante dalla ascrizione al libro d’oro (parere 16 febbraio 1838); il titolo marchionale assunto da alcune Famiglie ducali di Genova fu tacitamente dal governo del Re tollerato, ma non serve ad esse di titolo legale, molto meno può implorarsi quale diritto da altri discendenti da famiglie ascritte al libro d’oro aperto nel 1528 (pareri 23-12-1834 e 23-6-1845)23 .
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23 – Con R. D. 18 dicembre 1889 venne autorizzato il riconoscimento per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del titolo di marchese ai discendenti in linea primogenita, mascolina, legittima e naturale degli individui iscritti al corpo della nobiltà genovese nel 1797. Con deliberazione 30-1-1890 la Consulta propose il riconoscimento del titolo marchionale ad personam a quei patrizi genovesi ultrogeniti di famiglie alle quali secondo il decreto del 1889 spettava il titolo marchionale, e che essendo in elevata posizione sociale già godessero tale titolo per enunciazioni fatte in antecedenti provvisioni regie. Questa deliberazione, sancita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, venne revocata a decorrere dal l° giugno 1908.

Sardegna
Fin dal Re Alfonso d’Aragona nel 1481 venne consentita la successione nel feudo anche alla figlia vivente. Con successivo capitolo del 1511 venne stabilito che la successione fosse sempre del figlio maggiore, e del maschio di esso, e se egli fosse premorto al padre, subentrassero a lui altri fratelli. Con capitoli del 1560, 1575 e 1586 venne ampliata la successione nei feudi nelle figlie, preferendo la maggiore alla minore. Nel 1623 venne stabilito che nella successione dei feudi si avesse riguardo alla primogenitura fra i fratelli chiamati alla investitura, e che nella successione delle donne e loro figli si osservassero le clausole della investitura e le disposizioni del diritto. Sotto Casa Savoia venne disposto che nessuno avrebbe potuto usare il titolo di cavaliere o di nobile, se non avesse avuto sovrane patenti, o non fosse stato per tale riconosciuto in due corti successive.
I fedecommessi e le primogeniture erano ristretti a 4 gradi e si insinuava la compra, la vendita e la concessione dei beni feudali. Nelle leggi civili e criminali di Carlo Felice del 16 gennaio 1827 venne stabilito che nella successione ai feudi, essendo stata questa sempre nel regno individua, sia in forza dei capitoli di corte, sia per immemorabile consuetudine, si sarebbe osservato sempre l’ordine di primogenitura. La successione sarebbe stata sempre regolare in concorso di donne, se esse vi fossero state, benché in difetto di maschi, eccetto che non si fosse provveduto diversamente, o nella stessa concessione, o per disposizione dell’investito del feudo, il quale avesse, o dalla stessa concessione o a termini della legge, la facoltà di disporre e prescrivere l’ordine di successione tra le persone chiamate e comprese nell’investitura. Era vietato di alterare i patti e le condizioni contenute nelle infeudazioni e concessioni, e di alienare in tutto o in parte terre feudali a persone in esse non comprese, o di passarle per alcun titolo a mano di università, chiese, monasteri, collegi o altre manimorte, senza speciale permesso ed autorizzazione del Sovrano. Carlo Alberto nel 1835 prescrisse la consegna generale dei feudi, giurisdizioni e diritti feudali, e nel 1836 soppresse la giurisdizione feudale. Nel 1842 lo stesso Carlo Alberto stabilì che, ove una famiglia si fosse dedicata all’insegnamento universitario, il terzo professore di una stessa linea avrebbe goduto la nobiltà personale ed il diritto di chiedere la nobiltà progressiva nel caso che i suoi successori della stessa linea avessero servito per almeno 10 anni ciascuno. La stessa onorificenza e diritto avrebbe avuto quel professore il quale contava nella linea dei suoi ascendenti due persone fregiate della qualità di giudice della Reale Udienza, o del grado di luogotenente colonnello nelle R. Armate o del distintivo di cavaliere dell’ordine militare dei SS. Maurizio e Lazzaro.
La Consulta Araldica ha adottato per la Sardegna le seguenti massime: la nobiltà sarda acquistavasi mediante espresso speciale diploma (art. 108). Fanno parte della nobiltà sarda quelle famiglie che hanno ottenuto speciali diplomi dai Re di Aragona, di Spagna e di Sardegna (articolo 119). I titoli di principe, duca, marchese, conte, barone, visconte, provenienti dai cessati possessori di feudi per maschi e femmine, spettano ai maschi primogeniti, ma possono trasmettersi, in mancanza di loro, e dei loro diretti successori, ai fratelli, ed in mancanza di questi, alle sorelle. In parità però di grado e di linea, il maschio è sempre preferito alla femmina (art. 117). Poteva usare del titolo di nobile e cavaliere chi era stato riconosciuto per tale in due Corti Successive (art. 109). Nell’isola di Sardegna e per i feudi impropri il diritto di primogenitura si trasfondeva nella linea dell’investito; cosicché deve prima esaurirsi interamente la linea investita, anche con la vocazione delle femmine, in precedenza di maschi delle linee più remote (articolo 105). Alle famiglie decorate del cavalierato e della nobiltà e ai vescovi, spetta il trattamento di don, che non si può pretendere né dai sacerdoti, né dai semplici cavalieri ereditari, né dai titolati od antichi feudatari, che non furono decorati del cavalierato e nobiltà (art. 104). In Sardegna non esiste alcuna vera nobiltà civica o decurionale (art. 118).

Lombardia
Passato il Ducato di Milano sotto il dominio spagnuolo, Filippo III nel 1609 stabilì che per le concessioni dei titoli di marchese e di conte da lui fatte dal 1601 ad allora nello Stato di Milano, e in quelle future, i titoli stessi avrebbero dovuto passare soltanto ai primogeniti, nonostante vivessero altri discendenti ai quali appartenesse porzione del feudo sopra cui fossero collocati e posti tali titoli, data la svalutazione subita dai titoli stessi in conseguenza del fatto che in quello Stato i feudi erano divisibili, e quindi succedendo tutti i discendenti, una terra veniva ad avere molti signori, con danno dei sudditi. In caso poi di reversione alla Corona di feudi, questi non avrebbero dovuto esser venduti coi titoli di marchese e di conte.
Per rimediare agli abusi il Viceré duca di Feria in data 29 maggio 1631 dispose che fossero notificati i titoli di marchese o di conte, e il Viceré Contestabile di Sicilia in data 1° febbraio 1647 ordinò di notificare i titoli di marchese, conte, barone ed altri.
Con editto governativo 29 marzo 1718 venne rivolto invito ai titolati da principi stranieri di godere la prerogativa nobiliare nello Stato, purché pagassero cento doppie per una sola volta, e venne concessa dispensa ai titolati di S. M. dall’obbligo di acquistare un feudo capace, mediante il pagamento di cento doppie per i marchesi e 50 per i conti; fu fatto obbligo ai titolati di presentare i loro privilegi e documenti per formare un catalogo dei titolati. Fu fatto invito ai feudatari per l’acquisto dell’jus proclamandi nei loro feudi, e per ottenere la facoltà della successione nel feudo per una femmina in caso di estinzione della linea mascolina.
Passato il Ducato di Milano all’Austria nel 1714, l’Imperatrice Maria Teresa con dispaccio sovrano 31 agosto 1750 approvò il regolamento sulle armi gentilizie, titoli e predicati e stabilì la formazione di un tribunale araldico; il 14 settembre successivo emise un editto sul regolamento della nobiltà, e il 7 gennaio 1768 una prammatica di erezione del tribunale araldico.
La stessa Maria Teresa emise il 20 novembre 1769 un editto per tutta la Lombardia austriaca sulla nobiltà. Per tale editto erano considerati nobili: coloro che erano ammessi agli ordini e ai ranghi che richiedevano prove di nobiltà generosa, come i ciamberlani o simili, o che dalle proprie città e corpi pubblici della Lombardia austriaca, che erano in possesso di tale prerogativa, fossero stati riconosciuti e dichiarati dal tribunale araldico essere di una famiglia antica e veramente nobile, perché i loro ascendenti paterni si erano trovati ad avere acquistata una vera e positiva nobiltà, senza che a tal fine potesse esser tenuto conto di armi gentilizie e di predicati nobili, posti in qualunque atto pubblico o privato dopo l’anno 1640; i titolati da S. M. o dai suoi predecessori, quando avessero provato di avere adempiuto le condizioni apposte agli stessi titoli nella concessione; gli investiti di feudo con giurisdizione che fossero almeno di cinquanta focolari, anche quando essi non fossero già ammessi agli ordini nobili, purché tale feudo fosse stato conferito per meriti personali o dei loro maggiori, e con l’espresso fine di nobilitarli; gli altri mancanti di detto requisito non avrebbero potuto acquistare un feudo nobile o con giurisdizione, se prima non fossero ammessi agli ordini nobili o abilitati, con la nobilitazione da concedersi dal Principe, all’acquisto di tale feudo; coloro che avessero riportato da S. M. privilegio di essere annoverati fra nobili, con speciale dichiarazione che essi dovessero godere delle prerogative degli ordini nobili.
Erano reputati nobili i Regi Ministri che siedevano nei tribunali, i quali erano in Milano: il Senato, il Consiglio d’Economia pubblica e il Magistrato Camerale; in Mantova: la Giunta del Vice Governo, il Consiglio di Giustizia, il Magistrato Camerale. La nobiltà di questi funzionari sarebbe divenuta ereditaria nella famiglia, e trasmessa a tutta la posterità, solo nel caso che una delle suddette dignità o cariche si fosse trovata anche nella persona del figlio o di altri dei discendenti dal primo investito di tale carica.
Godevano pure delle distinzioni di nobili gli Avvocati e i Sindaci Fiscali, i Capitani di Giustizia di Milano e Mantova, i Segretari del Governo e dei Tribunali Supremi, i Vicari Generali dello Stato di Milano, il Vicario di Giustizia di Milano, l’Ispettore Generale delle Caccie, i Delegati e i Podestà Regi; però la nobiltà loro, meramente personale ed annessa all’esercizio dell’ufficio, non era trasmissibile ai discendenti, quando una delle dette cariche non fosse continuata nella stessa famiglia per tre generazioni, cioè nelle persone del padre, del figlio e del nipote.
Le mogli e le vedove delle persone dei nobili e dei Regi Ministri anzidetti godevano anch’esse delle distinzioni dei nobili, purché fossero o di nascita nobile, o distinta fra cittadini, ed avessero ristorato con le proprie sostanze la nobile famiglia del marito, a condizione però che esse non fossero del tutto plebee. Le mogli e le sorelle dei nobili, collocandosi in matrimonio, seguivano la condizione dei mariti.
Erano considerati anche nobili i discendenti legittimi dai figli naturali, nati da padre nobile e libero e da madre libera, qualora i detti figli naturali fossero stati legittimati o per susseguente matrimonio, o almeno per rescritto del proprio Sovrano, e che fossero stati allevati dai loro padri nobilmente, e che né essi, né i loro discendenti avessero degenerato.
I sudditi di Sua Maestà nella Lombardia austriaca che si fossero fatti dichiarare nobili, o avessero riportato da qualunque principe, sia ecclesiastico che secolare, titolo di onore, non sarebbero considerati per tali, quando non avessero provato una antica nobiltà, o di esserne in possesso prima del 1640, o non ne avessero da S. M. riportato la conferma, e questa non fosse stata fatta insinuare negli atti del Tribunale Araldico.
I figli e discendenti dei nobili, se avessero degenerato dalla nobiltà dei loro maggiori, non avrebbero potuto essere considerati nobili e capaci delle distinzioni permesse con l’editto stesso; che, se il difetto fosse sopra dell’avo e non oltrepassasse due generazioni, oppure se questi figli e discendenti di nobili avessero riportato da S. M. il privilegio di ripristinazione, anche questi sarebbero stati considerati capaci delle distinzioni.
Erano comminate sanzioni per coloro che si fossero fatti trattare o considerare come nobili a voce o per iscritto.
Ai fini delle prove di nobiltà non avrebbe fatto ostacolo l’aver commerciato all’ingrosso in lana o in seta, entro gli Stati della Lombardia dopo le disposizioni del 29 maggio 1760, e di altri precedenti diplomi.
Nei capitoli secondo e quarto si contenevano, rispettivamente, le disposizioni circa le armi gentilizie e loro ornati, e la pompa esterna onorifica.
Circa i titoli e predicati di onore, il capitolo terzo stabiliva che nessuna persona, che non fosse compresa nell’elenco dei titolati, poteva farsi nominare a voce o per iscritto duca, principe, marchese, conte, barone, né usare di questi titoli o attribuirsi qualunque altra distinzione e grado.
I soli primogeniti di coloro che avevano riportato privilegi e titoli dopo la prammatica del 1601, confermata dall’altra 2 giugno 1609 avrebbero potuto usare dei suddetti titoli di onore, e i secondogeniti avrebbero dovuto astenersene, qualora i titoli non fossero estesi anche ad essi, e si fosse in ispecie derogato agli ordini suddetti.
Qualunque suddito, che avesse ottenuto titoli o qualsivoglia altra prerogativa di onore o di nobiltà da qualche Principe estero, secolare od ecclesiastico, non avrebbe potuto usare di tali titoli e prerogative, se non avesse riportato dal Sovrano o dai predecessori la dovuta conferma.
I sudditi di S. M. che accidentalmente si fossero trovati nella Lombardia austriaca, avrebbero potuto usare dei titoli ai medesimi conferiti dai loro Principi naturali. Nessuno avrebbe potuto nominarsi col titolo di qualunque feudo o signoria, se non ne fosse nel possesso attuale.
Nessun discendente da femmine avrebbe potuto far uso del titolo della signoria o del feudo che possedevasi dai loro ascendenti, qualora i discendenti stessi non fossero stati compresi nelle prime concessioni, o nn avessero ottenuto la grazia della ampliazione. Nessuna persona di un sesso o dell’altro avrebbe potuto attribuirsi il predicato di nobile, cavaliere, dama, né quello dell’illustrissimo, don, donna, se non fosse dell’ordine nobile, e sarebbe stato molto più vietato l’usare del predicato di altezza o di eccellenza, qualora non si fosse stati elevati a grado che lo portasse.
Alle persone impiegate in abbietti esercizi non avrebbe potuto darsi neanche del semplice predicato di signore, il quale sarebbe stato permesso unicamente a chi viveva civilmente, oppure esercitava qualche arte o impiego civile.
Con successivo editto di Maria Teresa del 29 aprile 1771 furono chiarite ed interpretate le anzidette disposizioni, stabilendosi, fra l’altro, che per dichiarare una famiglia di vera e generosa nobiltà si sarebbero dovute presentare al Tribunale araldico le prove di essersi essa, almeno per 200 anni, trattata in figura di nobile, ciò che si sarebbe dedotto dai predicati di onore, secondo l’età, da matrimoni qualificati, da cariche e impieghi, che ordinariamente non si affidavano se non a persone nobili, da patronati, da dovizie, da titoli, feudi cospicui, fabbriche magnifiche ed antiche, state però sempre possedute dai maggiori della medesima famiglia, ed altre simili decorazioni, che inoltre gli ascendenti del richiedente non avessero esercitato arti meccaniche, ad eccezione della grande mercatura. Fra dette decorazioni si sarebbe contato anche il decurionato, purché continuato nei maggiori del richiedente per 150 anni, e che per almeno 200 anni concorressero alle qualificazioni suindicate. Tra le qualificazioni da provarsi pel corso di 200 anni si sarebbero valutati, uniti però ad altri, i predicati di onore continuati per 100 anni, quantunque dopo il 1640.
Riguardo a quelle città della Lombardia che anticamente si erano rette a forma di repubblica ed alcune delle quali costituivano parte dello Stato di Milano, le persone aggregate al ceto patrizio o al collegio dei nobili dottori di antica istituzione delle medesime, sarebbero state reputate nobili anche allora, purché l’ordine patrizio o il collegio dei dottori di simili città avesse osservato o osservasse uno statuto particolare, che nella persona del richiedente prescrivesse per la sua aggregazione prove di genuina nobiltà corrispondenti alle regole prescritte dallo statuto del Collegio di Milano.
I titoli concessi con diplomi imperiali avrebbero abbracciato bensì tutti i discendenti maschi senza ordine di stretta primogenitura, non però le femmine maritate in altre famiglie, e molto meno i loro discendenti. Gli onorati con simili titoli dalla Cancelleria dell’Impero non sarebbero stati tenuti ad appoggiare i titoli a feudi.
In Mantova sotto i Gonzaga non esistette una legislazione nobiliare. Passato il Ducato nel 1707 sotto l’Austria, nel 1709 e nel 1739 il patriziato mantovano venne obbligato a giustificare i propri titoli, e nel 1770 venne istituita una speciale Deputazione Araldica, dipendente in parte dal Tribunale di Milano. Nel 1786 venne soppresso il Tribunale Araldico e le sue attribuzioni furono affidate al Consiglio di Governo. Nel 1793 fu approvato dal Consiglio Generale di Milano il regolamento per la ammissione al nobile patriziato milanese.
La Lombardia, costituitasi in Repubblica Transpadana nel 1796, dopo essersi unita alla Repubblica Cispadana, della quale facevano parte Modena, Reggio, Ferrara e Bologna, formando una repubblica Cisalpina, che nel 1802 prese il nome di Italiana, si trasformò nel 1805 in Regno d’Italia. Nella Repubblica Cisalpina con legge 22 pratile anno IV (10 giugno 1796) fu abolita la nobiltà e dichiarata estinta ogni autorità feudale. Detta legge fu poi estesa al Regno d’Italia.
Con il 7° Statuto Costituzionale 21 settembre 1808 sopra i titoli di nobiltà e sui maggioraschi, di Napoleone I, Imperatore dei Francesi e Re d’Italia, venne stabilito che quegli elettori che fossero stati per tre volte presidenti dei collegi elettorali generali avrebbero portato il titolo di duca, e l’avrebbero potuto trasmettere a quello dei loro figli, in favore del quale avessero istituito un maggiorasco di un reddito annuo di L. 200.000.
I grandi ufficiali della Corona avrebbero portato il titolo di conte, e i loro figli primogeniti avrebbero avuto il titolo di conte, se il loro padre avesse istituito a loro favore un maggiorasco della rendita di L. 30.000. Detto maggiorasco e titolo sarebbero stati trasmissibili alla loro discendenza diretta e legittima, naturale o adottiva, di maschio in maschio, e per ordine di primogenitura.
I grandi ufficiali del regno avrebbero potuto istituire per il loro figlio primogenito o cadetto dei maggioraschi, ai quali sarebbero stati attaccati i titoli di conte o barone, secondo le condizioni appresso indicate.
I ministri, i senatori, i consiglieri di stato incaricati di qualche parte della pubblica amministrazione e gli arcivescovi, avrebbero portato, durante la loro vita, il titolo di conte. Questo titolo sarebbe stato trasmissibile alla discendenza diretta, legittima, naturale o adottiva, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura, di quello che ne era rivestito, e per gli arcivescovi a quello dei loro nipoti che avrebbero scelto, previa richiesta delle lettere patenti. Il titolare avrebbe dovuto giustificare una rendita netta di L. 30.000 che dovevano entrare nella formazione del maggiorasco. I grandi ufficiali del regno avrebbero potuto istituire a favore del loro figlio primogenito o cadetto, e quanto agli arcivescovi a favore del loro nipote primogenito o cadetto, un maggiorasco, al quale sarebbe stato attaccato il titolo di barone. Occorreva però una rendita annua di L. 15.000 per la istituzione del maggiorasco.
I presidenti dei collegi elettorali di dipartimento, che avrebbero presieduto il collegio per tre sezioni, il primo presidente, il procuratore generale della corte di cassazione, i primi presidenti e procuratori generali delle corti di appello, i vescovi, i podestà delle città di Milano, Venezia, Bologna, Verona, Brescia, Modena, Reggio, Mantova, Ferrara, Padova, Udine, Ancona, Macerata, Ravenna, Rimini, Cesena, Cremona, Novara, Vicenza, Bergamo, Faenza, Forlì, avrebbero portato, durante la loro vita, il titolo di barone. I primi presidenti, procuratori generali e podestà avrebbero dovuto avere 10 anni di esercizio ed adempiuto le funzioni con sovrana soddisfazione. I membri dei collegi elettorali avrebbero potuto prendere il titolo di barone sopra loro domanda al Sovrano, e trasmetterlo a quello dei loro figli in favore del quale avessero istituito un maggiorasco di L. 15.000 di annuo reddito.
I dignitari, i commendatori, i cavalieri dell’ordine della Corona di ferro avrebbero potuto trasmettere il titolo di cavaliere alla loro discendenza diretta legittima, naturale o adottiva, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura, giustificando una rendita netta di lire tremila.
Il Sovrano si riservava d’accordare i titoli che avrebbe giudicato convenienti ai generali, prefetti, ufficiali civili e militari, e ad altri sudditi che si fossero distinti per servigi resi allo Stato.
Coloro, che avessero avuto conferiti titoli, non avrebbero potuto portare altri stemmi, né avere altre livree, se non quelle enunciate nelle lettere patenti di istituzione.
Il titolo conferito a ciascun maggiorasco era affetto esclusivamente a quello, in favore del quale era fatta la creazione, e sarebbe passato alla discendenza legittima, naturale od adottiva, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura.
Nessuno, investito di un titolo, avrebbe potuto adottare un figlio maschio o trasmettere il titolo, accordatogli o pervenutogli, ad un figlio adottivo prima che egli fosse investito del titolo, se ciò non fosse stato autorizzato nelle lettere patenti rilasciate a questo effetto.
Quelli, ai quali sarebbero stati conferiti di pieno diritto i titoli di duca, conte, barone, cavaliere, e coloro che avrebbero ottenuto in loro favore la creazione di un maggiorasco, o sarebbero chiamati a riceverlo, avrebbero dovuto prestare giuramento con apposita formula. Disposizioni speciali regolavano il maggiorascato e il rilascio delle lettere patenti, che erano trascritte in apposito registro, ed erano pubblicate e registrate alla corte di appello ed al tribunale di prima istanza del domicilio dell’impetrante e del luogo ove erano situati i beni del maggiorasco.
Nel 1814, in seguito alla caduta di Napoleone, il Regno Italico si sciolse, e la Lombardia ritornò col Veneto sotto l’Austria. Con Decreto del 14 dicembre 1814, il governatore generale della Lombardia emanò le norme per il riconoscimento della nobiltà.
In base ad esse erano conservate l’antica nobiltà concessa o riconosciuta dal governo austriaco in Lombardia, e così pure la nuova istituita dal cessato governo italiano. La nobiltà nuova era ritenuta nei termini più rigorosi della sua concessione, ed in caso di adozione avrebbe dovuto essere richiesta la speciale sovrana approvazione. Nondimeno, nei casi di meriti particolari verso il Sovrano o verso lo stato per parte dei membri della nobiltà nuova, il Sovrano sarebbe stato propenso ad accordare, in via di grazia speciale, la successione in linea legittima mascolina e femminina. Per la validità così dell’antica che della nuova nobiltà era necessario nei singoli casi l’intervento della approvazione sovrana. Gli individui dell’antica nobiltà, che dal governo italico non erano stati rivestiti della nobiltà nuova, potevano far valere i loro precedenti diritti di nobiltà; quelli che si trovavano nel caso opposto, potevano, in via di massima, soltanto chiedere la conferma della loro nobiltà nuova, restando ad essi nondimeno concesso di implorare la grazia sovrana speciale di far rivivere l’antica loro nobiltà. I maggioraschi della nuova nobiltà già esistenti avrebbero temporaneamente conservato la forma che ad essi era stata attribuita dal Regno Italico, salvo le disposizioni della nuova legislazione civile e giudiziaria da emanarsi. Le prerogative e i privilegi e i diritti sì dell’antica che della nuova nobiltà sarebbero stati quelli generalmente accordati ai nobili negli stati tedeschi.
Veniva istituita in Milano una Commissione Araldica alla quale dovevano rivolgersi coloro che ritenevano di aver diritto alla nobiltà.
Con determinazione 15 agosto 1815 della Reggenza di governo della Lombardia venne chiarito che gli individui che riunivano in loro gli estremi delle due distinte nobiltà, antica e nuova, non potevano essere ammessi, in via di massima, a partecipare alla facoltà generalmente accordata di far valere i precedenti diritti di antica nobiltà; nondimeno non era preclusa la possibilità di conseguire la grazia sovrana speciale di far rivivere anche l’antica loro nobiltà, dato che non era incompatibile la riunione nello stesso individuo delle prerogative, dei titoli della nobiltà antica e nuova.
In conseguenza dell’estensione al Lombardo-Veneto del codice civile austriaco, che consentiva ai genitori adottivi di chiedere il consenso sovrano per la trasmissione della loro nobiltà ed armi gentilizie alla prole adottata, con circolare 2 gennaio 1826 della cancelleria aulica venne fatto noto che tale consenso sarebbe stato concesso solo nel caso che i genitori adottivi, e secondo i casi, anche i figli adottivi, fossero in stato di vantare quei meriti personali che si richiedevano per ottenere la nobiltà austriaca.
Lo stesso codice civile austriaco prescriveva (art. 620) che nei fedecommessi, in dubbio, si presumeva piuttosto la primogenitura che il maggiorasco o seniorato; e fra questi, piuttosto il maggiorasco che il seniorato. Nella primogenitura la linea più giovane non perveniva al fedecommesso se non estinta la linea più vecchia, cosicché il fratello dell’ultimo possessore era posposto ai figli, nipoti, pronipoti ed ulteriori discendenti del possessore medesimo (art. 621). La discendenza femminina non poteva di regola succedere nei fedecommessi. Se poi il fondatore aveva disposto espressamente che, estinta la stirpe mascolina, dovesse il fede commesso passare nelle linee femminine, ciò avrebbe dovuto seguirsi secondo l’ordine di successione del sesso mascolino; ma gli eredi maschi della linea pervenuta al possedimento del fedecommesso erano preferiti agli eredi di sesso femminino (art. 626).
Nel 1828 furono sciolte le commissioni araldiche di Milano e di Venezia, passando le attribuzioni agli uffici di governo.

Veneto
Nel Veneto la nobiltà ebbe due diverse origini, quella derivante dalle alte cariche Pubbliche (patriziato), e quella proveniente dall’ordinamento feudale del territorio che formò lo stato di terraferma, dopo il suo acquisto avvenuto nel 142024 . Le lagune venete nel secolo V formavano una provincia dell’impero bizantino retta localmente da alcuni tribuni marittimi, eletti fra l’aristocrazia locale e obbedienti all’esarca di Ravenna. Nel VII secolo ai vari tribuni fu sostituito con un accentramento politico un Dux (doge), dapprima di nomina imperiale bizantina divenuto nel 726 elettivo, che così rimase fino alla caduta della repubblica veneziana (1799), nonostante i tentativi fatti da alcune famiglie eminenti di rendere ereditaria nella loro discendenza la carica dogale. La repubblica veneta non subì l’ordinamento feudale, e di conseguenza non passò nelle fasi successive del comune e della signoria. Il maggior consiglio, istituito nel 1172 constava di ricchi commercianti nobili eletti, accentrava ogni potere della repubblica, eleggeva ad ogni carica e si rinnovava per forza propria nominando a tale scopo degli elettori. Nel 1276 stabilì quali rettori al loro ritorno appartenevano temporaneamente di diritto ad esso, e nel 1277 deliberò la esclusione dal medesimo degli illegittimi. Per mantenersi la purezza della nobiltà, successivamente nel 1376 venne tolto il diritto di appartenere al gran consiglio ai nati da genitori nobili, ma prima del matrimonio, nel 1422 venne stabilita la esclusione da esso ai nati da schiava, serva o donna di vile condizione, ed imposto l’obbligo di dar notizia del matrimonio contratto all’avogaria, e nel 1533 fu proibita la approvazione e discussione della nobiltà dei figli nati da matrimonio di un patrizio con una fantesca, villana, o donna abbietta.
Nel 1297 venne decretata la serrata del maggior consiglio, prorogata nel 1299, stabilendosi che venissero ammessi al ballottaggio per farne parte quelli che vi avessero appartenuto per 4 anni, e decretandosi norme per l’ammissione di quelli che non vi avevano mai appartenuto. Con questa serrata la nobiltà dei ricchi commercianti si trasformò in vera aristocrazia e chiuse il proprio ordine.
Nel 1308 il maggior consiglio dichiarò che l’esercizio di una carica, alla quale era inerente l’appartenenza al maggior consiglio, non conferisse, in via assoluta il diritto di esservi eletto. Nel 1379 il Senato stabilì alcune norme per la aggregazione di nuovi membri al maggior consiglio. Dal decreto 22 agosto 1410 si rileva che vi erano diverse specie e gradi di nobili e cittadini veneziani. I nobili erano ricevuti nel maggior consiglio, secondo i meriti, per grazia, per onore, per cittadinanza veneziana. I cittadini erano ricevuti per abitazione o per deliberazione25 . Non potevano essere accolti come ambasciatori di altri principi o comunità che i soli nobili e i cittadini per privilegio, che avevano domicilio ed abitavano fuori di Venezia. Nel 1414 furono stabilite le norme per l’ammissione dei giovani patrizi ad estrarre la balla d’oro per entrare nel maggior consigliò, e nel 1421 furono emanate le norme per la formazione del collegio delle prove degli aspiranti ad entrare nel consiglio stesso. Nell’agosto 1506 e aprile 1526 il consiglio dei dieci impose l’obbligo di dar notizia all’avogaria delle nascite e dei matrimoni dei patrizi. Questi registri, che tuttora si conservano nell’Archivio Veneto e giungono fino al 1801, costituiscono il cosidetto libro d’oro (v. n. 106). Durante il secolo XVI si susseguono svariate norme sulle prove di nobiltà, sui matrimoni, e accanto al patriziato veneziano venne a porsi la nobiltà feudale per effetto della conquista da parte della repubblica del territorio che formò lo stato di terraferma. Detto territorio, come ha dimostrato il conte Baldino Compostella26 risultava costituito dal comitato vescovile imperiale che era convissuto giuridicamente coi comuni e colle signorie, e dalla cospicua eredità del patriarcato di Aquileia, stato dell’impero, ambidue organizzati feudalmente. Il comitato, che era stato attribuito ai vescovi verso il mille, era stato dapprima investito feudalmente a persone singole, poi in forma ereditaria a famiglie determinate. Il godimento del feudo era regolato dalle investiture del conte vescovo, e i signori delle città dovevano sottostare alle investiture per i feudi familiari di origine vescovile. I vicecomites esercitavano il loro potere feudale con la attribuzione pubblica e pacifica di conti. La repubblica veneta che soppiantò le signorie, non credette per varie ragioni di sopprimere il comitato come organizzazione feudale, per cui questo fu rispettato e regolato con leggi che cercavano di coordinare i diritti del comes con quelli della repubblica. Solo le ducali 7 ottobre 1634 e 23 novembre 1775 prescrissero che le investiture vescovili fatte alle famiglie fossero integrate con la formula: «Salva fidelitate Reipublicae Serenissimae». Subito dopo la regolazione di questi feudi, dei quali in seguito alcuni furono ceduti dai vescovi al fisco, le famiglie più importanti cercarono di ottenere il titolo di conte, che il senato veneziano accordò con formula che voleva ignorare lo stato di fatto, ma che per la qualità del feudo comprendeva l’estensione del titolo a tutti i membri della casa feudale. La successione in questi feudi era di forma mista, per cui i maschi erano preferiti alle femmine in parità di grado.
Coll’occupazione del patriarcato di Aquileia, la repubblica acquistò un patrimonio feudale cospicuo, che fu in seguito aumentato dalle nuove infeudazioni, per cui il senato con decreto 25 luglio 1587 istituì il magistrato dei provveditori sopra feudi, che dovevano curare le investiture, regolare le riforme di titoli esteri, dare nobiltà ai feudatari di feudi giurisdizionali, decidere le controversie in materia di feudi, col parere dei consultori in iure. Dopo l’istituzione di questo magistrato fu regolata anche la questione del titolo di conte dei feudi vescovili, e, mentre durante il 1500 tali titoli venivano ammessi per tutti i maschi e femmine della famiglia, il magistrato ammise i titoli per i soli maschi. Il magistrato, per ragione evidentemente politica, curò sempre che il titolo concesso alle famiglie in possesso di feudi vescovili, andasse disgiunto dal feudo. I feudi friulani aventi marca di contea, che derivavano la loro origine dalla organizzazione carolingia e patriarcale del Friuli, furono riconfermati in genere nelle famiglie primitive a titolo di signoria, e il titolo di conte fu riconosciuto alle famiglie nell’esercizio delle funzioni feudali, pur andando disgiunto dal predicato feudale. La ricognizione di questi titoli spettava al magistrato ai feudi con atto di investitura. Il senato concedeva altresì titoli per speciali benemerenze con o senza terre annesse, e in alcuni casi concesse titoli annessi a terre con giurisdizione, trasmissibili ai maschi e alle femmine, e con eventuale successione femminile, privi di vincolo feudale. Tali donazioni con le leggi 11 marzo 1623 e 7 ottobre 1661 furono gravate da vincolo feudale. In conseguenza delle gravi condizioni in cui versava il pubblico erario, il senato stabilì di erigere in contea o marchesato alcuni feudi ricaduti al fisco, e di metterli all’incanto (decreto del senato 31 ottobre 1645, 10 settembre 1647) e nel 1685, 1686, 1716 il maggior consiglio conferì il patriziato dietro offerta di denaro.
Essendo invalso l’abuso di arrogarsi titoli di marchese, conte e cavaliere e di altre simili qualità, in conformità dei proclami del 1674 e 1686, il senato veneziano con decreto 20 gennaio 1729 approvò un proclama dei provveditori sopra i feudi circa l’uso dei titoli.
In base ad esso era proibito a qualsiasi persona di usare qualsiasi titolo onorifico, senza precedente notizia al magistrato sopra i feudi e susseguente descrizione nel libro dei titolati, istituito dal senato con decreto 4 febbraio 1661. Negli atti, contratti, testamenti, sentenze pubbliche e private scritture, non si sarebbe potuto fare il nome di una persona con alcuno dei detti titoli che non fosse contenuta al ruolo allegato al proclama, o che la persona non fosse discendente da legittimo matrimonio di alcuna di quelle registrate nel ruolo, ma compresa nella concessione del titolo. Uguale divieto era fatto per gli atti compiuti da curati, parroci, arcipreti, e da pubblici consigli, collegi e da altre pubbliche radunanze di città, territorio, monti, ospedali, congregazioni, accademie o di altro luogo pio o secolare.
Coloro che avessero ritenuto di aver diritto a portare detti titoli ma che non si trovassero iscritti nel libro del magistrato sopra i feudi erano obbligati a notificare e presentare gli atti legali su cui fondavano la loro pretesa.
Altri proclami dei provveditori sopra i feudi contro l’abuso dei titoli furono emanati il 31 luglio 1780 e 28 settembre 1795.
Il senato con deliberazione 11 marzo 1747 autorizzò i provveditori sopra i feudi a conferire il titolo di nobile ai feudatari, le cui investiture lo portassero ed agli investiti di feudi giurisdizionali.
Il consiglio dei dieci, con decisione 27 febbraio 1760 stabilì che i titoli non avessero alcun valore, se non fossero riconosciuti e registrati dai provveditori sopra i feudi.
Nel 1780 fu approvato dal senato il codice feudale della serenissima repubblica, ordinato da Angelo Memmo.
Il senato veneto concesse in qualche caso il cavalierato ereditario, ma più che di vera nuova concessione, in moltissimi casi, si trattò di conversione di cavalierati ereditari concessi da altri principi, e confermò il titolo di conte palatino, sia imperiale che palatino, senza distinguerne la differenza, tanto che in alcuni casi convertì nell’atto di conferma il palatinato in comitato, senza specificazione che si fosse trattato di provvedimento di grazia.
Nel 1797 cessò la repubblica veneta, e il Veneto fu assegnato all’Austria, dalla quale passò nel 1805, con Napoleone, al Regno d’Italia, la cui legislazione nobiliare della Lombardia fu applicata al Veneto.
Caduto Napoleone, il Veneto tornò il 7 aprile 1815 all’Austria.
Con notificazione 28-12-1815 di Francesco I, circa la conservazione della antica nobiltà veneta e la conferma di quella napoleonica, venne stabilito che per la nobiltà nuova creata dal governo italico si sarebbero osservate tutte le misure adottate per la Lombardia, e quindi se la nobiltà era personale non poteva divenire ereditaria; se la patente di istituzione ne limitava la successione in ordine di primogenitura, avrebbe continuato la medesima in quest’ordine stesso, e nei casi di adozione avrebbe potuto esser prorogata soltanto dietro speciale approvazione sovrana. Per lo stesso principio i maggioraschi della nuova nobiltà non avrebbero potuto sussistere che in quei soli casi nei quali il regime italiano li avesse già conferiti con apposite patenti agli individui nobilitati.
Tuttavia, nei casi di meriti particolari, per parte dei membri della nuova nobiltà verso il sovrano e lo stato, avrebbe potuto essere accordata, in via di grazia speciale, la successione nella discendenza mascolina e femminina.
Per la validità della nobiltà riconosciuta dalla repubblica veneta, quanto di quella del governo italico avrebbe dovuto esser chiesta in tutti i singoli casi la conferma sovrana. Riguardo alla nobiltà, che sotto il governo della repubblica di Venezia esisteva negli atti di sua attinenza, non si sarebbe fatta alcuna differenza fra nobiltà patria e quella delle città di terraferma, e a coloro che erano iscritti nel libro d’oro, bastava, ai fini della prova della nobiltà, il documento della iscrizione, anche per i discendenti, purché fossero state adempiute le condizioni fissate per conservare la parità del sangue.
Con sovrana determinazione 26 novembre 1824 sulla conferma delle nobiltà di origine veneta o straniera, notificata il 25 giugno 1825, venne stabilito, a complemento della notificazione 28 dicembre 1815, che la nobiltà, ovvero i titoli conferiti dalla cessata repubblica veneta secondo le prescrizioni e leggi allora vigenti e quindi regolarmente acquistati, fossero qualificati per la conferma nella stessa guisa come furono conferiti ed acquistati, sempre che tale conferma venisse ricercata entro un anno nelle vie regolari, e il possesso della nobiltà e dei titoli venisse pienamente comprovato. Lo stesso sarebbe avvenuto, ai fini della qualifica per la conferma, della nobiltà o dei titoli conferiti da potenze e sovrani esteri, od acquistati col consenso del legittimo governo delle province già venete, ovvero dal medesimo riconosciuti. Nel 1828 fu sciolta la commissione araldica, e furono dichiarati chiusi il libro d’oro delle nascite e dei matrimoni con le ultime iscrizioni del 1801. Con circolare 23 luglio 1834, in considerazione che, dopo la conferma della antica nobiltà accordata a tutte le famiglie già ascritte al patriziato veneto come pure a quelle che facevano parte dei preesistiti consigli comunali di terraferma, gli individui componenti le stesse famiglie godevano dei diritti e dei titoli della nobiltà austriaca, fu confermato il divieto fatto fin dal 1818 e 1827, di non far uso del titolo di N. H. (nobiluomo), oppure quello di patrizio, non competendo ai rispettivi individui altra denominazione fuorché quella di nobile, qualora non fossero fregiati di gradi più elevati di nobiltà.
Nel 1837 fu dichiarata perduta la nobiltà da coloro che emigravano illegalmente, e da coloro che erano condannati per crimini (v. n. 40, 65, 67).
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24 – Il più recente studio di diritto pubblico veneziano è l’opera di G. MARANINI, La Costituzione di Venezia, Venezia, 2 volumi.

25 – La Consulta Araldica con la massima 42 stabilì che le famiglie ascritte alla cittadinanza originaria di Venezia godevano una posizione distinta ma non nobile.

26 – I titoli dello Stato Veneto in « Corriere Gentilizio», 16 novembre 1924 e 25 gennaio 1925.

Parma
Durante la dominazione Farnesiana (1545-1731) e Borbonica (1749-1802) non si ebbe nel ducato di Parma una speciale legislazione nobiliare, essendo la materia regolata dal diritto comune. Maria Luigia con decreto 29 novembre 1823 istituì una apposita commissione araldica per esaminare e riconoscere i titoli e i possessi di nobiltà di ciascuna famiglia dal 1802 ed anni anteriori, per proporre la conferma di nobiltà a quelle famiglie che ne avessero fatta domanda. Il nobile confermato era munito di diploma, che veniva trascritto in un apposito registro presso l’archivio di stato di Parma. Erano dichiarati confermati nella loro nobiltà i nobili creati o riconosciuti dai precedenti sovrani e che furono presentati ed ammessi alla corte. Essi dovevano curare che fosse trascritto nel registro dei diplomi l’atto che comprovasse la loro presentazione ed ammissione a corte, e che avrebbe tenuto luogo del diploma regolare di conferma.
Era istituito anche un libro e matricola dei nobili in cui erano registrati secondo l’ordine alfabetico dei nomi di famiglia, i nomi dei nobili, delle loro mogli e dei loro figli di ambo i sessi, le date di matrimonio e di nascita dei figli, il titolo di nobiltà e l’atto di nobiltà e di conferma.
Erano anche stabilite le prerogative dei nobili, consistenti, fra l’altro, nell’ammissione a corte nell’essere intitolato nobile, nell’istituire e ordinare primogeniture nella propria famiglia, senza bisogno di speciale atto sovrano.
I nobili non potevano fare uso di stemmi, né avere livree diversi da quelli specificati nei loro diplomi.

Modena
Il duca Ercole III nel 1788 impose alle famiglie nobili stabilite permanentemente a Modena di farsi iscrivere nel libro d’oro. Nel 1796 il ducato di Modena fu aggregato alla repubblica cispadana e nel 1797 alla cisalpina. Col 1805 seguì con Napoleone le sorti del regno italico. Caduto Napoleone e ritornato il ducato agli Estensi, Francesco IV nel 1814 richiamò in vigore il codice estense, dichiarò di permettere la istituzione di nuovi fedecommessi e primogeniture, senza però far rivivere quelli istituiti in addietro e aboliti dalle passate leggi, confermò la abolizione dei feudi, ma consentì agli investiti e ai chiamati dalle rispettive investiture, oltre di continuare a godere dei beni loro rilasciati, di assumere i titoli e di godere le distinzioni, gli onori e le prerogative annessi ai feudi, e segnatamente di quelle portate dal codice a favore dei chiamati e compresi nell’investitura dei feudi con giurisdizione, quanto alla progressività dei fedecommessi e primogeniture da istituirsi per l’avvenire. Nel 1815 approvò la riapertura del libro d’oro di Modena e nel 1816 stabilì le regole per la iscrizione nel libro stesso e la sua conservazione. Ogni famiglia nobile, sia originaria che straniera, di nobiltà magnatizia o equestre o generosa o legale avrebbe potuto essere iscritta, purché stabilita permanentemente e domiciliata in Modena. Occorreva far domanda per l’iscrizione, e i postulanti dovevano giustificare la loro civile condizione almeno fino al terzo tavolo paterno, al secondo materno inclusivamente; per cui avendo detti loro antenati vissuto more nobilium, venisse costituita nella famiglia una nobiltà legale, oppure dovevano per particolari prerogative indotta in più breve spazio di tempo simile nobiltà. Bisognava poi giustificare la sufficienza del patrimonio per mantenersi in modo conforme alla decenza del rango. Coloro, che per decreto sovrano erano insigniti di qualificazioni e di titoli di nobiltà, avevano senz’altra formalità il diritto di essere iscritti nel libro d’oro. La cancellazione dal libro aveva luogo nel caso di delitto che portasse pena infamante, e qualora per legge o disposizione sovrana venisse inflitta come pena la cancellazione stessa. Essa aveva luogo per il delinquente e per i figli nati dopo pronunciata la sentenza. In caso di remissione di pena occorreva la grazia sovrana per la nuova iscrizione. Circa le arti e professioni che toglievano o sospendevano le prerogative della nobiltà, si sarebbero osservate le massime e consuetudini preesistenti. La riapertura e conservazione dei libri di nobiltà fu consentita nel 1816 a Mirandola, Carpi e Finale, nel 1818 a Reggio, nel 1819 a Correggio. Disposizioni sugli stemmi furono emanate nel 1816 e 1819. Nel 1848 il governo provvisorio dispose la reintegrazione nel libro d’oro modenese dei nomi dei cancellati per delitti politici.
La Consulta Araldica con la massima 48 stabili che nella regione modenese non vi erano che le seguenti nobiltà civiche, con grado di patriziato nelle città di Modena e Reggio e con titolo di nobiltà nelle città di Mirandola, Carpi, Finale, Correggio.

Lucca
Per la legislazione martiniana del 1556, cosidetta dal suo autore Martino Benvenuti, solo a certe famiglie nobili poteva essere affidato il governo della repubblica aristocratica, la quale nel 1628 istituì un libro d’oro. Questa repubblica ebbe vita fino al 1798. È un susseguirsi, dopo, di governi di breve durata: la repubblica lucchese dal 1801 al 1805, il principato dei Baciocchi fino al 1813, vari governi provvisori, infine la sua assegnazione come ducato a Maria Luisa di Borbone di Spagna prima, dal 1817 fino al 1824, e a Carlo Ludovico (Luigi) che le succedette, la sua cessione infine a Leopoldo II di Toscana nel 1847.
Carlo Ludovico il 27 aprile 1826 emanò il regolamento sulla nobiltà e il 19 agosto dello stesso anno quello sul patriziato. Per il primo la nobiltà si divideva in ereditaria, e personale che terminava colla vita. Era riconosciuta la nobiltà ereditaria in tutti gli individui di quelle famiglie che ne godevano al termine del 1798, e la personale a quelli che godevano di quella personale alla stessa data. Se qualche famiglia nobile o qualche persona di questo ceto avesse fatto constare di godere dei titoli di barone, conte, marchese o altri titoli, per concessioni autentiche di principi esteri, veniva fatta menzione del titolo nel diploma di nobiltà, dichiarandosi anche se il titolo fosse ereditario o personale. Erano nobili personali coloro i quali, non appartenendo al corpo della nobiltà, ricoprivano le cariche di consigliere di stato, di gonfaloniere di Lucca, di segretario intimo. Gli onori della nobiltà erano concessi a giudizio del duca anche a quei sudditi non nobili, che fossero insigniti, da potenze estere, di decorazioni o di titoli, pei quali fosse stato concesso il riconoscimento. Vennero istituiti un libro d’oro nel quale dovevano segnarsi gli antichi e nuovi nobili e i nuovi titolati, e due altri registri per segnarvi in uno i decaduti dalla nobiltà, e nell’altro i nomi dei sudditi non nobili che avevano diritto agli onori concessi alla nobiltà. Perdevano la nobiltà quelli che occupavano impieghi non compatibili col loro grado, o esercitavano qualsiasi mestiere o tenevano bottega personalmente, i disonorati per delitti. La decadenza non si estendeva agli individui della famiglia. Il nobile che contraeva matrimonio con una non nobile conservava la nobiltà, e la trasmetteva ai figli, se ereditaria, ma non la comunicava alla moglie; se una donna nobile si maritava con uno non nobile, essa conservava la nobiltà personalmente, purché il marito non si trovasse in uno dei casi pei quali si perdeva la nobiltà. Era consentita la riammissione nella nobiltà, nel caso che si trattasse di condanna per delitto, ove il delinquente si fosse reso benemerito per servigi resi allo stato o al Sovrano; nel caso di decadenza per mestieri o impieghi incompatibili, dopo 10 anni almeno di cessazione dall’esercizio incompatibile. La donna, che decadeva dalla nobiltà a cagione del marito, poteva riacquistarla se il marito si uniformava alle disposizioni stabilite pei nobili. Col regolamento sul patriziato veniva, a chiarimento ed integrazione, stabilito che le famiglie nobili, che avevano goduto almeno per 4 generazioni continue fino al 1798 dell’anzianato e quelle che potevano provare per lo spazio di 200 anni la continuazione della loro nobiltà, erano ascritte alla 1a classe della nobiltà sotto il nome di famiglie patrizie, le famiglie nobili ereditarie formavano la 2a classe, e quelle personali la terza. Nel caso di decadenza dal patriziato, si poteva riacquistare soltanto la nobiltà ereditaria.

Toscana
A Firenze, dopo che nel periodo repubblicano furono aboliti i feudi, le servitù personali e gli oneri feudali, i Medici cercarono di favorire il ristabilirsi del feudalesimo, e crearono una aristrocrazia feudale, la quale durò fino al granduca Francesco II di Lorena, che nel 1749 ridusse il potere politico dei feudatari. Lo stesso granduca con la legge sopra i fedecommessi e le primogeniture ne consentì la istituzione in avvenire, e con la legge 31 luglio 1750 stabilì il regolamento sulla nobiltà e cittadinanza. Per essa erano riconosciuti nobili tutti quelli che possedevano, o avevano posseduto, feudi nobili e tutti quelli che erano ammessi agli ordini nobili, o avevano ottenuto la nobiltà per diplomi del granduca o suoi antecessori e, finalmente, la maggior parte di quelli che avevano goduto o erano abili a godere il primo e più distinto onore delle città nobili loro patrie. Erano riconosciuti cittadini quelli che avevano o erano atti ad avere tutti gli onori delle città, fuori che il primo. Nelle sette antiche città nobili di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra e Cortona la nobiltà era distinta in due classi, la prima col nome di nobili patrizi, la seconda con quella sola di nobili. Nelle altre città nobili meno antiche di S. Sepolcro, Montepulciano, Colle S. Miniato, Prato, Livorno e Pescia, la nobiltà era composta in una unica classe, riservandosi il granduca e i suoi successori di consentire la concessione del patriziato.
Le rimanenti città del granducato non comprese fra quelle anzidette non avevano il rango di nobile.
Nelle antiche sette città nobili le famiglie nobili dovevano registrarsi per tali pubblicamente in un nuovo libro a parte, e le rimanenti ammesse a tutte le borse, (cioè a tutte le elezioni degli uffici) fuori che alle prime, restavano scritte come avanti per cittadini a libri pubblici. Tra le famiglie nobili delle rispettive antiche città dovevano essere iscritte nella classe dei patrizi tutte le famiglie nobili che erano state ricevute per giustizia nell’ordine di S. Stefano (v. n. 115 nota) e tutte le altre famiglie nobili che in virtù di qualunque altro requisito sovranunciato per esser riconosciute nobili avrebbero potuto provare la continuazione della propria nobiltà per lo spazio almeno di 200 anni compiuti. Nelle nominate antiche città dovevano registrarsi nella classe dei nobili tutte le famiglie discendenti da soggetti ricevuti nell’ordine di S. Stefano, e tutte le altre famiglie nobili che non avrebbero potuto provare la continuazione della propria nobiltà per 200 anni compiuti.
Nelle altre sette città meno antiche dovevano essere iscritte nella classe dei nobili indistintamente tutte le famiglie nobili messe nell’ordine di S. Stefano, e tutte le rimanenti famiglie, per qualsivoglia giusto titolo come sopra indicato capaci di provare la loro nobiltà. Tutti i nativi delle altre terre o luoghi del granducato che fossero stati già o sarebbero stati in avvenire ricevuti nell’ordine di S. Stefano, o fossero stati o sarebbero stati per diplomi granducali creati nobili, avrebbero dovuto essere iscritti nella classe della nobiltà della città più vicina al luogo di loro origine o di abitazione.
La iscrizione nelle rispettive classi dei patrizi e dei nobili era subordinata alla condizione che a quella epoca mantenessero, col dovuto splendore, la nobiltà trasmessa loro dai propri antenati, rimanendone esclusi quelli che avessero derogato alla medesima per l’esercizio di arti vili, o per qualsivoglia altra causa che avesse importato la perdita della nobiltà, cause tassativamente indicate.
Le famiglie e persone ammesse da 50 anni ai primi onori delle città non potevano essere riconosciute per nobili; e perciò non potevano essere registrate nella classe della nobiltà se non quelle, che acquistatovi il domicilio e imparentatesi nobilmente, possedessero nel comune delle medesime città o altrove tanti effetti e beni da potere, colle rendite di essi, vivere decorosamente e stabilire in tal forma la nobiltà nuovamente acquistata, oppure che ne avessero, o avrebbero ottenuto speciale grazia sovrana.
Una apposita deputazione veniva nominata per fare la pubblica descrizione delle due classi dei patrizi e dei nobili, in base ai dovuti esami delle domande da presentarsi dai capi delle famiglie nobili. Terminata la compilazione dei registri originari del patriziato e della nobiltà, gli originali sarebbero stati conservati nell’archivio di palazzo di Firenze, e le copie inviate in ciascuna rispettiva città per essere conservate nei loro archivi.
In occasione della nascita di figli legittimi naturali in famiglie patrizie o nobili, il capo di casa avrebbe dovuto farli prontamente iscrivere in dette copie, o nei registri originali.
Solo coloro che erano iscritti nei registri del patriziato o della nobiltà sarebbero stati riconosciuti per nobili del granducato, ed essi, oltre alle altre prerogative e privilegi soliti, avrebbero avuto il diritto di istituire primogeniture e fedecommessi. I patrizi, in confronto dei nobili, avrebbero avuto soltanto la precedenza su di essi in tutte le pubbliche adunanze e funzioni.
Il passaggio delle famiglie delle antiche città dalla classe della nobiltà a quella del patriziato per compiuto periodo di 200 anni della sua nobiltà, si sarebbe effettuato mediante la concessione di apposito sovrano diploma e la iscrizione nel registro. I nobili di stati stranieri, che avessero voluto acquistare domicilio nel granducato, avrebbero potuto, su richiesta, ottenere la iscrizione al patriziato o alla nobiltà. I sudditi del granducato, fatti nobili per concessioni di feudi, titoli o diplomi di sovrani stranieri, non sarebbero stati riconosciuti o trattati come nobili, e non avrebbero potuto essere iscritti nella classe dei nobili senza espresso ordine sovrano e nuovo diploma di conferma.
Apposite disposizioni stabilivano la perdita del patriziato e della nobiltà per delitto e per l’esercizio di arti meccaniche.
Non importava perdita della nobiltà o del patriziato il tenere case di negozio o banchi di cambio per somma ragguardevole, il gestire col proprio denaro e ministri traffici all’ingrosso, nell’arte della seta e della lana, l’esercizio della professione di medico, di avvocato, di giudice, di notaio, purché si fosse adottorati nelle università del granducato, l’esercizio della pittura, della scultura, dell’architettura, sia civile che militare. Qualunque donna patrizia o nobile si fosse maritata con un uomo ignobile, non era scancellata dalla sua classe, benché costante il matrimonio si fosse dovuta stimare della condizione del marito, e parimenti qualunque patrizio o nobile avesse preso per moglie una donna di condizione inferiore, restava nella sua classe e godeva di tutte le prerogative e distinzioni e onori del suo rango, anche durante il matrimonio, e così i suoi figli e discendenti.
Nella città di Firenze chiunque, dopo la pubblicazione della legge avesse voluto essere ammesso alla cittadinanza, o come si diceva essere ascritto a gravezze alla regola dei cittadini fiorentini, avrebbe dovuto addecimare tanti dei propri beni stabili che ascendessero alla somma di 10 fiorini all’anno. Quei cittadini che fossero già iscritti avrebbero potuto continuare a godere della cittadinanza, purché essi, o tutta una famiglia sola, benché divisa in più rami, avessero o ponessero a decima tanti effetti e beni, in modo che venissero a pagare, tutti insieme, sopra di essi la somma di almeno 6 fiorini l’anno di decima. Nelle altre città i cittadini da ammettersi in avvenire avrebbero dovuto pagare almeno la somma di L. 50 e quelli già ammessi per rimanervi almeno L. 25 all’anno di decima, estimo, ecc., o altro peso reale sopra i beni posti nel comune delle medesime città.
Veniva poi disposta la cancellazione dai registri dei cittadini di quelle famiglie o persone che non possedessero beni o li possedessero in piccola quantità. I cittadini che, dopo la cancellazione, fossero rimasti scritti e impostati nei libri pubblici delle decime o altri libri delle comunità, o che vi si fossero iscritti per l’avvenire, avrebbero seguitato ad avere le magistrature e uffici della loro patria, e tutte le altre esenzioni e privilegi soliti ad aversi, e avrebbero potuto seguitare ad usare le solite armi della loro famiglia, colorate, in un semplice scudo, senza cimiero, corona, o alcun altro dei fregi appartenenti alla nobiltà, i quali, come proprio distintivo, avrebbero potuto unicamente portarsi dai soli patrizi e nobili secondo il solito e loro giuste prerogative. Tutti coloro, che avevano o avrebbero conseguito il grado di dottore nelle università del granducato, avrebbero goduto delle medesime esenzioni, privilegi ed immunità dei cittadini fiorentini, fuori che negli uffici. La cittadinanza si perdeva solamente per delitto.
Sotto la stessa data del 31 luglio 1750 venivano date istruzioni alla deputazione sopra la descrizione della nobiltà e cittadinanza. Successivamente venivano aggiunte al novero delle città nobili: Pontremoli (1718), Modigliana e Fiesole (1838), Pietrasanta (1841), Fivizzano (1848). Con sovrano motu proprio 3 maggio 1816 fu dichiarato doversi annoverare la città di Livorno fra le nobili, ed insignita di tale onore fino dal 1806, quando ebbero termine due secoli dalla istituzione in essa della nobiltà. La soppressione dei feudi avvenne con legge 8 aprile 1808.
La deputazione toscana sulla nobiltà e cittadinanza fu soppressa nel 1869.

Province romane
Negli Stati della Chiesa27 la primitiva nobiltà fu di carattere feudale, coi necessari temperamenti determinati dalla proprietà terriera ecclesiastica. Verso il mille si trova la concessione di terre in enfiteusi con l’obbligo di difenderle, obbligo che divenne servizio militare. Il feudo si chiamava beneficium, e i feudatari avevano il nome di baroni e cavallerotti.
Dopo il 1511 il baronaggio cominciò a decadere, e ad esso si contrappose il ceto della nobiltà e del patriziato romano sotto la diretta disciplina dei Papi. Anche Bologna aveva un ordine di nobiltà civica, e parecchi comuni erano privilegiati nella nobiltà locale e conservavano i relativi libri d’oro. Forse a ricompensa dei privilegi perduti, i feudi dei baroni romani vennero eretti in ducati o principati, ma allorquando questi furono nel secolo XVI aboliti, i principi continuarono ad appoggiare il loro titolo su una terra, per quanto nella pratica lo portassero direttamente attaccato al cognome.
Con chirografo 18 febbraio 1679 di Papa Innocenzo XI venne vietato che fossero conferiti in avvenire titoli di marchese e di conte sopra luoghi non abitati a modo di popolo, e ai portatori di tali titoli venne tolto il predicato, e fu loro lasciato l’uso del semplice titolo sul cognome. Mancava però nello stato pontificio una speciale legislazione nobiliare, né si tenevano registri particolari per le concessioni sovrane di feudi, di titoli, di stemmi; la successione ai titoli ed attributi nobiliari era regolata esclusivamente dalle concessioni, con grande varietà e larghezza di forma, con formule astratte, indeterminate e nebulose, di difficile interpretazione. Talvolta in mancanza di norme generali successorie si ricorreva a norme particolari derivanti dalle disposizioni fedecommissarie o dalle disposizioni istitutive di un maggiorasco ed alla surrogazione (vedi n. 17, 91). Infine per consuetudine si seguiva la massima paterna paternis, e cioè in mancanza di discendenti il titolo ereditato dal lato paterno si trasmetteva ai collaterali di questo, e quello ereditato dal lato materno ai collaterali materni.
Ad impedire gli abusi che si erano venuti formando da parte di coloro che appartenevano soltanto al ceto cittadino, ma facevano uso del titolo nobiliare civico, Papa Benedetto XIV con la costituzione Urbem Romam del 4 gennaio 1746 regolò la nobiltà civica di Roma, dalla quale erano espressamente esclusi i principi e duchi romani. Secondo detta costituzione, l’ammissione della nobiltà civica romana poteva aver luogo: o in via di giustizia per coloro che avessero ricoperto essi stessi o i loro ascendenti la carica di conservatori della camera capitolina o di priore delle regioni; o in via di grazia, mediante richiesta da parte di coloro che fossero stati in grado di provare la civiltà dei loro antenati in linea paterna e materna fino alla terza generazione, e fossero nel possesso di un determinato censo. All’atto della emanazione della bolla, 180 famiglie dette nobili patrizie, poterono essere iscritte alla nobiltà civica romana, fra queste famiglie furono scelti 60 capi famiglia, detti nobili coscritti, dai quali venivano tratti per sorteggio i nomi di quattro membri che costituivano il collegio per il processo di aggregazione alla classe, della semplice nobiltà. Affinché fosse mantenuto in 60 il numero dei nobili coscritti veniva stabilito che, estinguendosi una delle 60 famiglie, si effettuasse la surrogazione, ossia la sostituzione, con una famiglia tratta dalla classe della semplice nobiltà. La surrogazione veniva fatta dai nobili coscritti riuniti in collegio, e la elezione si chiamava cooptazione. Inoltre le famiglie dei Sommi Pontefici, di diritto facevano parte della nobiltà civica romana. Col successivo chirografo pontificio 12 gennaio 1746 venivano ammesse alla iscrizione o alla reintegrazione anche le famiglie che discendevano per parte di donna dai conservatori o dai priori delle regioni. La nobiltà civica era ereditaria, ed era iscritta nel libro d’oro che si chiuse il 20 settembre 1870.
Colla annessione di Bologna alla repubblica cisalpina, nel 1796 furono aboliti i titoli e le insegne nobiliari, e nel 1797 i feudi; nelle province pontificie annesse al regno d’Italia fu nel 1808 abolita la feudalità, e in quelle annesse all’impero francese fu pubblicato il decreto 24 luglio 1809 che soppresse la feudalità, abolì la nobiltà ereditaria, gli stemmi e le qualifiche e tutti i distintivi nobiliari e feudali, fatta salva alle famiglie, che ne avessero goduto, la facoltà di chiedere all’imperatore e ottenere i titoli e le prerogative e i maggioraschi istituiti dagli statuti dell’impero.
In seguito alla caduta di Napoleone, con editto del 1815 la antica nobiltà era ristabilita nelle province pontificie e la nuova era conservata. Pio VII con motu proprio 6 luglio 1816 confermò l’abolizione del feudalesimo nelle province unite allo stato pontificio in seguito al trattato di Vienna. Lo stesso Pontefice, con breve 26 settembre 1820 sul riaprimento del libro d’oro e sull’ammissione al ceto nobile nella città di Bologna, disciplinò le iscrizioni tra le famiglie nobili bolognesi, istituendo una apposita commissione araldica con funzioni consultive, e una assunteria con funzioni deliberative per l’esame delle domande di iscrizione nel libro d’oro, che non potevano però aver luogo senza l’approvazione del Pontefice o del Cardinale Legato.
Potevano essere ammesse nell’ordine dei nobili, senza domanda, persone di merito insigne o benemerite della patria; ma questo onore era meramente personale. Tutti i cittadini bolognesi che sotto il cessato governo italiano erano stati decorati del titolo di conte o di barone avevano diritto di essere iscritti nel libro d’oro. Chiunque avesse richiesto di essere iscritto alle famiglie nobili doveva giustificare la sua civile condizione fino al terzo grado di ascendenti, dal lato di padre, e sino al secondo dal lato di madre inclusivamente. Doveva inoltre giustificare di possedere un’annua rendita libera da pesi di 2000 scudi romani per provvedere al trattamento della famiglia ed al decoro di essa. Non poteva essere iscritto qualora egli stesso o il di lui padre, almeno da 30 anni addietro avesse esercitato un’arte meccanica o vile, o vi avesse prestato la sua firma o nome.
Occorreva inoltre professare la religione cattolica, esser nati da legittimo matrimonio, o legittimati per susseguente matrimonio.
Norme speciali regolavano le cause di perdite dei privilegi della nobiltà per l’esercizio di arti e il matrimonio.
Con motu proprio di Leone XII del 21 dicembre 1827 veniva disposto che tutte le città, che avevano goduto e godevano il privilegio della nobiltà generosa o locale, lo conservavano, che sarebbe stato accordato agli altri centri territoriali, dichiarati città, il privilegio della nobiltà locale, che poteva coesistere con quella generosa.
Pio IX con chirografo 2 maggio 1853 stabili che le famiglie principesche e ducali romane, che in passato avessero o in avvenire avrebbero ottenuto dalla Santa Sede un tale titolo, e che avessero avuto in Roma il principale domicilio, senza che fossero comprese nell’albo della nobiltà romana, d’allora in poi ne avrebbero fatto parte e avrebbero servito principalmente per completare, nei casi di mancanza, il numero delle 60 famiglie di patrizi coscritti. Data la mancanza non piccola allora esistente nel numero delle famiglie di patrizi, era disposta la riunione straordinaria della congregazione araldica per il completamento del numero. In tal modo venivano a fondersi i due rami della nobiltà romana: il feudale ed il civico. Inoltre il consiglio comunale di Roma poteva concedere la nobiltà personale, e non trasmissibile per eredità, a quegli uomini che se ne fossero resi degni per segnalati servizi prestati alla patria o per celebrità acquistata con la dottrina e scienze, col valore delle scienze e nelle arti belle.
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27 – GORINO, op. cit., pag. 11.

Napoletano
Ad integrazione di quanto è stato detto a proposito dell’ordinamento feudale, e della successione napoletana (v. n. 15), con prammatica 15 giugno 1742 di Carlo III fu stabilito che dopo il decorso di cento anni s’intendeva prescritto il diritto di ottenere la reintegrazione nei sedili nobili di Napoli, e con R. Dispaccio del 16 ottobre 1743 fu risoluto, ai fini dell’acquisto della nobiltà, che il tempo notabile nel quale era vissuta una famiglia nobilmente consisteva nell’avere avuto l’avo il quale era vissuto nobilmente, e senza esercitare uffici o arti vili e il padre ancora, e così, anche come il padre e l’avo, colui che richiedeva la nobiltà. Dati i dubbi sorti sopra la qualità e i gradi di nobiltà lo stesso Carlo III con dispaccio 25 gennaio 1756 dichiarò che essa era di tre classi: la prima consisteva nella nobiltà generosa e si verificava allorquando, nella continuata serie dei secoli, una famiglia era giunta a possedere qualche feudo nobile, o che per legittime prove constava ritrovarsi la medesima ammessa tra le famiglie nobili di una città regia; nella quale fosse una vera separazione dalle civili, e molto più dalle famiglie popolari, oppure che avesse origine da qualche ascendente, il quale per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa, o della corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità, e che i suoi discendenti, per il corso di lunghissimo tempo, si fossero mantenuti nobilmente, facendo onorati parentadi senza mai discendere ad uffici civili e popolari, né ad arti meccaniche ed ignobili.
Ferdinando I con dispaccio 1° dicembre 1770 confermò che la nobiltà generosa proveniva solo dal lungo possesso di feudi, o da titoli conceduti dal sovrano, o da supremi gradi occupati nella milizia, nella magistratura e nelle dignità ecclesiastiche. Ferdinando II con rescritto 17 agosto 1851 dichiarò sufficiente l’iscrizione ai sedili per provare la nobiltà generosa di una famiglia.
La seconda classe di nobiltà, detta di privilegio, la godevano coloro i quali per i loro meriti e servigi personali prestati alla corona ed allo stato, giungevano ad essere promossi dalla munificenza dei principi a gradi maggiori ed onorifici della milizia, della toga, o della corte; in questa classe dovevano essere considerati e compresi tutti gli ufficiali militari maggiori e minori, e quelli i quali, anche nelle altre classi di stato maggiore dell’esercito, come nella carriera ecclesiastica e delle lettere e in classi di regale servizio e governo dello Stato giungevano ad ottenere decorosi impieghi, i quali imprimevano carattere o che fossero di equivalente sfera colla distinzione ed ordine che richiedeva per la sua qualità il differente maggiore o minore rango di ciascuno. La terza classe che comprendeva quelli che si reputavano nobili era chiamata legale o civile.
Erano reputati nobili tutti quelli che facevano constare avere essi, come il loro padre ed avo, vissuto sempre civilmente con decoro e comodità, e che, senza esercitare cariche, né impieghi bassi e popolari, erano stati stimati, gli uni e gli altri, nell’idea del pubblico per uomini onorati e dabbene. Con dispaccio 24 dicembre 1774 di Ferdinando I venne distinta la cittadinanza in tre classi o ceti: la prima quella delle famiglie nobili, comprendente tutti coloro che vivevano nobilmente, e che così avessero vissuto i loro antenati, inclusi in questa classe solo come persone, e non come famiglia, i nobili di privilegio, cioè i dottori in legge e in medicina. Nel caso che da padre in figlio i dottori in legge avessero acquistato lo stesso onore, le loro famiglie erano iscritte alla prima classe, purché non esercitassero mestieri vili o servili. La ascrizione dei medici alla 1a classe era sempre personale e con condizione che non potessero essere eletti a membri del decurionato o amministratori della comunità. Nel secondo ceto erano ascritte le famiglie di coloro che vivevano civilmente, e i notai, i mercanti, i cerusici e gli speziali. Nella 3a classe erano compresi gli artisti e i bracciali.
A causa della indifferenza sulla sorte dello stato addimostrata dai sedili o piazze di Napoli nel 1799 in occasione della costituzione della repubblica partenopea, con legge 25 aprile 1800 vennero aboliti i sedili stessi, fu istituito un supremo tribunale conservatore della nobiltà del regno, e fu disposta la formazione di un registro, detto del Libro d’oro della nobiltà napoletana, nel quale dovevano essere iscritte tutte le famiglie ascritte ai sedili di Napoli, con riserva di aggregazione, da parte del Sovrano, a detto libro, dei più benemeriti soggetti e delle loro famiglie. Il tribunale avrebbe dovuto tenere poi altri tre registri: quello di tutte le famiglie che non erano ascritte ai sedili ma possedevano feudi da 200 anni (con dispaccio del 1801 fu chiarito che dovevano essere iscritte anche quelle famiglie che non erano più in possesso di feudo, purché dopo l’alienazione di esso avessero continuato a vivere senza interruzione nobilmente); quello delle famiglie passate all’ordine di Malta per giustizia; quello di tutti i nobili ascritti ai sedili chiusi delle città del regno che formavano nobiltà, era anche compito del tribunale il cancellare dal libro d’oro e dagli altri registri quei nobili che avessero mancato, e di pubblicare annualmente l’elenco dei nobili non degradati. Infine doveva proporre un sistema sugli stemmi che potevano essere usati da ciascuna classe dei nobili.
Della legislazione, sotto Re Giuseppe Buonaparte e Gioacchino Murat è stato già detto a proposito della successione napoletana (v. n. 15).
Ferdinando I, ritornato in possesso del regno nel 1815, il 20 maggio stabilì che tanto l’antica che la nuova nobiltà era confermata, e con legge 11 dicembre 1816 venne estesa ai domini di terraferma l’abolizione della feudalità. Con decreto 23 marzo 1833 di Ferdinando II venne stabilito che, fino a quando non sarebbe stata pubblicata una apposita legge sulla nobiltà e sui titoli relativi, era istituita per il reame di terraferma e per la Sicilia una Reale commissione dei titoli di nobiltà avente nelle sue attribuzioni tutto quello che in fatto di nobiltà apparteneva alle antiche autorità. Inoltre la Commissione aveva la facoltà di chiedere conto se alcuno fosse legalmente investito del titolo di cui usava. Niuno poi avrebbe potuto cominciare ad usare alcun titolo di nobiltà, cui poteva aver diritto per successione o per altro motivo, se prima non era dichiarata dalla Commissione la legittimità del suo diritto e non fosse intervenuto il beneplacito sovrano. I successivi sovrani rescritti 28 maggio e 7 ottobre 1837, 26 gennaio, 16 marzo 1839, e la ministeriale 7 dicembre 1839 confermarono nel senso più categorico e preciso la incommerciabilità dei titoli di nobiltà e la esclusione degli stessi dalle contrattazioni, da testamenti e da legati, considerando che, sebbene le contrattazioni per le terre feudali erano permesse, dappoiché la abolizione della feudalità aveva ridotto ad allodii le terre soggette a vincoli feudali, pure i titoli avevano conservato lo stesso divieto che vi era per le terre feudali e le stesse regole di trasmissione da persona a persona.

Sicilia
Oltre a quanto è stato detto a proposito della successione siciliana (v. n. 16) è da ricordare che in Sicilia, ove i feudatari si intitolavano Conti, Baroni e Militi, venne introdotto il titolo di Marchese nel 1334 dal Re Federico d’Aragona. Questo titolo venne concesso per la seconda volta da Re Alfonso il Magnanimo nel 1433, e per la terza volta da Re Ferdinando il Cattolico nel 1509. Il quarto titolo di Marchese fu concesso da Carlo V nel 1543, e da allora in poi i Re di Sicilia furono più larghi nel concederlo.
Ma, essendosi questo titolo reso comune, sorse il desiderio di nuove e maggiori distinzioni, per cui l’Imperatore Carlo V introdusse in Sicilia nel 1554 il titolo di Duca, e Filippo II di Spagna quello di Principe nel 1563. Durante il dominio spagnuolo si assistette in Sicilia alla elevazione dei titoli posseduti in quelli di maggiore onoranza (v. n. 41).
Carlo III con dispaccio 27 dicembre 1755 ordinò la formazione delle mastre nobili di Sicilia, ossia dei registri dei nobili in tutte le città che avevano distinzione di ceti (v. n. 18). Con lettere 3 novembre 1798 del senato di Messina approvate dal R. Governatore venne ordinata fra l’altro la rinnovazione della mastra dei nobili col titolo Album Nobilium Messanensium, che va dal 1798 al 1807, e che fu l’ultima chiamata poi mastra nobile di Messina del 1807. Con R. rescritto 7 novembre 1856 fu ordinato non potersi iscrivere alla detta mastra nuove famiglie o persone senza la prova di nobiltà generosa nell’aspirante, convalidata dal sovrano permesso, e che in seguito di deliberazione della R. Commissione dei titoli di nobiltà (v. n. 21 M) avrebbero potuto venire allistati solamente i nomi dei discendenti di quegli individui che vi si trovavano ascritti. Esistono elenchi di mastre nobili di Augusta, Caltagirone, Castrogiovanni, Castroreale, Catania, Messina, Milazzo, Mineo, Nicosia, Palermo, Polizzi, Santa Lucia, Taormina e Vizzini28 .
Pel feudo di Franco Allodio vedi n. 38.
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28 – Le mastre nobili di Sicilia, e specialmente quelle mandate dalle varie città nel 1855 alla R. Commissione dei titoli sulle quali essa a causa dei mutamenti politici non ebbe tempo di esprimere alcun avviso, sono conservate nel grande archivio di stato di Napoli. Sono importanti, fondandosi su di esse il titolo nobiliare di gran numero di famiglie patrizie dell’isola, non nobili per altri capi. Per la esclusione degli ascritti alle mastre del Patriziato vedi n. 40.

Le varie specie di nobiltà secondo gli scrittori
Volendo riassumere le varie forme di nobiltà, gli scrittori di araldica usano una terminologia diversa, ma la differenza ha valore soltanto formale. Negli scrittori antichi si trovano varie distinzioni della nobiltà29 . Secondo alcuni essa è divisa in tre classi: cominciante, crescente, perfetta.
La cominciante è quella eretta e creata ex novo dal principe; la crescente è quella che procede e discende da un nobilitato ma si conserva e mantiene per nobili alleanze, o da esse riceve incremento o attende futura perfezione. La perfetta è quella che ripete una origine tanto remota che il suo principio trascende la memoria d’uomo, e che è proceduta sempre da padre in figlio. Si richiede però che all’antichità si accoppii il lustro, cioè gli onori e le dignità. Secondo altri si hanno le seguenti distinzioni della nobiltà: naturale, legale, generosa, magnatizia o baronale, suprema, civile o politica, teologica, mista, di privilegio.
La naturale è una dignità del casato procedente dallo splendore degli avi, continuata nei figli legittimi; la legale è quella che, acquistata già in virtù delle lettere e delle armi dell’avo, si accrebbe nel padre e si perfezionò nei figli, vivendo essi civilmente e con esclusione di arti meccaniche. La generosa è quella che, secondo il Tiraquello, mai non tralignò, e richiede non solo il non esercizio di arti meccaniche e vili, ma anche una vita nobile, fama, riputazione e uso notorio delle insegne da tempo immemorabile. La magnatizia o baronale è quella composta di baroni o titolati che assistono il principe più da vicino degli altri nobili. La nobiltà suprema è quella che procede dal sovrano, la civile o politica deriva dalle leggi o da decreto del principe e si acquista, o coll’esercizio di cariche portanti dignità, o per diploma di cittadinanza originaria, cioè di appartenenza all’ordine e grado dei cittadini distinti chiamati originari, ossia di origine per antichità e splendore. La cittadinanza originaria apriva l’adito a raggiungere gli onori e le dignità dispensati dallo stato, ed esonerava dalle gravezze imposte alle classi popolari. I cittadini originari, perché ritenuti degni di tutti gli onori, erano considerati nobili. In qualche città, la cittadinanza originaria costituiva un requisito per acquistare in prosieguo di tempo la nobiltà civile ed essere aggregati al consiglio nobile. La nobiltà teologica è quella che procede da dignità ecclesiastiche; la mista deriva dal sangue e dalle virtù; quella di privilegio è creata dal principe.
Secondo il cardinale De Luca30 la nobiltà si distingue in naturale ed accidentale od acquistata. La naturale è quella sopraindicata, l’accidentale è quella di colui che, nato ignobile, si sia costituito in stato nobile, con la sua industria, col benefizio della fortuna, con la grazia del principe. Inoltre la nobiltà si divide in classi o ordini: la prima classe è quella che nasce dal principato sovrano ed assoluto, la seconda è quella magnatizia costituita dai feudatari e dai signori titolati. La terza classe è quella equestre volgarmente detta dei cavalieri, nonostante che, giuridicamente parlando, al terzo posto debba essere collocata la nobiltà privata la quale comprende tutti coloro che si dicono nobili, e che in Italia volgarmente sono detti gentiluomini. La nobiltà privata si distingue in più specie: semplice ovvero ordinaria, generosa ossia più qualificata, separata dal popolo e ristretta ad alcune famiglie.
Degli scrittori moderni il Di Crollalanza31 classifica la nobiltà in feudale, in quella traente origine dalla cavalleria all’epoca delle crociate, infine in quella funzionale derivante dall’esercizio di determinati uffici civili o militari, nobiltà di toga.
Questa classifica è accolta dal Sabini32 .
Il Di Carpegna33 e lo Stolfi34 distinguono la nobiltà in feudale o di razza, per lettere patenti e di concessione del sovrano, e infine quella inerente a talune cariche e uffici determinati.
La feudale aveva la sua origine nella concessione di un feudo, e se si tratta di feudo di dignità, ossia titolato, si aveva diritto di portare anche il titolo, altrimenti si era nobile, ma non titolato. Siccome poi era regola, quasi uniforme per tutti gli stati, che i libri d’oro comprendessero tutti i nobili, e quindi anche gli ultrogeniti delle famiglie titolate, così anche questa nobiltà feudale minore vi era compresa.
La nobiltà per lettere patenti era quella creata dal sovrano come premio ad azioni nobili, e qualche volta per forti somme pagate allo stato o per favorire qualche persona cara.
La nobiltà per cariche andava congiunta ad una carica od ufficio determinato.
Il Solmi35 distingue tre classi di nobiltà: l’alta, quella di privilegio, quella legale. L’alta nobiltà era costituita dalle famiglie aristocratiche più antiche che avevano feudi o uffici elevati, nonché dalle famiglie che per le ricchezze acquistate o per gli uffici coperti erano riuscite a pervenire ai gradi più elevati della società, ottenendo dal sovrano il riconoscimento o la concessione di titoli e di onori.
La nobiltà di privilegio era composta da coloro che erano promossi ai gradi maggiori della milizia, della toga, della corte e della chiesa.
La nobiltà legale o civile è costituita dalla classe più agiata della borghesia, e vive di rendite proprie, senza esercitare né aver esercitato impieghi bassi o professioni illiberali.
Il Salvioli36 , seguendo i trattatisti di araldica e dell’arte del cortegiano, distingue vari gradi di nobiltà: 1° la generosa o magnatizia costituita dalle famiglie investite da tempo di feudo col mero o misto imperio37 , o iscritte, fra la nobiltà antica con separazione dai popolari, con speciale concessione imperiale o pontificia; 2° la privilegiata attribuita a chi l’aveva meritata coprendo alte dignità a corte, in curia, in milizia; 3° la legale per quelli che dimostravano una esistenza decorosa per tre generazioni, o di aver coperte cariche importanti «mantenendosi nobilmente, facendo onorati parentati, senza mai discendere ad uffici civili e popolari, né ad arti meccaniche ed ignobili» (Dispaccio di Carlo III di Napoli 25 gennaio 1756); 4° la nobiltà di toga, di penna o piuma, in favore dei militi della scienza (militia inermis), medici, avvocati, magistrati. Questa nobiltà era personale, ma diveniva ereditaria, se padre e figlio e nipote avevano avuto carica nella magistratura (editto 20 novembre 1769 per la Lombardia; dispaccio 1756 e 1774 per Napoli); 5° quella derivante dagli ordini cavallereschi. Vi era infine una nobiltà personale inerente a cariche pubbliche e di corte, dotata più di distinzioni nel cerimoniale, che di vere prerogative.
La nobiltà di creazione contemporanea è tutta per lettere patenti.
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29 – DEL BUE, Dell’origine dell’araldica, Lodi 1846, inserito nel vol. 5° del Teatro Araldico di TETTONI e SALADINI (v. n. 56 nota).

30 – DE LUCA, Il Dottor Volgare, cit., libro III, cap. VI e seg. ove si tratta largamente della nobiltà a proposito delle precedenze.

31 – DI CROLLALANZA, Enciclopedia araldica cavallercsca, voce « Nobiltà », Pisa 1876-77.

32 – SABINI, L’ordinamento cit., pag. 8, 9.

33 – DI CARPEGNA, in Digesto Italiano, voce « Araldica », n. 16.

34 – STOLFI, op. cit., pag. 313.

35 – SOLMI, Storia del diritto italiano, 2° ediz., Milano 1918, pag. 772 e seg.

36 – SALVIOLI, op. cit., pag. 313.

37 – Si chiamava in diritto feudale mero (il più alto, il più elevato) imperio il diritto di esercitare la giurisdizione criminale; ogni altra giurisdizione era detta di misto imperio.

Parte II

LEGISLAZIONE POSITIVA

Fondamento del potere del Re di conferire titoli nobiliari – Varie teorie
Gli articoli 2 e 3 del R. D. 21 gennaio 1929, n. 61, che precedono il testo del nuovo ordinamento nobiliare, stabiliscono:
ART. 2. – Sono abrogate le antiche leggi, disposizioni e consuetudini che, con norme diverse nei diversi stati prima della unificazione politica, regolavano la concessione, il riconoscimento, la successione, l’uso e la perdita dei titoli e delle distinzioni nobiliari.
ART. 3. – Sono altresì abrogati tutti i nostri decreti e tutte le disposizioni concernenti la concessione, il riconoscimento, l’uso e la perdita dei titoli e delle distinzioni nobiliari, che siano contrarie al presente ordinamento dello stato nobiliare italiano.
All’ART. 1. del nuovo ordinamento è detto fra l’altro:
«È attributo della sovrana prerogativa del Re: a) stabilire norme giuridiche aventi forza di legge per l’acquisto, la successione, l’uso e la perdita di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari.
É da esaminare ora quale è il fondamento giuridico del potere attribuito al Re sul conferimento dei titoli nobiliari.
In proposito vi sono varie opinioni nella dottrina e nella giurisprudenza.
Secondo alcuni autori, il fondamento si trova in una prerogativa della Corona, ma vi è divergenza sul concetto di tale prerogativa, secondo altri nel potere di autarchia o di autodeterminazione del Re, secondo altri nella podestà regolamentare autonoma o indipendente, secondo altri in una attribuzione di competenza fatta al Re dallo statuto.
La risoluzione della disputa non è teorica, ma ha importanza pratica, poiché serve a risolvere la questione sollevata sulla illegittimità dello statuto nobiliare del 1926, per fissare il limite entro il quale può spaziare la Corona in materia nobiliare, per risolvere la questione della esistenza o meno della R. Prerogativa affermata nello statuto nobiliare del 1929, della legittimità o meno delle sanzioni sulla perdita dei titoli nobiliari, contenute nello statuto stesso, nonché della legittimità delle norme regolatrici del procedimento da seguirsi nell’istruttoria e decisione dei ricorsi, istanze, atti di opposizione presentati contro provvedimenti in materia nobiliare.
Esaminiamo separatamente le varie teorie.

Teoria della R. Prerogativa – Concetto di prerogativa – Opinioni di scrittori – Impugnativa del R. D. 16 agosto 1926 n. 1489 e raffronto di detto Decreto con quello 21 gennaio 1929, n. 61
Bisogna anzitutto fissare il concetto di prerogativa, perché su di esso non regna accordo negli scrittori. Seguendo lo Zanobini, che ebbe a scriverne in epoca non sospetta1 , un primo significato in cui si usa la parola prerogativa si riferisce alla posizione costituzionale della persona del Re e riguarda la condizione speciale in cui il Re è collocato in forza di uno jus singulare, che lo pone per molti aspetti fuori del diritto comune, ed ha lo scopo di garantire al Re l’esercizio delle sue alte funzioni. In secondo luogo si può parlare di prerogativa, anziché avuto riguardo alla persona del Re, in relazione alla natura e ai caratteri di certe sue funzioni. E qui aumenta la difficoltà per precisare che cosa s’intenda per funzione di prerogativa ed atto di prerogativa della Corona. Secondo la dottrina inglese, prerogativa sarebbe un modo tradizionale di designare il potere discrezionale dell’esecutivo, ossia tutto ciò che il Re e i suoi dipendenti possono fare senza aver bisogno di ricorrere all’opera del parlamento, e ciò per il fatto che i poteri della Corona inglese risultano per una parte determinati dagli Acts del parlamento e per altra parte si presentano come una quota irriducibile di diritto storico della monarchia assoluta, detta appunto prerogativa, definita dal Dicey come il residuo in un’epoca qualsiasi fra le mani del Re del potere discrezionale che possedeva all’origine2 . Siccome il carattere della discrezionalità si presentava frequentissimo nell’attività amministrativa ordinaria, scrittori antichi inglesi chiamarono funzione di prerogativa quella compiuta senza la prescrizione di una legge, anzi talvolta contro le prescrizioni ordinarie di legge, così, secondo lo Zanobini, si potrebbe dire che le funzioni di prerogativa si contrappongono a quelle meramente esecutive di leggi preesistenti. «Quando si parla di prerogative della Corona, dice il citato autore, sentiamo senza rendercene perfetto conto che vogliamo trattare di funzioni che essa esercita attualmente, non come capo del potere esecutivo, ma come veramente investita della piena sovranità, investita particolarmente della stessa funzione legislativa: perché si sente nella prerogativa la permanenza nel regime attuale dei poteri che il Re possedeva nello stato assoluto. Questi campi eccezionali, nei quali al Re sarebbe stata lasciata la pienezza dei poteri sovrani, debbono secondo l’attuale diritto, trovare fondamento in una espressa norma statutaria o in una legge speciale. Così, per citare le materie più sicure nelle quali lo statuto ha riconosciuto la prerogativa regia e nessuna legge ha poi revocata, si pensi ai poteri che gli sono attribuiti in materia ecclesiastica, particolarmente in materia beneficiaria3 e ai poteri riconosciutigli in materia di titoli nobiliari e di ordini cavallereschi. La legge non è mai intervenuta a regolare questa materia, e la volontà del Re è libera, sia nell’emanazione di singoli provvedimenti sia nella formulazione di norme giuridiche riguardo ad essi. Prerogative, invece, riconosciute in origine al Sovrano, ma limitate in seguito con leggi formali del parlamento, sono quelle attinenti all’organizzazione militare e all’organizzazione amministrativa dello stato» (art. 5 e 6 dello statuto).
Esaminando lo statuto Albertino dal punto di vista storico si vede come esso sia informato a quei principi di diritto pubblico dominanti nella prima metà del secolo XIX che ebbero la loro maggiore e più celebre formulazione nel preambolo del Beugnot alla carta costituzionale francese di Re Luigi XVIII del 1814, il cui principio essenziale era la conservazione della integrità, della plenitudo potestatis del monarca, solo specificatamente limitata in determinate direzioni della costituzione. Alla luce di questi principi si rileva, come ha messo in evidenza il Crosa4 , che le norme stabilite dagli art. 5, 18, 78 e 79 dello statuto contengono delle vere e proprie prerogative regie, le quali si contrappongono per la loro natura particolare alle varie altre attribuzioni devolute al Re dallo stesso statuto, le quali si presentano come competenze organiche. Il costituente subalpino, nella formulazione dello statuto, non fece distinzione fra competenza e prerogativa, dato che queste distinzioni non esistevano nella scienza di quel tempo, ragione per cui non se ne ha traccia nello statuto.
Ma se ignota era la distinzione giuridica, non era ignota in quel tempo la portata politica, la quale era stata e largamente chiarita nel preambolo anzi detto, che ricordava che nello stesso interesse dei popoli, la corona si riservava i suoi diritti e le sue prerogative. E così il costituente subalpino, come quello francese, accanto alle varie competenze assegnate, conservò e riservò al Re alcune attribuzioni in particolari materie più propriamente attinenti alla dignità regia o di particolare delicatezza, sottraendole alla competenza parlamentare, attribuendo cioè vere e proprie prerogative nel significato classico del diritto inglese.
E siccome era in quel tempo anche ignota la differenziazione formale degli atti di volontà dello stato, il costituente non procedette a disciplinare la forma degli atti che il Re avrebbe emanati per l’esercizio dei suoi poteri di prerogativa. Allo stesso costituente era anche ignota la conseguenza giuridica che ha la forma in cui si concretano gli atti di volontà dello stato, per cui esso non stabilì costituzionalmente per la formulazione degli atti di prerogativa una forma particolare, forse ritenendo che potessero adoperarsi in questo campo le forme consuete di legislazione regia.
Da questa confusa posizione iniziale della persistenza delle prerogative regie e della forma di loro estrinsecazione derivò lo svolgimento della costituzione italiana in senso prettamente democratico, senza che la lettera dello statuto vi si opponesse, e per cui alcune delle prerogative in senso vero e proprio vennero dagli scrittori considerate come attribuzioni della Corona e, quindi sottoposte nella loro estrinsecazione ai limiti normali cui soggiacciono gli atti di competenza regia, mentre altre prerogative vennero intese nel senso di guarentigie speciali di diritto pubblico, conferite dallo statuto e dalla legge al Re, a ciascuna delle Camere, ai membri di esse, a quelli dell’ordine giudiziario, per assicurare a ciascuno di detti organi una condizione giuridica speciale, che non è la stessa di quella conferita dal diritto comune agli altri individui ed agli altri pubblici ufficiali. Insomma sono chiamate prerogative le speciali guarentigie che accompagnano certe pubbliche funzioni, ed esse risultano contrapposte al concetto di privilegio, per il fatto che sono istituite non per utilità privata delle persone che ne godono, ma per la pubblica funzione che queste rivestono e proporzionalmente al compito utile che nella vita statuale esse adempiono5.
Così sotto l’ispirazione dei principi democratici alcuni costituzionalisti italiani parlano di prerogative nel senso poco innanzi accennato, e non in quello classico inglese, ed altri considerano come competenza assegnata al Re dallo statuto quelle che erano vere e proprie prerogative in senso stretto.
Così il Racioppi e Brunelli, l’Orlando6 , il Romano7 , il Miceli8 , lo Orrei9 , il Presutti10 . Il Crosa, il Sabini11 chiamano le prerogative, in senso stretto, del Re, prerogative personali, ovvero prerogative maiestatiche e comprendono fra esse quelle in materia beneficiaria (art. 18 statuto), in materia di ordini cavallereschi (art. 78) e di titoli nobiliari (art. 79).
Il Ranelletti12 usa il termine prerogativa nel senso di diritti speciali concessi dalla costituzione al Re per dargli dignità, prestigio ed indipendenza, diritti inerenti all’ufficio e concessi nell’interesse dello stesso ufficio. Fa però presente che la parola prerogativa è anche impiegata nel nostro diritto per indicare la materia che lo statuto attribuisce all’esclusiva competenza del Re (art. 18, 78, 79).
L’Arangio Ruiz13 , avvicinandosi alla concezione inglese, ritiene che la prerogativa regia, oltre a concretarsi nell’assoluta inviolabilità del Re nel disimpegno delle sue funzioni, ha la sua attiva esplicazione giuridica in tutte le funzioni regie di alta discrezionalità, l’esercizio delle quali, come quello che si svolge in suprema rappresentanza o tutela dello stato, in tutela della società, si impone sugli organi parlamentari o giurisdizionali.
Di fronte a questa disparità di opinioni, tendente però a far tramontare, come è stato sopra detto, il concetto di prerogativa nel senso inglese, in testi legislativi recenti troviamo l’impiego del termine prerogativa, e cioè nelle leggi 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo e 9 dicembre 1928, n. 2693, sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio del Fascismo. Sennonché, mentre negli art. 2, 7, 8, 9 della legge del 1925 si specificano le prerogative del Capo del Governo nel significato di speciali guarentigie che accompagnano la alta sua posizione di subordinato soltanto alla Corona, nell’articolo 12 della legge del 1928 si dice che sono considerate leggi costituzionali quelle concernenti: 1° la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; 2° le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo.
Come si vede, in quest’ultima legge, mentre si usa il termine prerogativa nel senso di speciali guarentigie spettanti al Capo del Governo, si afferma chiaramente la esistenza di prerogative della Corona che si differenziano dalle attribuzioni o competenze della Corona.
Inoltre si richiede il parere del Gran Consiglio del Fascismo sulle proposte di legge, considerate di carattere costituzionale, fra le quali sono comprese quelle concernenti le attribuzioni e le prerogative della Corona.
Né ciò è un caso fortuito, ma la conseguenza del nuovo ordinamento costituzionale determinato dal Fascismo, il quale ha stabilito l’equilibrio fra quelle che sono le competenze del parlamento e quelle del potere esecutivo, eliminando il feticismo della legge formale per cui tutto doveva essere regolato per mezzo di legge, ed ha restituito in linea generale le attribuzioni della Corona a quelle che erano originariamente previste dallo statuto. Ma una volta riconosciuto il concetto della prerogativa regia e posto a fianco di esso quello delle attribuzioni del Sovrano, ed affinché la prerogativa non sia un nome vano, non può non darsi ad essa un contenuto che consenta al Sovrano di agire nelle materie di sua spettanza con piena indipendenza dalle disposizioni statutarie, e così nella materia nobiliare mediante l’emanazione di norme giuridiche aventi forza di legge14 .
Sono da ritenere quindi influenzate dalla preoccupazione di stretto costituzionalismo o dal concetto della onnipotenza parlamentare, ormai tramontata, le opinioni di quegli scrittori, che anche dopo il nuovo ordinamento costituzionale determinato dal Fascismo, ritengono che la potestà del Re nelle materie rientranti nella prerogativa, e quindi in quella nobiliare, debba essere esercitata secondo i principi dello statuto, non potendo la sua competenza essere considerata come una continuazione della potestà legislativa che egli aveva piena ed esclusiva nel regime assoluto e che sarebbe stata da lui riservata nella concessione dello statuto. Fra la monarchia assoluta e la situazione moderna, si dice, vi è di mezzo lo statuto15 .
L’affermazione della prerogativa sovrana senza alcuna limitazione della funzione legislativa in materia nobiliare si trova nelle decisioni 11 agosto 1927 del Consiglio di stato16 emesse in occasione della impugnativa per incostituzionalità del R. Decreto 16 agosto 1926 n. 1489, il quale, è bene ricordarlo, fu emanato come se fosse un atto di governo, udito il Consiglio dei ministri, ed all’art. 1 così disponeva:
«Alle antiche disposizioni che con norme diverse nelle singole regioni d’Italia regolano tuttora l’ordine delle successioni, riguardo ai titoli ed attributi nobiliari, concessi dai sovrani degli antichi stati, prima della unificazione politica, sono surrogate le disposizioni seguenti».
A proposito del suindicato R. Decreto 16 agosto 1926 fu osservato17 che non era legittima la facoltà del Re di emanare con sovrana autorità lo statuto concernente i titoli di nobiltà in base all’art. 79 dello statuto, dato che tale articolo dispone solamente che i titoli nobiliari sono mantenuti per coloro che vi hanno diritto e che il Re può conferirne dei nuovi. Fu anche osservato18 che non sarebbe rispondente al nostro sistema costituzionale l’opinione per la quale con le istituzioni costituzionali sussistano nel Re diritti maiestatici, come del pari non sarebbe conforme al fondamento storico ed al concetto giuridico di un sistema giuridico costituzionale in genere, l’opinione che lo statuto debba essere interpretato ed integrato con riferimento alla tradizione.
La competenza regia si esaurisce col semplice conferimento del titolo, essa può nello stesso momento in cui si conferisce il titolo dettare norme circa l’uso, la successione, la perdita di esso, cioè può disciplinare la vita del diritto conferito, può anche rinnovare titoli estinti per mancanza di successori, giacché in tal caso si tratta formalmente di un conferimento, può autorizzare l’accettazione di titoli e decorazioni di potenze estere, e ciò per l’art. 80 dello Statuto, ma non spetta alla competenza regia la facoltà di emanare statuti e norme concernenti i titoli nobiliari già conferiti ed esistenti, perché, là dove la costituzione volle attribuire un tal diritto al Re, lo dichiarò espressamente come fece nell’art. 78 dello statuto, riconoscendo il diritto di istituire nuovi ordini cavallereschi e di prescriverne gli statuti19 .
Fu infine rilevato20 che il Re non aveva la facoltà di modificare le norme regolatrici dei diritti nobiliari conferiti prima dello statuto del regno, perché rispetto ad essi non può esplicarsi la potestà regia, in quanto sono dichiarati mantenuti dall’art. 79 dello statuto a coloro che vi hanno diritto, e ciò significa non solo a quelli che ne erano investiti al momento della promulgazione dello statuto, ma anche a coloro che in base agli statuti esistenti in quel momento fossero chiamati alla successione.
Di conseguenza qualunque riforma si fosse voluta introdurre relativamente ai diritti sorgenti dai titoli nobiliari mantenuti dallo statuto, avrebbe dovuto essere effettuata mediante l’intervento del potere legislativo o, se ricorressero gli estremi voluti dall’art. 3 della legge 31 gennaio 1926, n. 100, dal potere esecutivo in funzione e come anticipazione di quello, ma non può la potestà regia legittimamente manifestarsi oltre i limiti assegnatile dalla norma fondamentale.
Nemmeno era da ritenere che la potestà di dettare norme intorno al conferimento ed agli effetti dei titoli nobiliari conferiti e mantenuti si possa fondare su di una norma consuetudinaria, dato che, se pure si riconosca quasi unanimemente la consuetudine come fonte di diritto Pubblico, si discute se essa acquisti la qualità di fonte del diritto in quanto dalla legge è riconosciuta tale, o se di siffatto riconoscimento non vi sia bisogno; e specialmente vi è dissenso sui limiti che essa incontra di fronte al diritto scritto.
In contrapposto a queste osservazioni, il Consiglio di stato con le sopracitate decisioni ebbe a stabilire che spetta al Re nell’esercizio della R. Prerogativa riservata nell’art. 79 dello statuto del Regno, stabilire con potere esclusivo, non solo sulla istituzione e sul conferimento dei nuovi titoli di nobiltà, ma altresì sul regolamento della trasmissione successoria di quelli già esistenti e mantenuti, modificando, secondo criteri insindacabili, le norme di legge o le consuetudini precedentemente osservate. Il potere riservato alla R. Prerogativa in questa materia si esplica coi decreti reali aventi autorità costituzionale pari a quella delle leggi.
« … Per interpretare l’art. 79 dello statuto che dichiara che i titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto e che il Re può conferirne dei nuovi, bisogna riportarsi all’epoca di promulgazione dello statuto. Ed allora si vede che l’articolo stesso deve intendersi come affermazione di valore più storico che giuridico, dato che con l’art. 24 fu proclamata l’eguaglianza di tutti i cittadini, qualunque sia il loro titolo o grado dinanzi alla legge.
L’art. 79 non fa che riconoscere il passato e promettere il futuro, ma questi due termini lasciavano integro il potere regio in questa materia che è per sua natura strettamente ed esclusivamente legata al Sovrano. É poi principio noto di diritto pubblico che lo statuto in genere va interpretato e integrato con riferimento alle tradizioni e non già per esegesi letterale.
« Il mantenere la nobiltà come elemento sociale non significò né che le norme dovessero rimanere consolidate, né che il Re fosse stato spogliato della sua competenza regolamentare in proposito, né che avesse rinunziato a questa sua competenza con la promulgazione dello statuto. L’art. 79 non dichiara, né implica alcuna rinuncia. Quando si è trattato di stabilire rinunce a qualche diritto mai estatico lo si è espressamente detto, come ad esempio nella legge 13 maggio 1871 sulle guarentigie.
D’altra parte il riconoscere al Re la potestà di concedere nuovi titoli era ammettere che il Re dovesse continuare ad essere la fonte degli onori.
È così connaturata l’idea della nobiltà all’essenza della sovranità, che la nobiltà unicamente dalla sovranità, come riceve la vita, così riceve la norma. Esistono limitazioni a questo potere regio, risultanti dai principi basilari del nostro ordinamento costituzionale: così il Re non potrebbe conferire privilegi, accordare diritti, esonerare da doveri, a favore degli investiti di titoli nobiliari, non potrebbe sanzionare misure repressive contro gli usurpatori, perché è compito della legge penale, non potrebbe stabilire imposte e tasse che non siano semplici diritti di cancelleria, perché ciò è attribuzione delle Camere. Ma, col rispetto di questi limiti, il Re è sovrano nella regola, come è sovrano nella concessione in materia che è tutta sua propria, che è diretta derivazione della sua essenza e del suo lustro.
Teoricamente l’emanazione delle norme regolatrici della materia nobiliare potrebbe esser fatta dal potere legislativo, ma qualora il monarca non credesse di far uso della sua prerogativa. Ma praticamente egli si avvale dell’esercizio della potestà di Regia Prerogativa, il cui carattere non viene tolto dal fatto che il R. Decreto 16 agosto 1926 porta due formule «Udito il Consiglio dei ministri» e «Sulla proposta del Capo del governo », dato che queste formule sono determinate dal principio della irresponsabilità costituzionale del Re.
L’atto con cui il Re ha emanato il R. Decreto 16 agosto 1926 non è un atto amministrativo da lui compiuto nell’esercizio di Capo del potere esecutivo, ma un atto da lui compiuto come soggetto di autarchia, nell’esercizio della sua alta prerogativa di sovrano, che ha forza di legge, in quanto il potere esercitato in virtù di Reale Prerogativa è potere statuente che coincide, per l’autorità e l’efficacia giuridica, con quello del legislatore. Di tal che conclude il Consiglio di stato, non solo non ricorrono gli estremi del provvedimento amministrativo per l’ammissibilità del ricorso giurisdizionale amministrativo, ma anche manca la possibilità di esperimentare qualsiasi rimedio contenzioso, dato che, quale legge, il R. Decreto in questione poteva come ha fatto, regolare l’ordine di rapporti che ne sono l’oggetto, restringere l’efficacia delle avvenute concessioni, nell’intento di pubblico interesse, di attuare i nuovi principi fondamentali circa la trasmissibilità ereditaria dei titoli ereditari, col rispetto delle situazioni esistenti ».
Conforme a questa decisione si è dichiarato anche il Mortara, il quale ha affermato21 che il potere esercitato in virtù di Regia Prerogativa è potere statuente che coincide, per l’autorità e per l’efficacia giuridica, con quello del legislatore.
La esplicita affermazione della R. Prerogativa si trova nell’art. 1 dell’ordinamento dello stato nobiliare approvato con R. Decreto 21 gennaio 1929, n. 61 sopracitato (vedi n. 23), emanato su proposta del Capo del Governo ed udita soltanto la Consulta Araldica. In proposito la relazione del Capo del Governo al Re così si esprime:
«I capisaldi del nuovo ordinamento dello stato nobiliare italiano sono: 1) La definizione della Prerogativa della Maestà Vostra in tema di diritto nobiliare. La genesi dell’evoluzione storica della nobiltà e lo spirito degli artt. 79 e 80 dello statuto fondamentale del Regno non lasciano infatti dubbio per sanzionare che il Re è l’unico, assoluto, insindacabile legislatore. La Prerogativa Regia, in materia nobiliare è sottratta, per conseguenza, alle discussioni parlamentari; e il decreto emanato dal Re, sulla proposta del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di stato, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del Regno e inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti, è legge dello stato». Sono state mosse dal Comba22 critiche a detto R. D.
È stato detto che non poteva spettare al Re, in base all’art. 79 dello statuto, la potestà di regolare la materia nobiliare nell’ampiezza contenuta nell’art. 1 dell’ordinamento 1929, occorrendo l’intervento del potere legislativo, il quale modifichi la competenza regia, assegnandole quei più ampi confini secondo il contenuto dell’articolo stesso. Inoltre, per l’ordinamento nobiliare del 1929, perché emanato quando era già in vigore la legge 9 dicembre 1928, n. 2693 sul Gran Consiglio del Fascismo, avrebbe dovuto seguirsi la procedura propria delle leggi di carattere costituzionale.
Anche altre norme dell’ordinamento, in quanto modificative delle attribuzioni e prerogative del Re, avrebbero dovuto essere sottoposte alla speciale procedura delle leggi di carattere costituzionale, altre avrebbero dovuto essere emanate dal Potere legislativo, come quella contenente la sanzione della perdita del titolo e attributi nobiliari a coloro che si rendono rei di determinati delitti (art. 41-45), dato che va oltre i limiti della potestà regia, la quale può provvedere solo al conferimento del titolo e non alla perdita, mentre in questo caso si dispone di diritti che, una volta acquisiti, non possono venire sottratti al titolare se non in virtù di una legge. Così anche dicasi per le norme disciplinatrici del procedimento da seguirsi nella istruzione e decisione dei ricorsi, istanze, atti di opposizione presentati in materia nobiliare, giacché in questo caso trattasi di regolare il diritto subbiettivo del titolare di una pretesa giuridica, a farla valere, ed il modo di esercizio dello stesso, e quindi deve intervenire il potere legislativo.
Ma tutte le anzidette osservazioni partono dalla esclusione del concetto della Regia Prerogativa, e quindi dalla non esatta interpretazione dell’art. 12 della legge sul Gran Consiglio per cui sono da ritenere, dopo quanto sopra è stato detto, infondate.
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1 – ZANOBINI, I poteri regi nel campo del diritto privato, Torino 1917, pag. 65 e seg.

2 – CROSA, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino 1922, pag. 24 e seg.

3 – Regolata ora dal Concordato con la Santa Sede approvato con legge 27-5-1929, n. 810.

4 – CROSA, Sulla natura giuridica dei regolamenti indipendenti, Pavia 1928, pag. 19, e La monarchia cit., pag. 109.

5 – RACIOPPI e BRUNELLI, Commento allo Statuto, Torino 1909, vol. I, pag. 214-215; vol. III, pag. 706 e seg. – CROSA, La Monarchia cit., pag. 25.

6 – Principi di diritto costituzionale, Firenze 1905, pag. 196, n. 260.

7 – Corso di diritto costituzionale, 4a ediz., Padova 1933, pag. 174.

8 -Principi di diritto costituzionale, 2a ediz., Milano 1913, pag. 545.

9 – Il diritto costituzionale e lo stato giuridico, Roma 1927, pag. 362.

10 – Istituzioni di diritto costituzionale, Napoli 1920, pag. 245, 246, 247.
11 – SABINI, La prerogativa regia e i diritti nobiliari in « Saggi di diritto pubblico », Bari 1915, pag. 35 e seg. – CROSA, La monarchia cit., pag. 176, 173.

12 – Istituzioni di diritto pubblico, 3a ed., Padova 1932, pag. 179.
13 – Istituzioni di diritto costituzionale, Torino 1913, pag. 553.

14 – Un rafforzamento della prerogativa sovrana si riscontra nel R. Decreto 27 luglio 1934, n. 1332, col quale sono determinati i Decreti Reali esenti dal visto e dalla registrazione della Corte dei Conti. – Fra essi sono compresi quelli di nomina del Commissario del Re presso la Consulta Araldica, di istituzione di ordini cavallereschi e di approvazione e modificazione dei loro statuti, di nomina dei componenti le giunte o i consigli degli ordini predetti, quelli inerenti alle norme regolamentari relative agli ordini stessi e ai regolamenti per l’amministrazione delle loro dotazioni, quelli di conferimento e revoche di onorificenze cavalleresche, di medaglie, di diplomi e di altri segni di distinzione onorifica, a cui non siano annessi pensioni o assegni a carico del bilancio dello stato, di autorizzazione ad accettare onorificenze da parte di Potenze estere.

15 -Comba, Della potestà regolamentare indipendente nei confronti dello stato nobiliare, Torino 1929, pag. 4. – ORREI, op. cit., pag. 368. – SABINI, L’ordinamento dello stato nobiliare cit., pag. 40.

16 – Caracciolo Carafa c. Presidenza del Consiglio dei Ministri, CARACCIOLO DI SANTERANO in Giur. It., 1927, III, 230; Foro It., 1927, III, 129; Riv. Dir. Pubbl., 1927, II, 441; 11 agosto 1927, Biondi Morra c. Presidenza del Consiglio dei Ministri; 11 agosto 1927, Caravita in Telesio c. Presidenza del Consiglio dei Ministri (inedite). Vedi anche PIANO MARTINUZZI, Cod. cit., pag. 262, n. 17.

17 – ORREI, op cit., pag. 368.

18 – ORREI, op. cit., pag. 366.

19 – COMBA, op. cit., pag. 28-29.

20 – COMBA, op. cit., pag. 29-30.

21 – Giurisp. It., 1927, III, 231.

22 – COMBA, op. cit., pag. 40.

Teoria del potere di autarchia o di autodecisione del Re
Il Romano23 in passato ebbe ad esprimere l’opinione che il Re allorquando conferisce titoli nobiliari o cavallereschi è da considerarsi come soggetto di autarchia, nel senso che è soggetto di alcune potestà pubbliche che esercita in nome proprio, e quindi non come organo dello stato, però anche nell’interesse di quest’ultimo. Questa teoria, che ora è abbandonata dal Romano (v. n. 27), è stata oggetto di critiche da parte del Comba24 . Alla teoria del Romano si avvicina il Chimienti25 che però parla di atti di autodeterminazione del Re, coi quali egli non provvede né ad interessi propri né ad interessi dello stato, e che comprendono alcuni di quelli che il Re compie come capo della famiglia reale, quelli di cui negli art. 78, 79, 80 dello statuto.
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23 – ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova 1926, pag. 154.

24 – Comba, op. cit., pag. 6.

25 – CHIMIENTI, Manuale di diritto costituzionale fascista, Torino 1933, pag. 175-176.

Teoria della facoltà regolamentare
Secondo questa teoria il fondamento del potere regio in materia nobiliare rientrerebbe nella potestà regolamentare indipendente del governo (Cammeo, Borsi, Crosa, Ragnisco)26 . Si fa però da alcuni autori, e con diversi criteri, la distinzione fra i regolamenti indipendenti e quelli autonomi, distinzione non facile, data la poca chiarezza dei precedenti parlamentari, e si discute altresì se siano compresi e quindi anche regolati dalle disposizioni di cui all’art. 1, n. 2, della legge 31 gennaio 1926, n. 100, i regolamenti relativi alla Regia Prerogativa. La distinzione importa l’affermazione o meno della natura o no legislativa, non solo materiale, ma anche formale, di detti regolamenti, inquantoché essi possono pure derogare a disposizioni legislative. Ritengono che i regolamenti in materia nobiliare non siano previsti dalla legge del 1926 il Crosa, il Ragnisco, il Verde27 ; ritengono invece che siano regolati dalla legge predetta il Borsi, il Saltelli28 . Anche il Sabini29 ritiene che la potestà del Sovrano si fondi sul potere di fare regolamenti autonomi (detti dagli altri autori indipendenti) e di avere detti regolamenti forza di legge.
Sennonché egli, come aveva fatto a proposito del R. D. 16 agosto 1926 sullo statuto nobiliare, opina che non si possa la potestà legislativa del Sovrano estendere fino all’abrogazione di quelle norme precedenti su cui si fondano i diritti legittimamente acquisiti, in base all’art. 79 parte 2a dello statuto, che dichiara «mantenuti» i titoli esistenti a favore di coloro che ne «hanno diritto ». Disposizioni in cui il nuovo ordinamento del 1929 risulterebbe incostituzionale, sarebbero quelle contenute nell’art. 70, pel quale i titoli pervenuti alle femmine nubili prima del 7 settembre 1926 passano, dal giorno del loro matrimonio, all’agnazione maschile della famiglia di provenienza, negli art. 41, 42, 45, 46 relativi alla decadenza di diritto, alla privazione per decreto reale, alla sospensione, delle distinzioni nobiliari. (v. n. 83)
Ma tali obbiezioni non sono state tenute in conto neanche dalla Cassazione, la quale con sentenza 9 maggio 1930, Treves De Bonfili – Treves (Giur. It., 1930, I, 776)30 ha affermato che «le disposizioni dei RR. DD. 16 agosto 1926 e 21 gennaio 1929 non soltanto hanno abrogato le leggi generali e le consuetudini in materia di successione nei titoli nobiliari, ma hanno anche sostituito le proprie norme a quelle contenute nei singoli atti sovrani di concessione, facendo soltanto eccezione per i provvedimenti emanati dopo l’unificazione del Regno.
«Tali disposizioni peraltro non hanno efficacia retroattiva circa le successioni apertesi anteriormente ai predetti decreti e relativamente ai diritti divenuti perfetti con l’apertura della successione dell’ultimo investito».
Alla teoria della facoltà regolamentare sembra aderire il Gorino31 .
Il Comba32 allo scopo di pervenire alla incostituzionalità dello statuto nobiliare del 1929 cerca di distinguere fra regolamenti autonomi, fondati genericamente su poteri discrezionali del Re di portata ampia, e regolamenti autonomi fondati su speciali norme dello statuto, fra le quali rientra l’art. 79. Di tal che i regolamenti fondati su speciali norme dello statuto non sarebbero regolati dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100, ma sottostarebbero alle norme ordinarie dello statuto.
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26 – CAMMEO, Della Manifestazione di volontà dello Stato, in Orlando, « Tratt. di Dir. Amm. », vol. III, pag. 169, 170; BORSI, Appunti di Dir. Amm., Padova 1926, pag. 188; CROSA, Sulla natura giuridica citata, pag. 31; RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100, ed il Consiglio di Stato, Padova 1931, pag. 20-29.

27 – VERDE, La legge 21 gennaio 1926, n. 100, e le prerogative della Corona, « Foro Amm. », 1927, IV, 108.

28 – SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma 1926, pag. 104-105. 6.
SABINI, L’ordin. cit., pag. 43 e seg. ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova 1926, pag. 154.

30 – PIANO MARTINUZZI, Codice Nobiliare, pag. 276, n. 126.

31 – GORINO, op. cit., pag. 45.

32 – COMBA, op. cit., pag. 9 e seg.

Teoria della competenza istituzionale esplicantesi mediante decreto legislativo.
Il Ranelletti, modificando la sua precedente opinione, che il fondamento della potestà regia in materia nobiliare fosse basato sul potere regolamentare indipendente, non regolato dalla legge 31 gennaio 1926, n. 10033 , ritiene che detta potestà derivi da una attribuzione di competenza fatta direttamente dallo statuto e per cui il Re ha nella materia di cui si tratta la potestà legislativa materiale e formale, la quale si esplica mediante decreti legislativi. Questi decreti hanno valore di legge e possono quindi modificare o abrogare leggi esistenti, e non possono a loro volta essere modificati o abrogati che da una legge o da un altro atto avente forza di legge. Ma se la materia di cui si tratta venisse regolata da legge, allora la potestà legislativa del Re verrebbe a cessare34 . Il Ranelletti esclude che questa competenza possa considerarsi come una continuazione della potestà legislativa che il Re aveva piena ed esclusiva nel regime assoluto precedente, e che sarebbe stata da lui riservata nella concessione dello statuto. La monarchia italiana non è monarchia limitata, ma costituzionale. Il fondamento perciò di questa competenza del Re è nello statuto, ed egli deve esercitare queste attribuzioni secondo i principi dello statuto.
Il Romano35 , modificando la sua precedente opinione sovraesposta, ritiene che al Re sia attribuita in modo normale e permanente la competenza di emanare norme giuridiche aventi forza di legge, in materia ad esso riservate, nelle quali norme rientrano quelle che regolano l’acquisto, la successione dei titoli nobiliari.
Alla opinione del Ranelletti aderiscono il D’Alessio36 ed il Vitta37 .
Mediante questa teoria vengono eliminati i limiti che importava la teoria fondata sulla potestà regolamentare, e per cui il Sovrano non avrebbe potuto emanare norme nuove che modificassero il diritto esistente, il che importava il riconoscimento di alcune delle obbiezioni sollevate dal Comba.
Ma anche questa teoria, che cerca di adattare la dottrina alla legislazione, non risponde completamente alla lettera dell’ordinamento nobiliare del 1929, il quale parla esplicitamente di potestà della R. Prerogativa, ed indica le forme in cui si esplica, né tiene conto delle affermazioni contenute nella relazione del capo del Governo, che il Sovrano è l’unico, assoluto, insindacabile legislatore in materia nobiliare, la quale è sottratta alle discussioni parlamentari.
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33 – RANELLETTI, La potestà legislativa del governo in «Riv. di Diritto Pubblico », 1926, pag. 169.

34 – RANELLETTI, Istituzioni di diritto pubblico cit., pag. 340, 341, 342, 353, 355 nota 5.

35 – ROMANO, Corso di diritto costituzionale, 4a ediz., Padova 1933, pag. 281.

36 – D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo, vol. I, Torino 1932, pag. 73.

37 – VITTA, Diritto amministrativo, Torino 1933, pag. 45, 55.

Attributi della R. Prerogativa
L’art. 1. dell’ordinamento nobiliare con le modifiche contenute nel R. D. 10 luglio 1930, n. 974, fissa le attribuzioni della Prerogativa Sovrana. Esso così suona:
« É attribuito alla Sovrana Prerogativa del Re: a) stabilire norme giuridiche aventi forza di legge per l’acquisto, la successione, l’uso e la perdita di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari;
b) concedere nuovi titoli, qualifiche e stemmi nobiliari, rinnovare titoli e predicati estinti per mancanza di chiamati alla successione, sanare le lacune e le deficienze nella prova di antiche concessioni o nel passaggio dei relativi titoli e predicati;
c) autorizzare l’accettazione di titoli, predicati e qualifiche nobiliari concessi a cittadini italiani da potenze estere, e l’uso di titoli pontifici appoggiati sul cognome o a predicati del territorio della Città del Vaticano o ad altri purché puramente onorifici concessi a cittadini italiani;
d) decretare la perdita delle distinzioni nobiliari o del diritto a succedervi o la sospensione dal loro uso ».
Dopo quanto è stato detto a proposito della R. Prerogativa è facile rilevare come il Re in base all’art. 1 suindicato è in materia nobiliare l’unica fonte di diritto obbiettivo (art. 1, lett. a), in quanto può emanare norme giuridiche regolanti la materia ed aventi forza di legge. Cesserebbe di essere tale facoltà Prerogativa Sovrana, ove si ammettesse che possa il potere legislativo avocare a sé la facoltà di legiferare in proposito.
Circa il modo di estrinsecazione di questa facoltà legislativa del Re l’art. 2 stabilisce che le norme giuridiche di legislazione nobiliare sono emanate mediante Decreti Reali, controfirmati dal Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di stato. Esse sono pubblicate nella Gazzetta ufficiale ed inserite nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti del regno.
Inoltre il Re è fonte di diritti subbiettivi in favore dei singoli in base all’ art. 1 lett. b) c) d), ma i diritti non sorgono fino a quando l’atto sovrano non è perfetto, per cui i singoli non possono ricorrere o agire avanti all’autorità giudiziaria nel caso di diniego o nel caso che l’atto sovrano non divenga perfetto.
Quando invece un diritto nei singoli sia sorto, in conseguenza dell’atto sovrano perfetto, esso può formare oggetto di ricorso giurisdizionale sia da parte del titolare, sia da parte dei terzi che si ritengano lesi, come meglio sarà detto in seguito (v. n. 120).

Titoli, trattamenti e stemmi della Famiglia Reale
Circa i titoli, il trattamento e gli stemmi della famiglia reale, essi sono regolati, giusta l’art. 3 dell’ordinamento, dal decreto reale 1 gennaio 1890 e dalle successive reali disposizioni in materia, che sono riportate in seguito.

Mantenimento ed acquisto di titoli, predicati, qualifiche e stemmi
L’art. 4 dell’ordinamento, ricollegandosi all’art. 79 dello statuto del Regno stabilisce che i titoli, i predicati, le qualifiche e gli stemmi nobiliari sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto in conformità delle norme vigenti; e si acquistano o per successione o per nuova concessione del Re.
Si ha con questo articolo da un lato l’affermazione generica del riconoscimento dei titoli, predicati, qualifiche e stemmi di cui sono in possesso gli attuali investiti in virtù delle norme vigenti, e si stabilisce dall’altro che gli ulteriori acquisti possono aver luogo soltanto o per nuova concessione del Re o per successione.
Questi concetti trovano esplicazione nello stesso ordinamento con relative modificazioni, nelle norme generali per la concessione, il riconoscimento, l’uso e la perdita delle distinzioni nobiliari (art. 13 a 49), nelle norme sul trattamento e le qualifiche nobiliari (art. 50 a 52), nello statuto delle successioni ai titoli ed attributi nobiliari (art. 53 a 68).

Titoli ammessi nel Regno
Giusta l’art. 5 dell’ordinamento sono ammessi nel Regno i titoli di: Principe e Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Signore, Patrizio, Cavaliere ereditario e Nobile, quest’ultimo è comune agli insigniti di ogni altro titolo.
In rapporto alla precedente legislazione è da rilevare che i titoli di Principe e di Duca sono considerati alla pari38 , non essendo stata accolta la proposta contenuta nel progetto di ordinamento del 1928 che la precedenza fra i due pari grado sarebbe stata determinata dalla data di concessione del titolo.
Inoltre sono compresi quelli di Visconte, di origine inglese e francese, e di Signore, ambidue finora riconosciuti o rinnovati.
Esaminiamo separatamente detti titoli39 .
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38 – Nella relazione alla Consulta Araldica del Biscaro in Boll. Uff. della Consulta Araldica, n. 40, febb. 1929, pag. 39-51, è affermato che la proposta di equiparazione dei due titoli è dovuta alla considerazione che nella storia, la superiorità di ciascuno di essi si alterna secondo i tempi e gli stati, con l’altro, senza che si possa accertare una effettiva preminenza del titolo di principe su quello di duca.

39 – STOLFI, op. cit., pag. 315 e seg.; SABINI, L’ordinamento cit., pag. 58 e seg.

Titolo di Principe
Nell’epoca romana troviamo indicato il nome di Princeps Senatus per indicare il primo per dignità tra i senatori, ed Augusto, allorché riunì in sé tutte le dignità repubblicane, assunse il titolo di Princeps.
I successivi imperatori romani continuarono a chiamarsi Princeps (es. Princeps Optimus fu detto Traiano), e la qualifica di Imperator servì a designare la potestà di comando degli eserciti.
Nel medio evo, nel periodo eroico del feudalesimo, la parola Princeps era soltanto un epiteto che comprendeva i vassalli maggiori (Duchi, Conti, Marchesi, Arcivescovi, Vescovi, Abati, Abatesse) in contrapposto ai vassalli minori, chiamati barones. Nell’Italia meridionale, invece, i vassalli maggiori si chiamavano barones majores, ed i minori barones minores. In seguito la parola Princeps diventò un titolo, dapprima senza enunciazione della terra su cui si esercitava la sovranità, di poi con questa indicazione, ed alcuni ducati divennero principati. Non è esatto quindi che, come da alcuno si ritiene, il titolo di Principe fosse riservato ai membri delle famiglie sovrane, poiché invece essi allora assumevano il titolo di conte, ed in alcuni stati il Principe Ereditario assumeva ed assume il titolo di Duca (Duca di Calabria40 nel Regno di Napoli, Duca di Brabante nel Belgio). In altri stati (Italia, Inghilterra, Spagna, Olanda) all’erede della Corona è attribuito per tradizione il titolo di Principe (di Piemonte, di Galles, delle Asturie, d’Orange). Il Gran Maestro del Sovrano Ordine Militare di Malta gode in Italia, in base all’art. 51 dell’ordinamento, il titolo di Principe (v. n. 45). In Germania l’erede della Corona si chiamava Kronprinz (principe della Corona).
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40 – Il titolo di Duca di Calabria dei Borboni di Napoli fa ricordare che esso è attualmente un titolo di pretensione. Sono chiamati titoli di pretensione quelli di stati sovrani, o feudali portati, pur non possedendo più, per causa di forza maggiore i relativi stati, o da un ex-sovrano di detti stati o da un capo di casa sovrana o ex-sovrana che possedeva gli stati stessi e dai relativi discendenti. I titoli di pretensione non sono ritenuti sottoposti alle norme nobiliari vigenti sul territorio cui essi si riferiscono. I titoli di pretensione delle Case Regnanti o ex-Regnanti in Italia sono: a) Casa Regnante di Savoia: Titoli Sovrani: Re di Cipro, di Gerusalemme e di Armenia; Duca di Savoia; Titoli feudali: Duca di Chiablese, Duca di Carignano d’Ivoy; Marchese di Lanslebourg; Conte di Moriana; Conte di Ginevra; Conte di Soissons; Alto Signore di Monaco e di Mentone. b) Casa ex-Regnante d’Austria: Titoli Sovrani: Granduca di Toscana; Duca di Modena, Reggio, Guastalla, Mirandola, Massa Carrara; Duca di Parma e Piacenza e Guastalla; Titoli feudali: Principe di Trento, Duca del Friuli; Conte Principesco di Gorizia; Signore di Trieste. c) Casa ex-Regnante di Borbone Linea di Napoli: Titoli feudali: Duca di Calabria. I titoli di Conte di Caserta, di Trani, di Trapani, di Girgenti, di Aquila, di Bari, di Siracnsa, di Caltagirone, di Castrogiovanni, di Lucera, di Milazzo, secondo alcuni, sono titoli feudali, secondo altri appartengono alla specie dei titoli nobiliari semplici. d) Casa ex~Regnante di Borbone Linea di Parma. Titoli Sovrani: Duca di Parma e Piacenza. Titolo nobiliare: Conte di Bardi. Vedi B. d’Anjou: Titoli di pretensione, e Baviera: A proposito dei titoli di pretensione in Riv. Aral., 1932, 161, 231.

Titoli di Principe Reale Ereditario, di Principe Reale, di Principe del Sangue
In base al R. Decreto 1 gennaio 1890 che regola i titoli e gli stemmi della Famiglia Reale41 il figlio primogenito del Re ha la qualifica di Principe Reale Ereditario ed è insignito dal Re di un titolo e predicato nobiliare, che per quello attuale è di Principe di Piemonte. La di lui moglie ha la qualità di Principessa Reale e porta il titolo e predicato nobiliare del Principe suo consorte.
Gli altri figli del Re ed i figli del Principe Ereditario hanno la qualità di Principi Reali e sono appannaggiati dal Re con un titolo e predicato nobiliare trasmissibile ai Principi loro discendenti, legittimi, naturali e riconosciuti, maschi da maschi, in linea e per ordine di primogenitura.
Le figlie del Re e quelle del Principe Reale Ereditario hanno la qualità di Principesse reali.
I nepoti del Re, figli del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi, hanno la qualità di Principi e di Principesse Reali col predicato di Savoia e l’aggiunta di quello nobiliare del loro genitore.
I nepoti del Re, figli di Principe fratello e figli e discendenti dai nepoti del Re e del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi, hanno la qualità di Principe e Principesse del Sangue col predicato di Savoia e l’aggiunta di quello nobiliare della propria linea.
Le consorti dei Principi della Reale Famiglia assumono la qualità ed il titolo del Principe marito.
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41 – Non è pacifico il significato da attribuirsi alla parola Famglia Reale ai fini delle disposizioni speciali ad essa riferite. Secondo taluni (RACIOPPI e BRUNELLI, op. cit., vol. I, pag. 621) essa comprende i legittimi discendenti dal reale capostipite entro il 10° grado di parentela ai sensi dell’art. 48 del codice civile; e secondo altri (ROMANO, Corso di diritto costituzionale cit., pagina 179) essa comprende il complesso delle persone legate da parentela col Re, anche oltre il decimo grado e delle consorti di tali persone, esclusi i discendenti dalle donne che non siano anche discendenti da membri della famiglia reale. Chiamasi famiglia regnante il complesso del Re, della Regina e dei loro discendenti e cioè il Principe Ereditario, i Principi e le Principesse reali. Principi e Principesse del sangue reale sono tutti gli altri componenti della famiglia reale, ma anche questi sono talvolta dalle leggi designati Principi e Principesse reali.

Titolo di Duca (In nota: I titoli di pretensione)
Presso i Longobardi i duces, ducones erano gli antichi capi popolari che governavano in nome del Re una circoscrizione, e nei primi tempi del feudalesimo il Duca veniva immediatamente dopo il Sovrano, in nome del quale direttamente o per mezzo dei conti governava una provincia. Da carica personale il titolo di Duca si trasformò in titolo ereditario, e fu assunto anche da Sovrani, come Roberto il Guiscardo che si chiamò Duca di Puglia e di Calabria, titolo quest’ultimo assunto dai Principi Ereditari delle due Sicilie.
In Germania i Duchi si chiamavano Elettori perché eleggevano l’Imperatore. Era anche in uso in Germania, in Austria ed in Russia il titolo di arciduca e di granduca, per i membri delle case regnanti, ma senza indicazione di predicato feudale. Il primo titolo di Duca dopo l’unità d’Italia fu quello concesso nel 1861 al generale Cialdini col predicato di Gaeta, in ricordo della espugnazione di quella piazzaforte, ultimo rifugio dei Borboni.

Titolo di Marchese
Il titolo ha la stessa origine di quello di Duca, di carica della provincia di confine. Esso dal lato etimologico Mark Graf significa infatti Conte della marca, ossia della frontiera. Il titolo è in Italia di origine franca, dato che i Franchi mutarono in marchesati alcuni ducati e contee. In Italia i primi marchesati furono quelli del Friuli e di Ivrea. In Germania il corrispondente titolo di Margravio equivaleva a quello di Principe Sovrano, e in Francia il titolo di Marchese fu abolito da Napoleone.
In passato alcuni consideravano questo titolo come inferiore a quello di Conte perché nato successivamente ad esso, mentre altri lo consideravano pari a quello di Duca. Dei Marchesi cosiddetti di baldacchino è detto appresso (v. n. 45 nota).

Titolo di Conte – Conte Palatino – Conte Lateranense (In nota: il Contestabile, l’Ordine Pontificio di S. Giovanni Laterano detto dei Cavalieri Pii)
Nel tempo dell’impero romano erano chiamati Comites Concistoriani alcuni dignitari della corte, e con tal nome fin dai primi tempi furono appellati coloro che seguivano i Re in pace ed in guerra ed esercitavano funzioni di corte. Essi vennero adibiti poi in generale al governo delle città nei ducati. Il titolo di Conte secondo alcuni fu ritenuto eguale a quello di Duca, opinione questa che non ebbe largo seguito. Secondo altri la parola Conte deriva dalla voce Counts o Countees dei Normanni, che così chiamavano una classe dei loro feudatari.
Questo titolo è stato assunto sempre da membri ultrogeniti di case regnanti, come il Conte d’Artois, il Conte di Caserta, il Conte di Torino.
Fra i Comites42 che esercitavano funzioni di corte, fin dal secolo VI e per la prima volta in Francia, assume importanza il Conte Palatino (comes palatii), avente funzioni giudiziarie nello esercizio della giustizia, fatto personalmente dal Re nelle cause a lui sottoposte dai feudatari. Conte Palatino fu anche in Italia la carica di vicario imperiale o reale per governare una provincia.
Al tramonto della feudalità questo titolo di Conte Palatino rimase svalutato perché privo di substrato territoriale, e perché largamente distribuito dagli imperatori mediante somme di denaro, o dai papi o suoi legati, anche per mezzo della sua attribuzione a coloro che facevano parte di speciali ordini equestri pontifici o per concessione a favore di un determinato collegio (Milizia Aurata, Santo Sepolcro, v. n. 21 nota)43 . Questo titolo più curiale che nobiliare era quasi sempre personale e generalmente non conferiva nobiltà ereditaria; tuttavia invalse l’uso di trasmetterlo alla discendenza, donde la grandissima quantità di Conti.
Il titolo di Conte Palatino è pure diverso dal titolo comitale, tanto nella qualificazione come nelle insegne (Mass. 23, Cons. Araldica v. n. 65). Con successiva massima 12 dicembre 1924 venne stabilito che nell’Elenco Ufficiale della nobiltà (v. n. 110) sarebbe stata mantenuta la dicitura di Conte Palatino, ma sarebbe stato ammesso per gli insigniti di tale titolo pei trattamenti uguali l’uso promiscuo delle due intitolazioni di Conte Palatino o di Conte. Nell’Elenco Ufficiale del 1933 è fatto anche risultare se il titolo sia di concessione imperiale.
I Conti Palatini pontifici sono chiamati Lateranensi, per distinguerli da quelli del Sacro Romano Impero. Questi presentano la caratteristica che sono stati conferiti, secondo l’atto di concessione, non soltanto al primogenito maschio ma a tutti i membri della famiglia, maschi e femmine che fossero, cui il titolo è stato concesso44 .
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42 – Ai comites che esercitavano funzioni di corte si ricollega la carica di contestabile o connestabile, esistente presso l’imperatore Valente che l’accordò a suo fratello Valentiniano, e in quasi tutti gli stati antichi d’Europa, con uffici che cambiavano nelle varie epoche e presso le varie corti. Deriva il nome dal latino comes stabuli, conte della stalla o grande scudiero, tale essendo in origine il suo ufficio. In Francia tale carica, che fu soppressa da Luigi XIII, giunse a grande potenza e comandava nell’armata a tutti i generali compresi i principi del sangue. Vi furono contestabili nel Regno di Napoli ed in Toscana. Gran Contestabile era la carica di origine normanna che importava il comando dell’esercito in guerra nei reami di Sicilia e di Puglia. Questa carica, conservata dagli Angioini e dagli Aragonesi, fu abolita dagli Spagnuoli.

43 – Anche l’ordine pontificio di S. Giovanni Laterano, detto anche dei Cavalieri Pii Partecipanti dal suo fondatore Pio IV, istituito nel 1560 conferiva ai suoi membri il titolo di Comes Sacri Palalii et Aulae Lateranensis, ed il loro nome veniva registrato nell’albo delle famiglie nobili dello stato. Le distinzioni conferite da Pio IV furono a poco a poco annullate dai Pontefici successori finché l’ordine sparve nel 1700.

44 – Il nuovo ordinamento regola diversamente i tre titoli comitali anzidetti come in appresso sarà detto (v. n. 78).

Titolo di Visconte
Era il Vice Comes che adempiva funzioni di conte. Questo titolo d’importazione inglese e francese non era stato conservato nel regolamento del 1896.

Titolo di Barone Barone (In nota: I Baroni di franco allodio)
Si è discusso se la parola Barone sia un titolo nobiliare a sé stante. Certo è che essa è stata adoperata nel medio evo in duplice senso: in quello di feudatario in generale45 , e nel regno di Napoli come una categoria, a sé stante di feudatari, che avevano alle loro dipendenze altri suffeudatari e il titolo di Barone. Anche in Sicilia la parola Barone fu usata per indicare l’intero corpo dei feudatari del regno in generale, qualunque fosse il titolo di chi fossero singolarmente insigniti, come diede il primo esempio l’Imperatore Federico nelle sue costituzioni, ma fu adoperata più particolarmente ad indicare il possessore di uno o più feudi contenenti uno o più castelli, uno dei quali nella concessione ebbe annesso il titolo di baronia. Tutti i possessori di feudo portavano il titolo di Barone, e nelle diverse investiture dello stesso feudo il titolare era indifferentemente qualificato Barone o Signore. In Sicilia si trovano anche i titoli di Barone di franco allodio dai cui diplomi si rileva che l’insignito era chiamato col titolo di Spettabile e di Barone46 . Sui feudi di franco allodio la Consulta Araldica adottò le seguenti massime. Quantunque in Sicilia i feudi di franco allodio non godessero le stesse prerogative e preminenze dei feudi giurisdizionali, pure attualmente i titoli annessi ai già feudi allodiali possono essere riconosciuti (art. 98). In Sicilia l’appellazione di Spettabile non costituì un titolo specifico di nobiltà (art. 95). Nell’Italia settentrionale la parola Barone fu usata come titolo.
Si disputa anche sulla etimologia della parola, ed è forse da ritenere che essa derivi da bar, che in alemanno significa uomo, o da baron usata dalle leggi saliche come uomo nel senso feudale, cioè vassallo, ossia feudatario in rapporto al signore.
Fu anche rilevato che in occasione della legge 2 agosto 1806 che abolì la feudalità nel napoletano furono dichiarati mantenuti i titoli di Principe, Duca, Conte e Marchese, per cui si volle dedurre che Barone non fosse titolo nobiliare, ma il fatto che furono creati Baroni successivamente al 1806 e da Murat e dai Borboni conferma l’opinione accolta dalla giurisprudenza che l’enumerazione della legge abolitiva fosse non tassativa, ma esemplificativa. Il nuovo ordinamento ha mantenuto il titolo di Barone.
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45 – Per il fatto che nelle antiche costituzioni napoletane la designazione di Barone era usata non come titolo specifico ma come qualifica che comprendeva tanto il Principe che il Duca, quanto il possessore semplice di un feudo nobile che si chiamava Barone, senza titolo, la Consulta Araldica non credette in passato di riconoscere la qualifica di Barone ad antichi possessori di feudi, consentì invece loro di chiamarsi Nobile col predicato del feudo ultimo posseduto se il possesso si riferisse ad un feudo nobile in capite con giurisdizione effettiva ed intestazione nei cedolari e il possesso fosse durato non meno di 200 anni (Mass. 74). Ai Baroni romani che si trovavano nelle stesse condizioni di quelli napoletani la Consulta medesima concesse invece il titolo di Signore. Vedi RIVERA, L’opera della Consulta Araldica, Roma 1924, pag. 21 e seguenti.

46 – I titoli di franco allodio erano sui generis. Gli insigniti di essi godevano le autorità, le esenzioni, le immunità, le prerogative, le preminenze, le libertà, le franchigie, ecc., come gli altri feudatari del regno, ma erano esenti dall’obbligo del servizio militare, di prendere investitura (v. n. 70), di soddisfare al diritto della decima e tari, a quello dei donativi, della mezz’annata, del regio sigillo e a qualsivoglia altre regie collette imposte o da imporsi. La disponibilità e la successione in questi feudi e nei relativi titoli non era regolata né dal diritto dei Franchi, né da quello dei Longobardi, poiché, trattandosi di proprietà libera, allodiale dell’insignito, il titolato ne poteva disporre a suo piacere, o per atti tra vivi, o per disposizione di ultima volontà, e se i discendenti e i figli fossero stati molti, il titolo doveva essere usato da uno solo, non importava che questi fosse il primogenito o il terzogenito, maschio o femmina, purché fosse uno solo.

Titolo di Signore
Questo titolo fu poco usato nel campo feudale, e servì ad indicare in generale la qualifica spettante ai proprietari di terre non sottoposte alla giurisdizione feudale. Esso fu conservato nel nuovo ordinamento perché risulta attribuito a varie famiglie e non solo con l’indicazione della terra ma anche, in Sicilia, appoggiato su cariche ed altri benefici47 . Per il titolo di Signore del baronaggio romano è stato detto al n. 38.
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47 – Così abbiamo Alliata, signore di 40 onze sopra i porti e le marine, Paternò della linea di Manganelli signore dell’Ufficio di Maestro notaro della Curia Capitaniale di Catania, Colonna signore di 40 onze sulla dogana di Messina. Vedi Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana, Roma 1934.

Titolo di Patrizio e Nobile Civico
È stato detto nel patriziato presso i Romani, del successivo suo svolgimento ed è stato fatto cenno della speciale legislazione sul patriziato genovese, veneto e romano (v. n. 5, 18, 19 B, E, 20 I e L).
Qui riassumendo può dirsi che la voce Patrizia serviva ad indicare dal secolo XV in poi, per effetto dell’autonomia che godevano i vari Comuni, la classe dei cittadini più elevati che avevano la amministrazione economica della propria città ed, in quelle rette a repubblica, il governo di esse, e che erano iscritti in apposito registro o libro, variamente chiamato (Libro della Patrizia Nobiltà, Libro della Nobiltà, Libro della Cittadinanza Nobile o del Patriziato, Albo dei Nobili, Libro degli Ordini della Città, Libro delle Mastre Nobili, Registri di Nobiltà, Libri d’Oro, v. n. 19, 20 e 21) che li distingueva dalle rimanenti classi del popolo, in quei paesi in cui vi era completa separazione tra la nobiltà e le altre classi della Cittadinanza. L’appellativo di Patrizio fu tenuto in così alta considerazione che, pur non essendo i Patrizi dei nobili creati dall’autorità Sovrana, fu assunto da coloro che erano nobili per altro titolo, nonostante che non fossero iscritti in nessun libro, né aggregati a ordini o ceti speciali.
Chiamavasi poi Nobile colui, la cui famiglia godeva una certa distinzione o speciali onori in premio di virtù, per lasciare onorevole segno alla posterità di meriti acquistati e delle opere compiute, per eccitare i figliuoli e discendenti del premiato a continuare sulla via della virtù e dell’onore loro tracciata.
Qualora la nobiltà fosse stata conferita, non con la concessione di un titolo specifico da parte del Sovrano, ma con la dichiarazione di essere Nobile, fatta dai Corpi Municipali non sovrani o non aventi facoltà di aggregazione o non costituenti piazze chiuse, si aveva la cosidetta Nobiltà Civile e Decurionale48 .
In certe città gli appartenenti all’ordine patrizio si chiamavano Nobili Patrizi, per distinguersi dagli altri che, pure nobili per sé, si chiamavano Patrizi, quantunque, non essendo iscritti negli speciali registri, non rappresentassero la nobiltà cittadina; in altre città esistettero contemporaneamente Patrizi e Nobili, ed in altre città infine non esistette né il patriziato, né la nobiltà civica.
Oggidì col termine generico di patriziato viene indicata tutta la categoria di persone che hanno un titolo nobiliare.
È stato sostenuto49 che l’appellativo di Patrizio, come quello di Nobile non fossero un titolo vero e specifico, ma una qualifica, perché è dato alle persone componenti una famiglia, mentre il titolo specifico non può generalmente darsi che ad una sola persona di famiglia. Inoltre non vi fu mai rilascio di diploma dichiarativo della qualità di Patrizio e di Nobile Civico, e che, se comunemente di colui che era aggregato al Patriziato o alla Nobiltà Civica di un dato luogo si diceva di aver egli il titolo di Patrizio o di Nobile, ciò era in senso traslato, dappoiché avrebbe dovuto chiamarsi aggregato al Patriziato o alla Nobiltà di quel luogo, ciò che importa semplice onorificenza ereditaria e qualità nobilitante, e non titolo.
Di tali osservazioni non ha tenuto però conto la legislazione italiana, dappoiché fin dal primo regolamento per la Consulta Araldica del 1870 (art. 21) fu ammesso il titolo di Patrizio per indicare il grado supremo di una antica nobiltà municipale.
Quale sia la differenza fra il Patriziato e la Nobiltà Civica non è possibile stabilire con esattezza, data la diversità delle legislazioni nei vari Comuni e nei tempi differenti. Una prova di ciò si ha nelle stesse disposizioni sulla Consulta Araldica del 1888, del 1896, nell’ordinamento attuale, e nei criteri non uniformi adottati dalle Commissioni Araldiche regionali nella formazione degli elenchi dei Patrizi per la iscrizione d’ufficio (vedi n. 103). Di dette Commissioni alcune hanno dato valore prevalente al principio gentilizio, stabilendo essere spettanza della famiglia il privilegio di governare anche politicamente un municipio, e di conseguenza trasmettersi alla famiglia il privilegio stesso; altre hanno considerato il privilegio gentilizio in quanto si concreta negli individui, ed hanno riconosciuta la spettanza di esso a tutti i membri maschi e femmine; altre infine hanno tenuto conto soltanto dell’esercizio attivo del privilegio e hanno ristretto la trasmissione di esso ai soli maschi. Di tal che sono risultate anomalie nelle attribuzioni del patriziato, aggravate dalle richieste avanzate dalle varie città per avere riconosciuto il patriziato, ciò che ha condotto ad una graduale restrizione nelle norme sul riconoscimento di esso50 . Dicevano infatti gli art. 34 e 37 del regolamento del 1888 sulla Consulta Araldica che il titolo di Patrizio è ammesso per le famiglie che furono iscritte nei registri dei comuni che godevano di una vera nobiltà civica o decurionale e che il titolo di Nobile è attribuito a coloro che sono in possesso della nobiltà ereditaria e non hanno altra qualificazione nobiliare o patriziale. Per il regolamento del l896 il titolo di Patrizio di una città si può riconoscere quando, secondo le passate legislazioni, si era radicato in una famiglia ed era stato considerato come un titolo specifico in uso per indicare una vera nobiltà civica o decurionale (art. 40); non si sarebbero fatte più concessioni o rinnovazioni di patriziati o di nobiltà municipali né si sarebbero iscritte nuove persone negli antichi registri; il titolo di Nobile era attribuito a coloro che erano in possesso della nobiltà ereditaria e non avevano altra qualificazione nobiliare o patriziale, alle famiglie che ne ottennero speciale concessione. L’articolo 20 dell’attuale ordinamento dice: «Il titolo di Patrizio o di Nobile di una città si può riconoscere quando consti che si era radicato nella famiglia appartenente ad un collegio, corpo o ceto civico o decurionale, che secondo le antiche legislazioni attribuiva ai suoi componenti e ai suoi rispettivi discendenti il patriziato o la nobiltà. Tale titolo spetta a legittimi discendenti per linea maschile degli ultimi iscritti all’epoca in cui cessarono di aver vigore le antiche legislazioni e non può formare oggetto di nuova iscrizione o concessione, né di rinnovazione o di passaggio ad altra famiglia.
È ammessa eccezionalmente la ulteriore iscrizione al ceto nobile della nobiltà romana (v. numero 20 L) dei fratelli e loro discendenti di ambo i sessi per linea mascolina e delle sorelle a titolo personale dei Sommi Pontefici. Fermi gli accertamenti già approvati dal R. Governo, la Consulta, su proposta delle Commissioni Araldiche Regionali, accerta la originaria esistenza degli antichi Collegi, Corpi, o Ceti civici o decurionali di patriziato o di nobiltà e le particolari norme dalle quali era regolata la iscrizione e successione dei loro componenti. Le relative deliberazioni della Consulta sono sottoposte alla approvazione del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato».
Può però in generale ritenersi che i titoli di Patrizio e di Nobile Civico siano equivalenti, e che la differenza sia determinata piuttosto dal nome diverso adoperato nelle varie città, e, più specialmente dal fatto che, mentre il Patriziato costituiva un Corpo o Collegio avente il diritto di auto decisione e di poter aggregare a sé altri membri, la Nobiltà Civica, pur costituendo un ceto separato dalla borghesia, non aveva tali potestà.
La Consulta Araldica per il riconoscimento del titolo di Patrizio ha formato una serie di massime di carattere regionale, uniformandosi al voto formulato nel Congresso Storico di Genova del 1892, per il quale non avrebbero dovuto iscriversi nel Libro d’oro della nobiltà italiana altri titoli patriziali che quelli di famiglie, le quali avevano diritto di sedere nei consigli sovrani, o compartecipi della sovranità di antichi stati italiani; o furono ascritte agli ordini maggiori che, per sovrani provvedimenti, ottennero tale titolo specifico o fecero parte di seggi decurionali o collegi municipali, che esercitarono funzioni politiche ed amministrative e lasciarono larga traccia di ricordi storici, ottenendo una speciale importanza nella tradizione e nella estimazione d’Italia. Per lo stesso voto avrebbe dovuto essere riconosciuto il titolo ereditario di Nobile alle famiglie che furono iscritte nei registri dei comuni che godevano di una vera nobiltà civica o decurionale. Pur tuttavia non si è pervenuti al concetto ancor più restrittivo, sostenuto da altri (Bonazzi), nel suddetto congresso, che il titolo di Patrizio era da ammettersi esclusivamente per le famiglie appartenenti ai già patriziati sovrani di Venezia, di Genova, di Lucca (che esercitavano diritti di sovranità in nome delle rispettive repubbliche), e alle famiglie iscritte ai registri o libri d’oro delle città che ottennero specificatamente tale titolo, o che ad una vera nobiltà civica o decurionale, ammessa nei passati tempi come titolo primordiale dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, detto di Malta, aggiunsero storica importanza e la tradizione del titolo patriziale. Il titolo di Nobile era da ammettersi invece per le famiglie iscritte ai registri o libri d’oro delle altre città, che pur avendo una vera nobiltà civica o decurionale, non avessero alcuno dei requisiti suindicati51 . Circa le norme se il titolo di Patrizio o di Nobile fossero trasmissibili ai maschi e femmine o solamente ai maschi, la Consulta aveva formulato una serie di massime regionali, in base alle quali venivano fatti i riconoscimenti anche in persona di femmine per certe regioni, ed era attribuito, alle femmine di famiglie insignite di patriziati con trasmissibilità mascolina, il titolo dei Patrizi.
Il titolo di Patrizio o di Nobile Civico sono sempre accompagnati dalla indicazione della città, alla quale la famiglia era aggregata52 .
L’ordinamento nobiliare italiano non ha tenuto conto della nobiltà legale o civile, costituente la terza classe del dispaccio di Carlo III di Napoli (25 gennaio 1756) (v. n. 21 M), né di quella nobiltà detta de iure comune che bastava nei secoli scorsi per ottenere l’aggregazione ai consigli nobili mediante la prova della posizione sociale del richiedente e degli antenati.
Per porre però fine ai larghi appetiti che erano sorti nelle borghesie di piccoli ed oscuri comuni senza storia e senza fama, di avere riconosciuti, anche quando nel secolo XIX furono chiusi da quasi tutti gli stati d’Italia i libri d’oro, propri ceti o corpi cittadini, l’art. 21 del nuovo ordinamento ha stabilito che non è ammesso il riconoscimento di antichi ceti o corpi cittadini o regionali di insigniti di titoli diversi da quelli del patriziato o della nobiltà civica o decurionale.
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48 – L’aggettivo decurionale deriva da Decurionato, che fu in molte regioni nella penisola il corpo o collegio di coloro che erano preposti al governo del Comune. Il nobile fu derivato a sua volta dall’istituto romano del Decurionato, che costituiva il consiglio Pubblico dei municipi autonomi, sciolti dall’immediata dipendenza di Roma.

49 – PADIGLIONE, Delle livree. Ricerche storico-araldiche in «Giornale Araldico Genealogico» diretto dal Di Crollalanza, 1887-88, Anno XV, pag. 133. Questo studio, che costituisce il programma dell’altro lavoro dello stesso titolo pubblicato nel 1889, è una trattazione storica sul Patriziato e la Nobiltà d’Italia.

50 – RIVERA, op. cit., pag. 15.

51 – BONAZZI F., Sul diritto delle nobiltà municipali nel Napoletano al titolo di patrizio, «Boll. Uff. Cons. Aral. », 1893, vol. II, pag. 21.

52 – In Sicilia, nonostante che le Mastre Nobili (v. n 20 N) (che non andavano confuse con quelle giurate o serrate o civili) rivestissero gli ascritti di nobiltà generosa e corrispondessero ai sedili chiusi del napoletano ed ai registri di separazione nelle altre città d’Italia, per cui gli ascritti si potevano qualificare patrizi, la Commissione Araldica Regionale nel compilare l’elenco delle iscrizioni di ufficio (v. n. 103) non tenne conto dei discendenti delle famiglie ascritte alle Mastre Nobili, e la Consulta Araldica adottò la massima 94 che in Sicilia il titolo di Patrizio non fu mai usato come titolo specifico e però non lo si riconosce. Con la massima 118 venne anche stabilito che in Sardegna non esiste alcuna vera nobiltà civica o decurionale, e con la massima 6 dicembre 1927 che non è ammissibile il riconoscimento di un patriziato nella città di Trieste.

Titolo di Cavaliere Ereditario
Il titolo di Cavaliere, oggi concesso come onorificenza degli ordini cavallereschi, mentre in passato, in base ad antiche tradizioni vigenti in alcune regioni soggette alla Spagna, come la Lombardia, la Sardegna e la Sicilia, veniva concesso come titolo nobiliare trasmissibile. Tale titolo, però, viene riconosciuto agli aventi diritto in forza di antiche concessioni, ma non è più conferito53 .
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53 – Con deliberazione della Consulta Araldica 28 gennaio 1906 venne stabilito che può attribuirsi il titolo di Cavaliere Ereditario ai Nobili e agli ultrogeniti delle famiglie titolate del Piemonte di creazione anteriore alla proclamazione del regno d’Italia. In Sicilia i Cavalieri Ereditari derivarono dai Cavalieri dell’ordine del Cingolo Militare, di cui si ha la prima traccia in un diploma del 1088. Essi erano detti anche Militi Regii o Militi Aurati, perché investiti personalmente dal Re e perché i principali oggetti del loro corredo erano d’oro o dorati. La trasmessibilità del Cavalierato era a tutti i discendenti, e talvolta a tutti i discendenti dei due sessi. Dei Militi feudatari si perdette la memoria perché con l’introduzione in Sicilia dei titoli di Marchese, Duca, Principe (v. n. 20 N), molti Militi si elevarono alla classe dei titolati, ed i soli Militi che sopravvissero furono gli ultrogeniti dei titolati e feudatari, ancorché non si dedicassero più alle armi. É stata lanciata in tempi più recenti la proposta per l’ammissione del riconoscimento del Cavalierato Ereditario ai rappresentanti attuali in linea retta dei Militi regii, come è stato fatto per il Piemonte. In Sardegna per il R. Editto 24 giugno 1823 si accordava il diploma di Cavalierato e Nobiltà a coloro che fondavano in uno dei due Collegi dei Nobili dell’isola due piazze perpetue. Vedi LODDO CANEPA, Le prove nobiliari nel Regno di Sardegna in Ad A. Luzio, Gli Archivi di Stato, vol. II, pag. 123, Firenze 1933.

Titolo di Nobile
L’art. 5 del nuovo ordinamento contempla il titolo di Nobile in significato doppio: o come titolo specifico attribuito a persona che ne è investita, o come titolo generico comune agli insigniti di ogni altro titolo nobiliare.
Il regolamento del 1896 all’art. 42 stabiliva che il titolo in questione era attribuito:
a) a coloro che sono in possesso della nobiltà ereditaria e non hanno altra qualificazione nobiliare o patriziale;
b) alle famiglie che ne ottennero speciale concessione;
c) agli ultrogeniti delle famiglie titolate, con l’aggiunta del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei ». Quando i titoli del primogenito sono parecchi, agli altri ultrogeniti non si attribuisce la qualificazione generica che di un solo titolo o predicato seguendo le speciali tradizioni locali o familiari.
Più complete ad ogni modo sono le disposizioni del nuovo ordinamento, dato che l’articolo 5 va integrato dagli articoli 25 e 57 che stabiliscono che i discendenti di ambo i sessi per linea retta maschile dell’intestatario, all’epoca della abolizione della feudalità, di un feudo nobile con piena giurisdizione, non decorato da titolo, possono ottenere il riconoscimento del titolo di Nobile e del predicato ex feudale da aggiungere al cognome preceduto dal segnacaso «di» (art. 25). Agli ultrogeniti delle famiglie insignite di titoli primogeniali è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei». Quando i titoli o predicati primogeniali sono parecchi, gli ultrogeniti aggiungono dopo il segnacaso « dei » l’appellativo di quel titolo o predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia, salva diversa tradizione familiare, da riconoscersi dalla Consulta (art. 57).
Questi principi derivano dal fatto storico, come è stato accennato sopra, che potevano esservi feudi non titolati, e che il titolo nella generalità delle leggi feudali, era connesso nei primi tempi al feudo titolato, e siccome questo non si divideva fra i figli del concessionario, ma si devolveva al maschio primogenito, così il titolo veniva attribuito solo a chi succedeva nel feudo54 .
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54 – In Sardegna oltre quanto è stato detto (v. n. 19 C e 41) nella prima metà del XVIII secolo furono introdotte le concessioni di diplomi di Cavalierato e di Nobiltà dal Governo Sabaudo per contributi notevoli alla costruzione di ponti e tronchi stradali. Con l’Editto 3 dicembre 1806 venne accordato di chiedere la Nobiltà mediante la prova (che si otteneva con sopraluogo) di aver piantato o innestato almeno 4000 olivi. Vedi Loddo, op. cit.

Titolo di Città
Costituisce anche titolo, quello di Città. Per l’art. 40 dell’ordinamento, corrispondente al 15 del regolamento del 1896, può esser concesso il titolo di Città a comuni insigni per ricordo o monumenti storici, che abbiano convenientemente provveduto ad ogni pubblico servizio ed in particolar modo all’assistenza, istruzione e beneficenza e che abbiano una popolazione agglomerata nel capoluogo non minore di 10 mila abitanti.

Il predicato
Per predicato s’intende l’indicazione del feudo su cui è appoggiato un titolo nobiliare portato da un individuo o da una famiglia, e tale predicato è di spettanza di tutta l’agnazione, anche se il titolo feudale sia di spettanza soltanto del primogenito55 .
A volte il predicato serve a distinguere i vari rami di una stessa famiglia, e l’unione del predicato principale di una famiglia col cognome costituisce quello che chiamasi nome d’uso della famiglia stessa.
In certe regioni, come ad esempio la Sicilia, il predicato, come è stato detto a proposito del titolo di signore, anziché sul feudo si poggiava a volte su uffici che venivano infeudati. Inoltre non tutti i titoli nobiliari hanno un predicato, essendovi titoli senza predicato, come quelli concessi dal Sacro Romano Impero, dagli Estensi, dai Gonzaga, dai Farnese e di solito dalla Santa Sede56 , che sono appoggiati al cognome soltanto. L’art. 36 del nuovo ordinamento stabilisce che in generale, e salva la Reale Prerogativa del motu proprio, i titoli di nuova concessione non comportano l’aggiunzione di predicati e debbono essere esclusi specialmente i nomi di città e di comune e quelli di antichi feudi.
Le concessioni di predicati onorifici sono riservate, soggiunge l’articolo, in via eccezionale, per rimunerare coloro che con servizi eminenti si siano resi benemeriti della patria.
Così troviamo che i predicati di regioni o di città sono stati attribuiti dal Sovrano a membri del sangue: Duca delle Puglie, degli Abruzzi. Conte di Torino, Duca di Bergamo, di Spoleto, ed eccezionalmente ad estranei, come Duca di Gaeta (v. n. 34).
Per gli altri benemeriti della patria il predicato è stato poggiato su località non abitate, come Principe di Montenevoso, Marchese del Sabotino, Conte di Val Cismon.
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55 – L’elenco ufficiale della nobiltà italiana, Roma 1934, contiene in fine un dizionario dei predicati. – V. anche DE VITIIS, Dizionario dei predicati della nobiltà italiana, Napoli 1903.

56 – Per l’art. 6 del R. D. 10-7-1930, n. 974, è, ammessa l’autorizzazione all’uso nel Regno di titoli nobiliari pontifici appoggiati a predicati del territorio della Città del Vaticano, o ad altri purché puramente onorifici (v. n. 51, 52).

Qualifiche e trattamenti (In nota: I Marchesini baldacchino, il Sovrano Ordine Militare di Malta, i quarti di nobiltà)
Il nuovo ordinamento all’art. 50 stabilisce che ai titoli nobiliari non sono attribuite qualifiche o trattamenti senza speciale concessione del Re, e i riconoscimenti già ottenuti sono privi di effetto.
Si distinguono le qualifiche dai trattamenti57 .
Sono qualifiche le espressioni d’onore connesse al godimento di un titolo nobiliare o di una alta carica. Le qualifiche possono essere adoperate da coloro che ne sono insigniti.
Sono da considerarsi qualifiche, in base all’art. 52 dell’ordinamento, modificato dal R. D. 14 febbraio 1930, n. 101, quelle di «Don» e di «Donna» premesse al nome di battesimo, nonché quelle di Nobil Uomo e di Nobil Donna, queste due ultime mantenute ai Patrizi Veneti.
La qualifica di Donna è attribuita alle consorti dei personaggi compresi nelle categorie prima e seconda dell’ordine delle precedenze a corte e nelle funzioni pubbliche, approvato con R. D. 16 dicembre 1927, n. 2210, integrato dal R. D. 28-11-1929, n. 2029, e modificato coi RR. DD. 18 gennaio 1929, n. 14, 22 dicembre 1930, n. 1757, 18 ottobre 1934, n. 1730.
Appartengono alla 1a categoria: il Capo del Governo Primo Ministro Segretario di stato, i Cavalieri dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata; alla 2a categoria: i Presidenti del Senato del Regno e della Camera dei deputati, i Ministri Segretari di stato, il Segretario del P. N. F., i Sottosegretari di stato, i Marescialli d’Italia, il Grande Ammiraglio, il Presidente della Reale Accademia d’Italia, i Ministri di stato, il Ministro della casa di S. M. il Re, il Prefetto di palazzo, il Primo Aiutante di campo di S. M. il Re, il Primo Segretario di S. M. il Re pel Gran Magistero degli ordini dei SS. Maurizio e Lazzaro Cancelliere della Corona d’Italia, il Capo di Stato Maggiore Generale.
Le qualifiche di Don e di Donna sono state mantenute:
a) alle famiglie che ne abbiano avuto speciale concessione;
b) alle famiglie insignite di titoli di Principe e di Duca ed alle famiglie Marchionali romane, cosidette di baldacchino58 ;
c) alle antiche famiglie nobili lombarde che le ebbero già riconosciute all’epoca della revisione nobiliare ordinata dall’Imperatrice Maria Teresa (v. n. 19 D);
d) alle famiglie sarde decorate simultaneamente del Cavalierato Ereditario e della Nobiltà (v. n. 19 C, 41, 42).
Le suddette qualifiche si acquistano dalle mogli di coloro che vi hanno diritto e si conservano durante lo stato vedovile. Si perdono dalle donne nubili per effetto del matrimonio.
Sono trattamenti d’onore, aventi una certa affinità con le qualifiche, i titoli di Maestà riservato alle sole persone del Re e della Regina, di Altezza Reale attribuito al Principe Ereditario, alla Principessa sua moglie, agli altri figli e alle figlie del Re, ai figli e alle figlie del Principe Reale Ereditario.
Al Principe della Reale Casa che sia stato Reggente del regno spetta a vita il trattamento di Altezza Reale.
Ai nepoti del Re, figli di Principe fratello ed ai figli e discendenti dai nepoti del Re e del Principe Reale Ereditario di ambo i sessi è dato il trattamento di Altezza Serenissima. Alle consorti dei Principi della Reale Famiglia è dato il trattamento del Principe marito (art. 1 a 9 R. D. 1 gennaio 1890).
È trattamento d’onore quello «Nostri Cugini» del Re attribuito ai Cavalieri dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata, quello di Altezza Eminentissima riconosciuta in Italia dall’art. 51 dell’ordinamento Nobiliare al Gran Maestro del Sovrano Ordine Militare di Malta59 , di Eccellenza riconosciuto dal R.D. 28-11-1929, n. 2029, ai Balì di giustizia dell’ordine predetto per la lingua d’Italia, e quello di Eccellenza attribuito ai personaggi compresi nelle prime quattro categorie dell’ordine delle precedenze a corte, che rivestono la dignità di grandi ufficiali dello stato, ed indicati nel R. D. 22-12-1930, n. 1757, nonché alle consorti del Capo del Governo e dei Cavalieri dell’Ordine della SS. Annunziata.
Le prime due categorie sono state sopra specificate. Alla 3a categoria appartengono: il Primo Presidente della Corte di Cassazione, il Presidente del Consiglio di Stato, il Procuratore generale della Corte di Cassazione, il Presidente della Corte dei Conti, il Presidente del Tribunale speciale per la difesa dello stato, l’Avvocato generale dello stato, gli Ambasciatori di S. M. il Re, i Governatori delle Colonie, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il Capo di Stato Maggiore della R. Marina, il Capo di Stato Maggiore della Aeronautica, il Comandante generale della M. V. S. N., i Generali di armata, gli Ammiragli di armata, i Generali comandanti designati di armata, gli Ammiragli designati di armata, il Capo di Stato Maggiore della M. V. S. N., il Governatore di Roma. Alla 4a categoria appartengono: i Vice Presidenti del Senato del Regno, i Vice Presidenti della Camera dei Deputati, i Vice Presidenti della Reale Accademia d’Italia, il Presidente del Consiglio Superiore della marina, il Capo della polizia, i Generali di Corpo d’armata, gli Ammiragli di squadra e gradi corrispondenti della R. Marina, i Generali di squadra aerea, i Comandanti di zona aerea territoriale, i Prefetti in sede, i Primi Presidenti di Corte d’appello, i Procuratori generali di Corte d’appello, il Presidente del tribunale supremo militare, l’Avvocato generale presso il tribunale supremo militare, il Procuratore generale presso il Tribunale speciale per la difesa dello stato, i Presidenti di sezione del Consiglio di Stato, i Presidenti di sezione della Corte di cassazione e gradi equiparati, i Presidenti di sezione della Corte dei conti, il Vice Avvocato generale dello Stato, gli Accademici d’Italia.
Il trattamento di Altezza, secondo la tradizione italiana non suole esser fatto a persone private, anche se insignite di alte dignità, perché serve a contraddistinguere il potere sovrano al quale è inerente ed esclusivo. Risulta riconosciuto pur tuttavia tale trattamento a famiglie italiane, fregiate, per concessione del Sacro Romano Impero o semplicemente dell’Impero Austro-ungarico, del titolo di Principe al quale va annesso per solito anche il trattamento di durchlaucht. Questo titolo di Principe con l’annesso trattamento spetta anche ad Arcivescovi e Vescovi di sedi già sottoposte all’Austria, e tornate a far parte del Regno d’Italia. Sennonché come ha rilevato il Rivera60 la parola durchlaucht, sia in Austria che in Germania, significa, tradotta letteralmente, eminente, illustre, e corrisponde, non ad Altezza, ma al nostro illustrissimo, nell’uso che di esso si faceva un tempo in Italia assai moderato e che era dato a grandi feudatari e ai Vescovi. Essa ricorda la antica qualifica di Magnifico61 , quella di Signoria.
Alla nostra parola Altezza corrisponde in modo preciso il tedesco hoheit, sia letteralmente che nell’uso generale e aulico.
Occorre infine far cenno della differenza che si riscontra nell’ordinamento e nell’uso comune fra distinzioni nobiliari ed attributi nobiliari. Sono distinzioni, come risulta dall’art. 4 dell’ordinamento: i titoli, i predicati, le qualifiche, gli stemmi. Si intendono per attributi, come rilevasi dagli art. 126 e 127 dell’ordinamento, i predicati, le qualifiche e gli stemmi in contrapposto ai titoli62 ).
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57 – SABINI, op. cit., pag. 70.

58 – Sono famiglie Marchionali romane di baldacchino quelle Costaguti, Patrizi-Naro, Theodoli, feudatarie del Patrimonio di S. Pietro che godono il privilegio riservato dalla S. Sede ai principi, cardinali ed ambasciatori di avere in una sala del loro palazzo una specie di baldacchino di velluto rosso, sotto il quale è esposto il ritratto del Pontefice regnante e trovasi una sedia con i braccioli volti verso il muro, per significare che essa è riservata soltanto al Pontefice quando si degnasse di visitare quella casa. Anche la famiglia comitale Soderini gode di questo privilegio dei Marchesi di baldacchino, Gregorio XVI nel 1842 nel creare Marchese il conte Riccini gli concesse il privilegio dei Marchesi di baldacchino. Questa usanza dei Marchesi di baldacchino fu presa in Roma dopo il secolo XVII per imitare il costume dei Grandi di Spagna, e si è conservata, fino ai nostri tempi. I Marchesi di baldacchino presero il don ad imitazione dei Principi, e timbrarono il loro scudo con la corona a 5 fioroni alternati da 9 punte perlate. Vedi in proposito ANTONELLI, I Marchesi di baldacchino, in «Riv. Araldica», 1903, pag. 75.

59 – Il Sovrano Ordine Militare di S. Giovanni di Gerusalemme detto di Malta è indipendente e non più pontificio, dopo che il Papa Leone XIII con breve 28 marzo 1879 ristabilì il grado di Gran Maestro dell’ordine stesso, rimasto vacante dal 1805. Esso è dal Governo Italiano riconosciuto come ordine italiano, dato che taluni suoi membri e la rappresentanza del Gran Magistero, per effetto del R. D. 28-11-1929, hanno avuto assegnato un apposito posto nell’ordine delle precedenze a corte e nelle funzioni pubbliche. Per l’uso delle insegne dell’ordine nel regno non occorre alcuna autorizzazione. Circa la sua organizzazione, in base agli ultimi statuti del 12 aprile 1921, i membri dell’ordine si dividono in due categorie: membri professi o regolari e membri non professi. Appartengono alla la categoria: il Gran Maestro, i Balì Gran Croce di giustizia, i Balì professi, i Commendatori professi, i Cappellani conventuali, i Cappellani di obbedienza magistrale, i Cappellani, i Donati di giustizia (il nome di Donato deriva dal fatto che coloro che richiedevano di essere ammessi all’ordine dovevano, in passato, aver presentato, cioè donato, una parte dei propri beni alla religione). Appartengono alla 2a categoria i Balì Gran Croce di onore e devozione, le Dame decorate della croce di onore e devozione, i Gran Croce magistrali, i Cavalieri magistrali, gli Ecclesiastici decorati della croce d’oro pro piis meriti, i Donati di devozione, 1a, 2a e 3a classe. I membri professi devono aver pronunziato i voti solenni, i non professi non pronunziano voti. I Cavalieri di giustizia e quelli di onore e devozione devono possedere determinati requisiti di nobiltà generosa, che per la giurisdizione, detta Lingua d’Italia, sono quattro quarti di nobiltà nelle famiglie del padre, della madre, dell’avo paterno e materno, per non meno di duecento anni e quindi per non meno di 5 generazioni. Dell’anzidetta nobiltà bisogna dare la prova. La croce di Cavaliere magistrale è conferita dal Gran Maestro, di regola a persone nobili, ma mancanti dell’intera nobiltà richiesta per i cavalieri di onore e devozione, o a persone di elevata posizione sociale per meriti particolari verso l’ordine. La Gran croce magistrale è concessa raramente, quando questi meriti siano in grado assai più spiccato. La croce d’oro pro piis meritis è concessa ai sacerdoti benemeriti dell’ordine. I Donati di devozione nelle tre classi devono aver prestato servizi più o meno considerevoli all’ordine, devono appartenere a famiglie distinte e non hanno altro obbligo che quello di associarsi alle opere umanitarie dell’ordine. Le Dame congiunte in matrimonio con Cavalieri di onore e devozione possono aver concessa la gran croce o la croce dal Gran Maestro di motu proprio o su proposta per motivi speciali o per servizi eccezionali prestati nell’ordine dalla signora o dal marito. Nessuno, eccetto le signore, può essere ammesso nell’ordine senza farne domanda per iscritto. Le decorazioni dell’ordine non possono usarsi per diritto ereditario. L’ordine per la Lingua d’Italia è diviso nei tre grandi priorati di Roma, di Lombardia e Venezia, e delle Due Sicilie. Lo studio più completo sull’ordine è quello del conte BERTINI FRASSONI, Il Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme detto di Malta, Roma 1929, il quale contiene lo spoglio dei processi delle prove di nobiltà dei Cavalieri di giustizia e di quelli di onore e devozione della Lingua d’Italia. – Vedi anche ROSSI, Malta (ordine di) in «Enciclopedia Italiana», 1934. La frase anzicennata quarto di nobiltà serve ad indicare uno dei 4 cognomi dei gradi più stretti di parentela di una persona, quello cioè del padre; quello della madre, quello della madre del padre (cioè ava paterna), quello della madre della madre (cioè ava materna). Essa deriva dal costume che avevasi di porre ai 4 angoli della pietà sepolcrale o separatamente le armi di ciascuna delle 4 famiglie che rappresentavano quella del padre, della madre, dell’ava paterna e dell’ava materna, oppure di porre tutte le 4 armi riunite insieme in uno scudo in cima alla pietra tombale. La prova della nobiltà dei 4/4 è costituita da quella nobiltà che dal petente attraverso il padre e la madre risale fino all’avo e all’ava paterni, all’avo e all’ava materni inclusi, che dovevano essere tutti nobili. La prova della nobiltà di 8/4 è costituita da quella nobiltà che risale dal petente agli 8 bisavi e bisave inclusi dal lato paterno e materno insieme che dovevano essere tutti nobili. La prova di 16/4 di nobiltà è costituita da quella nobiltà che risale dal potente ai 16 trisavi e trisave inclusi dal lato paterno e materno insieme che dovevano essere tutti nobili.

60 – RIVERA, L’opera della Consulta cit., pag. 75.

61 – DEL BUE, op. cit. Del predicato di «magnifico» o di «molto magnifico».

62 – SABINI, L’ordinamento cit., pag. 72.

Manifestazioni della R. Prerogativa – Provvedimenti Sovrani di grazia
Gli art. 6 a 11 dell’ordinamento nobiliare stabiliscono le forme che assumono in modo concreto le manifestazioni della Sovrana Prerogativa.
Anzitutto i provvedimenti nobiliari si distinguono in provvedimenti sovrani di grazia e provvedimenti governativi di giustizia (art. 6). Sono provvedimenti di grazia quelli emanati dal Sovrano nell’esercizio della sua facoltà derivanti dall’art. 79 dello statuto. Detti provvedimenti possono essere di motu proprio o su proposta del Capo del Governo. Quelli di motu proprio agli effetti fiscali danno diritto alla riduzione ad un terzo delle tasse erariali 63.
Per l’emanazione dei provvedimenti di Sovrano motu proprio che riguardino predicati o stemmi è prescritto che sia previamente sentito il Commissario del Re presso la Consulta Araldica, che rappresenta il consulente tecnico, indipendente ed obbiettivo della Corona (v. n. 102). Al Commissario devono essere prontamente comunicati anche gli altri provvedimenti di sovrano motu proprio (art. 7). I provvedimenti di grazia sono distinti in concessione, rinnovazione, riconoscimento, autorizzazione, assenso (art. 10).
I provvedimenti di grazia, sia di motu proprio del Sovrano che su proposta del Capo del Governo, sono emanati mediante decreto reale, controfirmato dal Capo del Governo, per il principio della irresponsabilità sovrana. Per gli art. 53 e 125 dell’ordinamento dello stato civile 15 dicembre 1865 n. 2602 i decreti di concessione di titoli di nobiltà e di predicati debbono essere annotati in margine all’atto di nascita e trascritti64 .
Alla persona o ente in favore del quale è stato emanato il decreto reale in materia nobiliare o araldica, dopo che essa abbia pagato le relative tasse, viene spedito un diploma sotto forma di lettere patenti sottoscritte dal Re e dal Capo del Governo, a titolo di documento della avvenuta concessione65 . Dei precedenti storici circa il rilascio del diploma è fatta parola al n. 70. I provvedimenti di grazia hanno il carattere di atti discrezionali del Sovrano, e nel caso che da parte Sua siano negati non si può contro la denegazione esperire alcun ricorso. Nel caso invece di provvedimenti di grazia favorevoli da parte del Sovrano, il terzo, che si ritiene leso in un suo diritto dal provvedimento adottato, può ricorrere avanti l’autorità giudiziaria, come meglio è detto al n. 120. Per tutti i provvedimenti sia di grazia che di giustizia, ad eccezione di quelli emanati di motu-proprio del Re, è necessario il preventivo parere della Consulta o della Giunta Araldica (art. 7, vedi n. 97, 98, 99).
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63 – R. D. 30.12.1923, n. 3279, tab. A n. 13.

64 – L’indicazione dei titoli nobiliari negli atti dello stato civile rientra nelle indicazioni permesse dal legislatore, qualora i titoli risultino iscritti nei Libri Araldici (v. n. 105), ma non si può colla procedura della rettificazione aggiungersi in un atto di nascita già compilato un titolo nobiliare omesso (C. App. Firenze 7 gennaio 1931; PERUZZI. Riv. Amm. 1931, 506.

65 – Cass. Regno, 17 luglio 1931, Bonanno contro Federico in Settim. cass., 1931, 1889. La restituzione alla Consulta Araldica del diploma di nobiltà non costituisce revoca, essendo necessario che la Consulta emetta altro decreto che dia alla avvenuta restituzione il significato di rinuncia.

La concessione
La concessione è l’atto col quale il Sovrano di motu-proprio o su proposta del Capo del Governo, dà origine ad un nuovo titolo, predicato, qualifica o stemma nobiliare. La concessione costituisce così la forma originaria d’acquisto delle distinzioni nobiliari che vengono create ex novo.

La rinnovazione
La rinnovazione è l’atto col quale il Sovrano fa rivivere un titolo o un predicato estintosi per mancanza di chiamati alla successione. Qui abbiamo che il titolo o predicato esistevano, ma si erano estinti per mancanza di persone che potevano essere chiamate alla successione, e quindi titolo e predicato erano tornati alla Corona dalla quale erano stati emanati. Il Sovrano con la rinnovazione li concede a persona che non poteva succedere alla famiglia, che ne aveva il godimento, ma che con la famiglia estinta, ai fini della successione nobiliare, aveva legami di parentela ed identità di cognome. Qui non si ha la creazione ex novo del titolo o del predicato, ma questi vengono fatti rivivere dal Sovrano in altre persone che prima non potevano succedere.

Il riconoscimento
Il riconoscimento è l’atto col quale il Sovrano concede sanatoria per qualche lacuna o deficienza che si riscontri nella prova di antiche concessioni, o nel passaggio di titoli, predicati o stemmi nobiliari (v. n. 114, 116). L’intervento sovrano si giustifica col fatto che il possessore di queste distinzioni non può legittimamente farne uso, non potendo offrire la prova legale del trapasso in lui o in antenati delle distinzioni stesse, che avrebbero dovuto ritornare alla Corona, la quale mediante il riconoscimento le fa invece rivivere legittimamente.
Questo riconoscimento viene chiamato attributivo66 per distinguerlo da quello di giustizia, di ugual nome, che è effettuato con provvedimento del Capo del Governo (v. n. 54). Nel regolamento del 1896 all’art. 26 si chiamava riconoscimento l’atto governativo col quale era dichiarato legale un titolo, predicato o stemma. Il riconoscimento si eseguiva con atto sovrano quando si doveva sanare qualche parte difettosa nella dimostrazione del legittimo possesso e quando il possesso si fondava sull’uso pubblico e pacifico di un titolo o predicato non feudale per quattro generazioni anteriori a quella del richiedente, e con atto governativo se l’uso del titolo o predicato non feudale risaliva ad oltre quattro generazioni anteriori a quella del chiedente. Di quest’ultimo punto si parla al n. 71.
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66 – SABINI, L’ordin. cit., pag. 75.

L’autorizzazione. I titoli della Repubblica di S. Marino.
L’autorizzazione, secondo gli articoli 1 lett. c) e 10 lett. d) dell’ordinamento è l’atto col quale il Re consente che un cittadino italiano accetti un titolo, predicato od altro attributo nobiliare da una potenza estera o usi titoli onorifici; senza qualifiche o predicati territoriali, concessi dai Sommi Pontefici dopo il 20 settembre 1870. Dei titoli pontifici il cui trattamento ha subito modifiche per effetto del R. D. 10 luglio 1930, n. 974, si parla ai nn. 51 e 52. Nel regolamento del 1896 l’autorizzazione era chiamata conferma, mentre l’art. 80 dello statuto parla di autorizzazione sovrana. Il ripristinare l’antica formula di autorizzazione sembra cosa esatta, dappoiché serve a rafforzare il concetto che il Sovrano dello stato di cui il cittadino fa parte è solo la fonte degli onori, di cui il cittadino stesso può godere, e che il conferimento di titoli ed altri attributi nobiliari stranieri non è altro che una forma di designazione al Sovrano nazionale di benemerenze acquistate dal designato. La richiesta di autorizzazione può o non essere accolta, e riveste il carattere della discrezionalità da parte del Sovrano, il quale nel concederla o non tiene conto di circostanze varie, sia di natura personale del designato circa le di lui benemerenze, qualità morali, posizione sociale, sia politiche nei riguardi dello stato estero che ha concesso la distinzione, sia nei riguardi delle disposizioni nobiliari vigenti nel regno. Contro la negata autorizzazione non può esperirsi ricorso alla autorità giudiziaria.
Per espressa disposizione (art. 28) non è autorizzata l’accettazione di titoli nobiliari concessi dalla Repubblica di S. Marino dopo il 1860. Per essi ad un periodo di quasi incondizionato riconoscimento del titolo di Marchese nel 1878, del Patriziato nel 1886, come dice il Gorino67 è subentrata la prescrizione del diniego assoluto, nonostante che le patenti di S. Marino siano ammesse dall’Ordine di Malta come prova di nobiltà generosa per ottenere la croce di giustizia. Tale prescrizione determinata forse da ragioni contingenti di convenienza pratica, in conseguenza della credenza formatasi che la Repubblica fosse larga nelle concessioni, veniva a vulnerare la sovranità dello stato sammarinese, riconosciuto dalla stessa Italia, per cui una più esatta valutazione del diritto araldico di S. Marino dovette prevalere, dato che dal Bollettino ufficiale della Consulta Araldica si rileva essere stati effettuati fin dal 1930 riconoscimenti, con provvedimento di giustizia mediante decreto del Capo del Governo, di titoli di concessioni relativamente recente.
Così i titoli nobiliari di S. Marino vengono ad avere lo stesso trattamento di quello concesso ai titoli degli stati italiani preunitari.
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67 – GORINO, op. cit., pag. 61, 62. I titoli concessi dalla Repubblica erano di Duca, Marchese, Conte, Barone, con predicato o senza, Patrizio ereditario o personale. La concessione del patriziato personale fu effettivamente larga. Con senato-consulto dell’11 luglio 1907 venne stabilito che da quel giorno non sarebbero stati più concessi né il titolo di Patrizio né quello di Barone, Conte, Marchese e Duca, salvo però i diritti già acquistati da coloro che li avessero avuti precedentemente e che ne avrebbero seguitato a godere secondo le relative concessioni. La successione sanmarinese è per maschi da maschi per linea e per ordine di primogenitura per i titoli specifici, salvo qualche caso di trasmissibilità a tutti i maschi; per i patriziati è devoluta ai discendenti legittimi e naturali di ambo i sessi per continuata linea retta mascolina. Vedi PERSICHETTI Ugolini, I titoli nobiliari della Serenissima Repubblica di San Marino, «Riv. Aral.», 1926-1927. .

I titoli nobiliari pontifici prima del 1929
Per quanto riguarda i titoli nobiliari pontifici, gli art. 1 lett. c) e 10 lett. d) dell’ordinamento li fanno rientrare sotto il provvedimento dell’autorizzazione sovrana, ma con diversa dizione, non come autorizzazione ad accettare, ma come autorizzazione al cittadino italiano all’uso di titoli onorifici, senza qualifiche o predicati territoriali, concessi dai Sommi Pontefici dopo il 20 settembre 1870.
Inoltre l’art. 35 dell’ordinamento stabilisce che l’autorizzazione reale ad usare titoli concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870 potrà esser data nei singoli casi nei limiti del breve di concessione, giusta le norme stabilite dal R. Governo. Queste disposizioni sono state modificate, per effetto del concordato, con R. D. 10 luglio 1930, n. 974.
Prima di esporre le modifiche suddette è da fare un breve cenno sul diritto araldico pontificio.
Il Pontefice68 prima del 1870 riuniva in sé la duplice qualità di capo dello Stato pontificio e di capo della Chiesa cattolica, venendo ad essere così l’organo di due specie di rapporti con gli stati: rapporti di natura religiosa come capo della Chiesa, e rapporti di natura giuridica e politica come capo dello Stato pontificio.
Quindi nella sua duplice qualità egli era fonte della nobiltà da lui creata.
Nel 1870 il Pontefice fu privato del potere temporale e con la legge del 13 maggio 1871, numero 214 sulle guarentigie gli furrono resi dal governo italiano nel territorio del regno gli onori sovrani, mantenute le preminenze d’onore riconosciutegli dai sovrani cattolici, concesse tutte le prerogative onorifiche della sovranità e tutte le immunità necessarie per l’adempimento del suo altissimo ministero. Senonché fra queste prerogative onorifiche, di una delle più rilevanti, perché integra uno dei più importanti attributi della sovranità, quella di concedere titoli nobiliari e onorificenze cavalleresche, non venne fatta menzione nella legge, per cui sorse il problema se il Pontefice avesse, anche dopo la caduta del potere temporale, la facoltà di conferire titoli nobiliari.
In proposito è bene ricordare69 che, anche prima del 1870, non sempre il Pontefice conferiva le onorificenze, e i titoli nobiliari nella sua qualità di Capo territoriale dei suoi stati, dato che anche quando faceva concessioni a stranieri egli agiva nella sua qualità di Capo spirituale della Chiesa, e per ricompensare benemerenza verso la Chiesa. Esempio storico tipico è quello della concessione da parte di Pio IV del titolo di Granduca di Toscana a Cosimo I il grande, Signore di Firenze. Per tale ragione i Pontefici dopo il 1870, pur venuta meno la potestà temporale, continuarono a concedere titoli nobiliari e onorificenze, in virtù della loro sovranità di natura spirituale e di carattere internazionale, e nessuna disposizione venne mai emanata dallo stato italiano, perché di essi non si facesse uso nel regno. Negli altri stati cattolici dopo il 1870 si continuò nei riguardi dei titoli nobiliari e delle onorificenze pontificie a fare lo stesso trattamento di prima.
Qualora i titoli nobiliari e le onorificenze pontificie fossero ritenuti concessi da potenza estera si sarebbe potuto chiedere dagli investiti l’autorizzazione sovrana all’uso, in virtù degli articoli 80 dello statuto e 16 del R. D. 8 maggio 1870 che approva il regolamento per la Consulta Araldica. Sta di fatto però che non risulta che fra il 1870 e il 1924 il Governo Italiano sia intervenuto per autorizzare l’uso di titoli nobiliari pontifici, mentre per le onorificenze pontificie consentì la autorizzazione con la procedura delle onorificenze estere, mediante istanza diretta al Ministro degli Esteri. Si venne così a creare una disparità di trattamento fra titoli nobiliari e onorificenze, e a ritenere che il Pontefice non avesse avuto più la potestà di concedere titoli nobiliari, perché non più sovrano territoriale e nell’esercizio attuale del suo potere, e non venne tenuto conto della potestà di farlo come sovrano spirituale di carattere internazionale.
Per le onorificenze si ritenne che la potestà della concessione sarebbe rimasta invece nel Pontefice anche senza l’esercizio della sovranità territoriale attuale, poiché la conserva anche il sovrano spodestato per i suoi ordini gentilizi, e non per quelli di corona, dei quali perde il gran magistero, perché facenti parte del patrimonio araldico dello stato70 .
Solo nel novembre 1924 il Consiglio dei Ministri con speciale deliberazione, resa nota a mezzo di circolare diretta ai Prefetti stabilì che i cittadini italiani insigniti di titoli nobiliari pontifici posteriormente al 20 settembre 1870 potessero chiedere di far uso dei titoli loro concessi mediante Decreto Reale di riconoscimento. E poiché tale forma di riconoscimento importava il pagamento integrale delle tasse secondo la tariffa fissata dal R.D. 30-12-1923, n. 3279 per la conferma dei titoli esteri, e quindi in misura elevata, con R. D. Legge 11 ottobre 1925, n. 1794, per facilitare la richiesta di riconoscimento, venne stabilito che per i Decreti Reali di autorizzazione all’uso legittimo nel regno dei titoli nobiliari concessi dai Sommi Pontefici dalla fine del 1870 a tutto il 1924 era data facoltà al Ministro delle Finanze di ridurre ad un terzo, caso per caso e tenuto conto della condizione economica degli investiti, ed entro il 31 dicembre 1926, la misura delle tasse prescritte. Dal 1° gennaio 1925 i decreti reali di autorizzazione sarebbero stati sottoposti alle tasse ordinarie.
Così nell’ordinamento nobiliare del 1929 all’art. 35 venne stabilito che l’autorizzazione Reale ad usare titoli nobiliari concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870 avrebbe potuto esser data nei singoli casi nei limiti del breve di concessione, giusta le norme stabilite dal R. Governo71 .
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68 – GORINO, op. cit., pag. 28.

69 – GORINO, op. cit., pag. 29.

70 – GORINO, op. cit., pag. 35.

71 – L’elenco dei titoli nobiliari (principe, duca, marchese, conte, barone) concessi dai Sommi Pontefici dopo il 1870, ed autorizzati all’uso nel regno, è riportato nel Boll. uff. della Consulta Araldica, 1931, n. 41, pag. 155-172.

I titoli nobiliari pontifici dopo il Concordato Lateranense. (In nota: Il titolo di Conte conferito agli Arcivescovi e Vescovi assistenti al Soglio Pontificio) .
Sennonché l’11 febbraio 1929 venivano sottoscritti fra l’Italia e la Santa Sede il Trattato del Laterano per la risoluzione della questione romana, e fra l’Italia e il Pontefice, nella sua qualità di Capo della Chiesa, il concordato, diretto a regolare le condizioni della religione e della Chiesa in Italia.
Nel Concordato veniva stabilito all’art. 41 che l’Italia autorizza l’uso nel Regno e nelle sue Colonie delle onorificenze cavalleresche pontificie mediante registrazione del breve di nomina da farsi su presentazione del breve stesso e domanda scritta dell’interessato, e all’art. 42 che l’Italia ammetterà il riconoscimento mediante Decreto Reale dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire. Saranno stabiliti casi nei quali il detto riconoscimento non è soggetto in Italia al pagamento di tassa.
In esecuzione di detti due articoli fu emanato il R. D. 10 luglio 1930, n. 974, contenente disposizioni relative all’uso delle onorificenze degli ordini equestri e dei titoli nobiliari pontifici.
Per quanto riguarda le onorificenze agli art. 2 e 3 venne stabilito che le autorizzazioni a fregiarsi nel Regno e nelle Colonie delle onorificenze degli ordini pontifici sono concesse ai cittadini italiani e ai cittadini dello Stato della Città del Vaticano con Decreto Reale e diploma della Presidenza del Consiglio dei Ministri, previa presentazione di domanda indirizzata al Capo del Governo, corredata dalla bolletta di versamento della tassa prevista per le onorificenze estere e dal breve pontificio originale o in copia autentica, o da un attestato rilasciato dalla Segreteria di Stato comprovante il diritto al titolo.
Con le medesime modalità ed alle stesse condizioni anziesposte venne concessa l’autorizzazione all’uso nel Regno e nelle Colonie delle onorificenze dell’ordine equestre del S. Sepolcro conferite dal Patriarca di Gerusalemme. Delle onorificenze pontificie che importano nobiltà è stato detto sopra al n. 18.
Per quanto riguarda i titoli nobiliari, venne stabilito che possono domandare l’autorizzazione ad usare nel Regno e nelle Colonie titoli nobiliari pontifici i cittadini italiani e i cittadini dello Stato della Città del Vaticano, e che sono estese alle autorizzazioni per l’uso dei titoli nobiliari pontifici, da parte degli stranieri residenti nel Regno, le norme degli art. 11 e 32 dell’ordinamento nobiliare circa l’uso da parte degli stranieri stessi dei titoli concessi da potenze estere (art. 5).
I titoli nobiliari pontifici pei quali è ammessa l’autorizzazione all’uso sono quelli di Principe, Duca, Marchese, Conte72 , Visconte, Barone e Nobile. Essi a modifica di quanto è stabilito all’art. 1 lett. c) dell’ordinamento nobiliare, possono essere o appoggiati sul cognome o a predicati del territorio della Città del Vaticano, o ad altri, purché puramente onorifici. L’uso dei titoli e dei predicati anzidetti è autorizzato con provvedimento Sovrano con le stesse condizioni di trasmissione contemplate nel breve pontificio di concessione (articolo 6).
L’autorizzazione all’uso dei titoli nobiliari è fatta con Decreto Reale di autorizzazione, seguito da Regie Lettere Patenti (art. 9).
I provvedimenti di autorizzazione all’uso sono soggetti al pagamento delle tasse erariali nella misura stabilita per la concessione dei corrispondenti titoli italiani.
Quando si tratta di autorizzazione concessa con Decreto Reale di motu proprio, la misura delle tasse erariali è ridotta ad 1/3, e quando il breve è emesso con dichiarata gratuità da parte della S. Sede, l’autorizzazione è emanata in esenzione totale di tasse erariali (art. 8).
È stato rilevato dal Gorino73 che il R. D. 10 luglio 1930 non si è uniformato all’art. 42 del Concordato, per il fatto che detto articolo parla di riconoscimento (sia pure attribuito), dei titoli nobiliari pontifici, mentre il decreto suindicato usa il termine autorizzazione all’uso, altrimenti detto conferma.
Da questa diversità di locuzione, a parte la differenza di carattere economico che sarebbe stata meno onerosa fiscalmente per gli insigniti, qualora si fosse parlato di riconoscimento (in caso di riconoscimento la tassa è di 3/5 di quella stabilita per l’autorizzazione o la conferma), risulterebbe che non è stato tenuto conto della natura del diritto araldico pontificio, di carattere spirituale, diritto legato alla S. Sede come potestà spirituale e non alla sua espressione statuale, che è lo Stato della Città del Vatican74o . In virtù di tale carattere i titoli nobiliari pontifici avrebbero dovuto avere lo stesso trattamento dei titoli degli Stati preunitari del Regno d’Italia, ed essere considerati come titoli italiani (art. 30 ordinamento).
In contrario, osserva il Sabini 75che i titoli nobiliari pontifici anche dopo l’entrata in vigore dei Patti Lateranensi, non possono essere ritenuti alla stessa stregua di quelli concessi da una Potenza estera, ma devono essere riguardati come concessi dal Pontefice come Potenza Spirituale. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, pur essendo identica la natura del provvedimento, e cioè il Decreto Reale di autorizzazione, tanto per i titoli concessi da una Potenza estera che per quelli pontifici, l’autorizzazione Sovrana per i titoli esteri racchiude il consenso del Re, affinché il cittadino accetti la distinzione conferita dal governo straniero, mentre per quelli pontifici l’autorizzazione riguarda non il consenso all’accettazione, ma quello all’uso, presupponendosi che il cittadino possa validamente accettare una distinzione onorifica dalla S. Sede, ma di essa non possa far uso nel territorio del Regno, senza essersi munito della Sovrana autorizzazione, la quale perciò deve ritenersi come l’atto di acquisto effettivo del titolo. Difatti, come si è visto sopra, diversa è la locuzione adoperata negli art. 1 c) e 10 d) dell’ordinamento.
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72 – Del titolo di Conte Palatino è stata detto al n. 35. É da ricordare che il titolo di Conte che la S. Sede suole conferire per antichissima usanza agli Arcivescovi e ai Vescovi, residenziali o titolari, assistenti al Roglio pontificio non è un titolo nobiliare, bensì una attribuzione molto simile alle diverse categorie di onorificenze non riconoscibile, né autorizzabile dallo Stato Italiano. Per un decreto della S. Congregazione Concistoriale 15 gennaio 1915, d’altro canto i Patriarchi, gli Arcivescovi e Vescovi residenziali hanno espresso divieto di far uso di insegne e titoli nobiliari gentilizi, a meno che non si tratti di una dignità secolare annessa alla loro sede o dell’Ordine di Malta o dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme. L’assistenza al soglio pontificio è una distinzione onorifica della Chiesa; sono assistenti al soglio i rappresentanti delle grandi famiglie romane Orsini e Colonna che godono di tale privilegio dal secolo XVI, e talune categorie di ecclesiastici, quali i Patriarchi (che sono assistenti al soglio nati) e gli Arcivescovi o i Vescovi. – GORINO, op. cit., pag. 58, 69.

73 – GORINO, op. cit., pag. 55, 56.

74 – Sembra dubbio che lo Stato della Città del Vaticano abbia un diritto araldico proprio, cui è fatto richiamo nell’art. 20 della legge fondamentale della Città del Vaticano 7 giugno 1929, non trovandosi nel Trattato del Laterano, accordo di natura internazionale alcun riferimento a tale diritto. Solo nel Concordato, accordo fra lo Stato Italiano e la S. Sede, vengono regolati i poteri della S. Sede in materia araldica, per cui è da ritenere che lo Stato della Città del Vaticano non sia succeduto nei poteri araldici a quelli tenuti dal Pontefice come Sovrano temporale prima del 1870. – Vedi GORINO, op. cit., pag. 52, 54, 56.

75 – SABINI, L’ordinamento cit., pag. 84, 85.

L’assenso
L’assenso è l’atto con cui il Sovrano presta il proprio consenso ad alcuni speciali provvedimenti previsti da apposite disposizioni, e di cui si hanno tre casi: 1) Allorquando un titolo è passato legittimamente per via femminile in altra famiglia, della quale è venuta ad estinguersi la discendenza maschile, e si domanda che il titolo venga a tornare alla agnazione maschile della famiglia alla quale apparteneva al tempo della abolizione della feudalità, ed osservate però le nuove norme della successione nobiliare (art. 59); 2) Allorquando ad una donna maritata prima del 7 settembre 1926 siano pervenuti più titoli, essa può domandare che con R. Assenso le sia consentito che, dopo la sua morte, le succeda in qualcuno dei titoli ed annessi predicati il primogenito che discende da quel matrimonio, purché non si tratti del predicato che fa parte del nome di uso della famiglia (art. 60). 3) Il terzo caso è quello pel quale l’attuale intestatario maschile, possessore di più titoli nobiliari, può chiedere che in caso di sua morte senza discendenza maschile, succedano in uno dei titoli ed annessi predicati, purché non si tratti del predicato che fa parte del nome di uso di famiglia, a preferenza della propria agnazione maschile, la figlia primogenita dell’unico figlio premorto, o in difetto, la figlia primogenita, e in difetto dell’ordine successivo la sorella prossimiore, e, dopo la morte, la rispettiva discendenza maschile (art. 65).
Come si vede, in questi tre casi trattasi di provvedimenti di carattere eccezionale, in deroga alle norme ordinarie della successione, e che possono essere accordati dal Sovrano in considerazione delle speciali circostanze che li determinano e dei caratteri d’importanza dal punto di vista delle memorie che può avere la conservazione del titolo in quella determinata famiglia.

I Provvedimenti governativi di giustizia
I provvedimenti governativi di giustizia sono determinati per esclusione, e cioè a dire sono tutti quelli nei quali non vi sia esercizio di Prerogativa Sovrana, e sono emanati per decreto del Capo del Governo trattandosi di riconoscimento di diritti già esistenti, i quali trovano il loro fondamento originario in una concessione sovrana. Di un altro gruppo di provvedimenti di competenza del Capo del Governo è detto di seguito (v. n. 55). Anche per i provvedimenti di giustizia vi è il pagamento delle tasse.
L’art. 11 così esemplifica alcuni provvedimenti di giustizia:
a) il riconoscimento della legale esistenza in una famiglia di un titolo, predicato, qualifica e stemma nobiliare e della sua devoluzione agli aventi diritto in base alle norme vigenti. Questo riconoscimento, detto dichiarativo, si differenzia dall’altro rientrante nei provvedimenti sovrani di grazia (v. n. 49), in quanto mira non ad una sanatoria sovrana, ma ad una attestazione da cui in seguito a verifica risultano esistente e legittima la concessione originaria e regolari i passaggi nei successori. Trattasi quindi di semplice declaratoria di un diritto esistente. Il riconoscimento viene effettuato con decreto del Capo del Governo.
Questo riconoscimento può essere negato dal Capo del Governo nel caso in cui non rinvenga elementi di prova sufficienti a dimostrare la legittimità attuale del diritto affermato dal chiedente, ed in tal caso questi di fronte al rifiuto che gli disconosce un preteso diritto può adire l’autorità giudiziaria contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per chiedere la dichiarazione di esistenza del suo diritto non riconosciutagli in via amministrativa (art. 126)76.
Nel caso in cui il non accoglimento della richiesta da parte dell’autorità amministrativa non importi una lesione del diritto subbiettivo del richiedente, egli potrà rivolgersi al Re con nuova domanda per ottenere il riconoscimento con Decreto Reale, provvedimento quest’ultimo che, come è stato detto (v. n. 46), è di carattere discrezionale, e contro del quale non può aver luogo ricorso all’autorità giudiziaria;
b) l’autorizzazione ad usare nel Regno titoli, predicati, qualifiche o stemmi nobiliari concessi o riconosciuti da una Potenza estera ai propri sudditi, siano questi o i loro successori tuttora stranieri residenti nel Regno, o divenuti in seguito cittadini italiani. Lo stesso dicasi dei titoli nobiliari pontifici concessi a stranieri residenti nel Regno;
c) l’autorizzazione ad uno straniero di usare titoli, predicati, qualifiche o stemmi nobiliari italiani legittimamente pervenutigli.
Queste due ultime forme di autorizzazione non trovano riscontro nel regolamento del 1896. S’intende che la prima di queste forme di autorizzazione non occorre, per il disposto dell’art. 30 dell’ordinamento, qualora si tratti di cittadini che prima dell’unificazione italiana erano stranieri (es. austriaci) e che divennero cittadini italiani in seguito all’annessione delle nuove province, ed i cui titoli concessi dai Sovrani stranieri sono considerati italiani o ad essi equiparati.
L’ultimo caso c) riguarda titoli italiani concessi a cittadini italiani, divenuti successivamente stranieri, come nel caso di Nizza e Savoia, o di titoli italiani pervenuti per discendenza in possesso di cittadini stranieri.
Anche in questi due casi l’autorizzazione è di competenza del Capo del Governo, il quale per la sua posizione è in grado di valutare le condizioni non solo di legittimità delle distinzioni, ma anche di opportunità di concedere le chieste autorizzazioni.
Non sembra accoglibile l’opinione del Sabini77 che in questi ultimi casi b), c) si tratti non di facoltà discrezionali del Capo del Governo di concedere o no la autorizzazione, ma di attribuzione di verifica della legittimità della concessione, e dei successivi trapassi.
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76 – C. app. Palermo, 2 luglio 1931, Perez c. Federico, Foro Sic., dic. 1932, 42. É inammissibile l’azione promossa da un cittadino per dimostrare il suo diritto ad un titolo nobiliare, se già prima con decreto ministeriale era stata disattesa l’istanza da lui proposta per ottenere le lettere patenti di Regio assenso.

77 – SABINI, L’ordin. cit., pag. 141.

I provvedimenti governativi di giustizia e la R. Prerogativa
Oltre i tre casi anziesposti di provvedimenti governativi di giustizia (n. 54), sono egualmente di competenza del Capo del Governo i provvedimenti previsti dagli art. 22, 25, 31, 32, 38, 66, 68, dell’ordinamento nobiliare, di cui appresso sarà detto, i quali per la natura della materia dovrebbero rientrare nell’esercizio della Prerogativa Sovrana. In questi casi si tratta, per lo più, dell’esercizio di facoltà discrezionale, che si risolve non nella dichiarazione o affermazione di un diritto attualmente esistente, ma in una vera e propria attribuzione di altri diritti aventi con quello invocato affinità, o in favore di chi si trova nella condizione di non poter provare una concessione di limitata importanza78.
Queste attribuzioni sono conferite al Capo del Governo direttamente dalla legge, e non per presunta delega del Sovrano, dato il loro carattere discrezionale, che richiede, a volte, accertamenti e valutazioni di carattere politico, che è opportuno siano fatte dal Capo del Governo che è responsabile verso il Re dell’indirizzo politico generale, oppure dato che trattasi di provvedimenti di limitata importanza da non giustificare l’intervento della Prerogativa Sovrana.
Nessuna contraddizione esiste fra queste attribuzioni conferite al Capo del Governo e il rafforzamento della Prerogativa Sovrana, cui è ispirato il nuovo ordinamento nobiliare, ove si pensi che il nuovo ordinamento costituzionale instaurato dal Fascismo ha effettuato una ripartizione di competenza fra il Re e il Capo del Governo, e ha trasferito in pratica in quest’ultimo l’esercizio effettivo di varie Prerogative Sovrane aventi riferimento all’indirizzo politico che vuol attuarsi79 . La Prerogativa Sovrana non viene poi diminuita nel caso si tratti di provvedimenti, di limitata importanza, deferiti al Capo del Governo, il quale ne resta sempre responsabile di fronte al Re.
Per questi provvedimenti di carattere discrezionale, in caso di rifiuto da parte del Capo del Governo ad emetterli, colui che si ritiene leso non può esperire alcuna azione giudiziaria o adire il Consiglio di Stato, poiché trattasi di provvedimenti aventi il carattere sostanziale di quelli di Regia Prerogativa, quantunque tali non siano dichiarati nell’ordinamento e siano attribuiti al Capo del Governo. In questi casi la sostanza vince la forma.
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78 – SABINI, L’ordinamento cit., pag. 144 e seg.

79 – L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1931, pag. 76, 96.

Lo stemma. (In nota: Bibliografia di stemmari)
Giusta l’art. 4 del nuovo ordinamento costituisce anche distinzione nobiliare lo stemma, detto anche blasone od arma gentilizia80 , che viene concesso, riconosciuto o rinnovato dal Re, o con provvedimento governativo del Capo del Governo. Lo stemma è costituito da un complesso di figure, emblemi e simboli convenzionali che servono ad identificare la nobiltà di una famiglia o a distinguere una nazione, una provincia, una città, una corporazione, una famiglia non nobile.
Esso consta di otto parti: scudo, timbro (elmo), corona, manto, sostegni, contrassegni (decorazioni, ancore) ornamento (cordelliere) leggenda, (divisa) 81. Di queste parti sono essenziali tre: lo scudo, l’elmo, e la corona. La materia dello stemma è proprio dell’araldica o blasonario, ossia l’arte che insegna a comporre le insegne gentilizie, connessa con l’ordinamento nobiliare. Saranno pertanto in questa trattazione dati i cenni indispensabili di uso comune.
Ad ogni titolo nobiliare corrisponde uno stemma, e colui che ha diritto ad un titolo ha altresì diritto a far uso dello stemma, ma non può dirsi la rovescia che ogni stemma comporti un titolo nobiliare, dappoiché si hanno stemmi di cittadinanza, concessi per speciali benemerenze anche a famiglie prive di titoli nobiliari, e di cui qui di seguito è detto e che non attribuiscono alcuna prerogativa nobiliare. Per gli stemmi degli ultrogeniti vedi nota al n. 57.
Lo stemma a termini dell’art. 12 dell’ordinamento è miniato e viene unito al diploma, ossia alle R. Lettere Patenti, o ai decreti del Capo del Governo. Nel caso di concessione di nuovi stemmi si suole (come diceva l’art. 46 del regolamento del 1896) che questi siano composti secondo i desideri dei chiedenti, ma con qualche pezza, figura, motto od ornamento che indichi il motivo della concessione.
Inoltre si deve aver cura di non ledere i diritti storici e di non ingenerare confusione con stemmi di altre famiglie (art. 37).
Lo stemma va vistato dal Commissario del Re e va descritto in termini araldici secondo il vocabolario araldico ufficiale approvato con D. M. 6 febbraio 190682 . Il riconoscimento di stemmi nobiliari è subordinato alla dimostrazione di nobiltà della famiglia.
Il regolamento del 1896 ammetteva all’art. 56, ai fini del riconoscimento degli stemmi, per le famiglie di cittadinanza la prova di un possesso pubblico e pacifico dello stemma, almeno settantenario, unito ad una distinta civiltà.
Anche il nuovo ordinamento all’art. 38 ne ammette il riconoscimento ma con maggiori limitazioni. Esso stabilisce infatti: è ammesso il riconoscimento mediante decreto del Capo del Governo, di stemmi di cittadinanza a favore di famiglie non nobili ma di distinte civiltà, quando ne sia dimostrato il pubblico e pacifico possesso per un periodo di tempo non inferiore a 150 anni. Le ornamentazioni araldiche di tali stemmi sono limitate all’elmo prescritto dall’art. 13 del regolamento tecnico araldico, adorno di penne dai colori dello scudo, senza cercine; né svolazzi, né motti.
Le disposizioni legislative sugli stemmi sono contenute nel R. D. 1° gennaio 1890 per quelli della Famiglia Reale, e nel R. D. 13 aprile 1905, n. 234 che approva il regolamento tecnico araldico per l’ornamentazione esteriore degli stemmi , nel R. D. 11 aprile 1929, n. 504, per gli stemmi83 dello Stato o delle Amministrazioni Governative.
A detti R. D. sarà fatto di seguito richiamo. Manca in Italia uno stemmario ufficiale di tutte le famiglie nobili, essendo la raccolta predisposta a cura delle Commissioni Araldiche Regionali tuttora inedita. Per le indicazioni archivistiche ove possano trovarsi stemmi antichi sono utili le notizie fornite dal Manaresi citato84 . A proposito dello stemma dello Stato, a tutti noto, è solo da ricordare che sia nella forma grande che in quella piccola, i sostegni sono costituiti da due fasci littori addossati con l’ascia all’infuori (fig. 1, 2).

Fig. 1 – Grande Stemma dello Stato.

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80 – Secondo l’opinione più accettata gli stemmi trassero la loro origine dalle bandiere o dai vessilli di cui si hanno traccia presso i Greci e i Romani. Durante il periodo feudale gli stemmi furono i vessilli del territorio sottoposto ad una giurisdizione, usati dal feudatario e dai suoi armati, vessilli che venivano ampliati nel caso di acquisto di nuove terre. Per il fatto che i vessilli indicanti il territorio si usarono passare nella stessa forma da padre in figlio diventarono a poco a poco ereditari. L’uso degli stemmi (vessilli) andò estendendosi dal Sovrano ai grandi feudatari e poscia ai piccoli tenuti a fornire armati. Successivamente l’uso si allargò anche alle famiglie nobili di qualsiasi grado e a quelle che si erano fatte erigere i loro beni allodiali in feudi. Dal 1300 lo stemma non fu più subordinato al territorio feudale, perché si fecero concessione di stemmi agli appartenenti al patriziato e alla nobiltà civica, nobili non di origine feudale. La concessione degli stemmi andò sempre più allargandosi; ed essi divennero semplici segni di onore, che potevano essere concessi in via di grazia, rivolta mediante somme di denaro. È questa la ragione storica perché lo stemma è autorizzato soltanto alle famiglie nobili. Gli stemmi di cittadinanza, invece, usati fin dal secolo XVI, e di cui in seguito è detto, si riferiscono a famiglie che non appartenevano né alla nobiltà feudale né al patriziato. Arma deriva dalle armature (e principalmente nello scudo) su cui venivano riprodotti le figure e i colori dei vessilli. Dal secolo XI si usò la parola arma nel senso di figura rappresentata sulle armi. Blasone deriva dal tedesco blasen (suonare il corno) a ricordo, secondo alcuni dei cavalieri che presentandosi in torneo sonavano il corno per chiamare gli araldi onde riconoscere il loro stemma.

81 – Si citano le più comuni: DI CROLLALANZA GOFFREDO, Enciclopedia Araldico-Cavalleresca citata; lo stesso, Glossario Araldico Etimologico in «Giorn. Arald. Geneal.», 1892 e seg. – TRIBOLATI F., Grammatica Araldica con aggiunte di G. DI CROLLALANZA, Milano 1904 – BRONDI A. T., Nozioni e curiosità araldiche, Milano 1921 – GUELFI CAMAIANI, Dizionario Araldico, Milano 1921 – MANARESI, voce Araldica in «Enciclopedia Italiana Treccani », vol. III, Milano 1929.
82 – MANNO, Vocabolario Araldico Ufficiale, Roma, Civelli, 1907.

83 – MANNO, Il Regolamento tecnico-araldico spiegato ed illustrato, Roma, Civelli, 1906. Da questa opera sono ricavate non poche delle figure appresso riprodotte.

84 – Raccolte di stemmi si trovano in: Annuario della Nobiltà Italiana di G. B. e G. DI CROLLALANZA. Di ogni famiglia in esso menzionata è riportato lo stemma ed un cenno genealogico. Va dal 1879 al 1905. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali, sei volumi con stemmi o descrizioni di essi, Napoli 1875-1882. DI CROLLALANZA G. B., Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890. Contiene la descrizione di stemmi. Fu continuato dal 1892 al 1903 dal figlio Goffredo (padre di S. E. Araldo, attuale Ministro dei LL. PP.) con la rubrica Armoriale italiano nel suo «Giornale Araldico Genealogico Diplomatico ». – Il COLANERI nella sua Bibliografia Araldica e Genealogica, Roma 1904, ha fatto lo spoglio delle famiglie di cui è stata pubblicata la storia nel giornale. Enciclopedia Storico-nobiliare Italiana, diretta dal Mar. V. SPRETI, Milano 1927-1933. FRANCHI VERNEY DELLA VALLETTA Conte ALESSANDRO, Armerista delle famiglie Nobili e titolate della Monarchia di Savoia, Torino 1873. Il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, Roma, dal 1910 ad oggi. LITTA P., Famiglie Celebri Italiane, prima serie 13 volumi, Milano 1859-1870; seconda serie, Napoli 1902; con tavole a colori. MANGO DI CASALGERARDO, Il Nobiliario di Sicilia, Palermo. Due volumi con tavole a colori, 1912-15. MANNUCCI Conte SILVIO, Nobiliario e Blasonario del Regno d’Italia, Roma 1924-1932. Cinque volumi con stemmi in nero o descrizione di essi. Comprende tutte le famiglie iscritte nell’Elenco Ufficiale del 1921. Contiene inoltre l’indice alfabetico delle pezze blasoniche degli stemmi e ornamenti araldici delle famiglie italiane. MUGNOS FILADELFO, Teatro geneologico delle famiglie nobili titolate, feudatarie ed antiche nobili del Fidelissimo Regno di Sicilia viventi ed estinte. Tre volumi con stemmi in nero. Palermo 1647, 1655; Messina 1670. PADIGLIONE C., Dizionario delle famiglie nobili italiane o straniere portanti predicati di titoli ex feudali napoletani e descrizione dei loro blasoni, Napoli 1901. PADIGLIONE C., Delle livree, del modo di comporle e descrizione di quelle di famiglie nobili italiane. Contiene la descrizione di 800 stemmi. Napoli 1889. PALAZZOLO DRAGO F., Famiglie nobili Siciliane, Palermo 1927, con descrizione degli stemmi. PALIZZOLO GRAVINA V., Il blasone in Sicilia, ossia Raccolta Araldica. Due volumi con tavole a colori. Palermo 1871-75. PIETRAMELLARA C., Blasonario Generale Italiano, ossia descrizione degli Stemmi, Tivoli 1898. TETTONI L. e SALADINI F., Teatro Araldico ovvero Raccolta generale delle armi ed insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esistevano un tempo e che tuttora fioriscono in Italia. Otto volumi con tavole a colori. Lodi e Milano 1841-1848. TIRIBILLI GIULIANI D., Sommario Storico delle famiglie celebri toscane. Due volumi con stemmi. Firenze 1862.

Lo stemma della Famiglia Reale
Il Re porta per grande stemma lo scudo di Savoia cimato con cima reale coronato con la corona di ferro, coi sostegni reali e colle grandi insegne degli ordini equestri reali; il tutto posto sotto al padiglione Regio cimato colla Corona Reale di Savoia; tutto lo stemma accollato al fusto del gonfalone di Savoia, che è cimato coll’aquila Sabauda d’oro, ha lo stendardo bifido di rosso, crociato e soppannato di tela d’argento e colle cravatte azzurre scritte coi motti e gridi d’arme: Savoye, Saint Maurice, Bonnes Nouvelles (fig. 3).

Fig. 3 – Grande Stemma di S. M. il Re d’Italia.

Nei piccoli stemmi del Re il padiglione è sostituito da manto Reale, non vi comparisce il gonfalone e si possono tralasciare l’elmo, i sostegni e le grandi insegne degli ordini equestri, meno il collare dell’Ordine Supremo.
Lo stemma della Regina ha due scudi, a destra di alleanza, ossia di matrimonio, cioè lo scudo pieno di Savoia, ed a sinistra di nascita; gli scudi attorniati dalla cordelliera e coperti del Manto Reale cimato colla Corona di Regina (fig. 4).

Fig. 4 – Stemma di S. M. la Regina Elena d’Italia.

Lo stemma del Principe Reale Ereditario ha lo scudo pieno di Savoia cimato dall’elmo e cimiero, coi sostegni, col manto e colla Corona della propria dignità (fig. 5).

Fig. 5 – Stemma di S. A. R. Umberto Principe Reale Ereditario.

Gli stemmi dei Principi Reali e del Sangue hanno lo scudo di Savoia spezzato85 secondo la propria linea, coll’elmo e cimiero, sostegni, manto e corona della propria dignità (fig. 6) (v. n. 61).

Fig. 6 – Stemma delle LL. AA. RR. i Principi Savoia-Genova. Così è riprodotto con la corona chiusa nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana del 1933. Lo stemma delle LL. AA. RR. i Principi Savoia-Aosta è uguale, salvo la spezzatura della bordatura dello scudo, che è d’oro e d’azzurro, ed il manto che è guarnito di frangia d’oro.

I Principi della Reale Casa possono usare piccoli stemmi, togliendo da quello loro speciale o l’elmo o i sostegni o il manto. Le Principesse Reali e del Sangue portano lo stemma di Savoia colla spezzatura della propria linea, in uno scudo a rombo, attorniato dalla cordelliera e sotto al manto e corona della propria dignità (fig. 7).
Le Principesse Consorti di Principi Reali e del Sangue portano lo stemma formato da due scudi ovali e accollati, a destra di alleanza, a sinistra di nascita, attorniati dalla cordelliera e sotto al manto e corona del Principe marito (fig. 8).

Fig. 8 – Stemma di S. A. R. Maria Josè Principessa Reale Ereditaria.

Quando un Principe del Sangue godrà del trattamento di Altezza Reale porterà lo scudo della
propria linea col manto di Principe del Sangue e colla corona di Principe Reale.
Il Principe Reggente assume, a vita, lo stemma proprio del Principe Reale Ereditario, conservando lo scudo d’arme colla spezzatura della propria linea.
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85 – La spezzatura o brisura è una pezza araldica speciale, che serve ad indicare i rami cadetti di una stessa famiglia. La Consulta Araldica con la massima 20 aveva stabilito che nelle concessioni di titoli nobiliari ad ultrogeniti di famiglie già nobili e titolate, si sarebbe introdotta una spezzatura nello stemma gentilizio od una variante nella sua ornamentazione esteriore. Con successiva massima 18 novembre 1926 stabilì che agli ultrogeniti venisse riconosciuto lo stemma tale e quale fu concesso nei diplomi di ordinaria concessione, senza alcuna spezzatura, bastando le corone a distinguerli dai primogeniti (modifica della massima n. 20). Rimane però in vigore la massima nel caso che gli ultrogeniti, ottenendo titoli speciali, abbiano a considerarsi come ceppo di nuove linee distinte.

Lo stemma delle Province e dei Comuni – I Gonfaloni – L’emblema Araldico dell’Istituto del Nastro Azzurro
Possono avere stemmi anche le province, i comuni, gli enti morali, ma essi non possono servirsi dello stemma dello Stato, ma di quell’arma o simbolo del quale o avranno ottenuto la concessione o riportato il riconoscimento (art. 4 Reg. Tecnico Araldico, approvato con R. D. 13 aprile 1905, n. 234).
L’origine degli stemmi dei Comuni medioevali è quello stesso degli stemmi dei signori feudali (v. n. 56). Fin dai primi tempi dell’uso degli stemmi, come dice il Rangoni86 , i Comuni per distinguersi fra loro adottarono uno stemma, e generalmente venne usato dal 1200 alla fine del 1700, sia nella forma originaria, sia apportando modificazioni determinate da ragioni politiche o dalla aggiunta di attributi o di qualche capo (v. n. 59) per concessioni sovrane. Alla fine del 1700 durante la occupazione francese la maggior parte dei comuni italiani, seguendo l’esempio della Francia, fecero scalpellare i loro antichi stemmi dagli edifici comunali e dai monumenti, che sostituirono con emblemi rivoluzionari. Sotto il Regno ltalico (v. n. 19 D), molti comuni e città chiesero ed ottennero la concessione di un nuovo stemma o la conferma di quello antico con variazioni, ma questi stemmi scomparvero con la restaurazione. Durante il 1800 molti comuni, che non possedevano stemma, se ne crearono uno, anche senza autorizzazione dei governi dai quali dipendevano. Creata la Consulta Araldica nel 1869 (v. n. 96), questa con Sua deliberazione del 4 maggio 1870 mirò a togliere gli abusi esistenti delle ornamentazioni esteriori degli stemmi comunali e provinciali, ed affermò il principio che solamente ad essa spettava approvare, far concedere stemmi e riconoscere quelli già da tempo usati.
Gli stemmi delle province e dei comuni, stabilisce l’art. 39 del nuovo ordinamento nobiliare, accogliendo la massima 9 dicembre 1926 della Consulta Araldica, non possono essere modificati. Essi hanno la forma sannitica con le ornamentazioni prescritte dal citato regolamento araldico del 1905, senza sostegni o tenenti o motti, salvo antiche o provate concessioni. Altresì non può essere modificata, per riguardo alle tradizioni storiche, la forma degli antichi Gonfaloni. La Consulta Araldica determina la forma per i gonfaloni di nuova concessione.
Con R. D. 17-11-1927 e Regie Lettere patenti 29-3-1928 venne da Vittorio Emanuele III ac cordata la grazia all’Istituto del Nastro Azzurro fra i combattenti decorati al valore militare ed ai suoi soci di far uso di un emblema araldico così descritto (fig. 9): scudo sannitico timbrato di un elmo corrispondente al tipo pesante, adottato nella nostra guerra per il taglio dei reticolati nemici: detto elmo sarà ornato da fregi decorativi d’argento, azzurro e d’oro; il capo, il campo e la campagna divisi da filetti d’oro ed in azzurro, tutti o in parte, a seconda delle decorazioni acquisite da chi può portare l’emblema: sul campo il nastro dell’Ordine Militare di Savoia, nei suoi colori, posto in banda, filettato d’oro, pei decorati dell’Ordine stesso, su campo d’oro o su campo azzurro se oltre a detta decorazione l’insignito possiede anche medaglie d’oro o di argento. Quando manchi l’Ordine Militare di Savoia un filetto d’oro posto in banda.

Fig. 9 – Emblema dell’Istituto del Nastro Azzurro.

In alto a destra una o più stelle d’argento a seconda di una o più medaglie d’oro al valore militare: a sinistra una o più stelle d’argento a seconda delle acquisite medaglie d’argento; sul capo, una o più corone reali, d’oro per gli ufficiali superiori e d’argento per gli ufficiali inferiori, a seconda delle promozioni per merito di guerra, eventualmente ordinate in fascia. La campagna divisa con filetti d’oro, posti in palo in scomparti corrispondenti ciascuno ad una medaglia di bronzo.
Quando il socio è insignito soltanto di medaglie di bronzo, ed eventualmente di promozioni per merito di guerra, le medaglie di bronzo vengono indicate sul campo. Per una sola il campo è tutto azzurro con filetto d’oro posto in banda; per più medaglie, è diviso da filetti d’oro in altrettante fascie orizzontali azzurre, restando abolito il filetto posto in banda87 .
L’emblema è rilasciato dalla Segreteria Generale dell’Istituto, ed il diritto all’uso cessa nel caso che venga a mancare la qualità di socio dell’Istituto.
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86 – L. Rangoni Machiavelli, Stemmi delle Colonie, delle province e dei comuni del Regno d’Italia riconosciuti o concessi dalla Consulta Araldica del Regno al 1932. Contiene la descrizione degli stemmi. «Riv. Araldica» 1933, pag. 97 e seg., 1934. Vedi anche C. SANTA MARIA, Stemmi Provinciali, «Riv. Ar.», 1928, pag. 545 e Stemmi di Stati e Province, «Riv. Ar.», 1933, pag. 22.

87 – Si è fatta la descrizione dell’emblema, dato che essa non è riportata da altri autori.

IL FASCIO LITTORIO E IL CAPO DEL LITTORIO
Per effetto del R. D. 14 giugno 1928 n. 1430 i Comuni, le Province e le Congregazioni di carità sono autorizzati ad innalzare sui loro edifici e sulle opere da loro eseguite il Fascio Littorio, nonché a fregiarne i sigilli e gli atti ufficiali.
Inoltre gli Enti parastatali che per servigi resi alla Nazione ne siano riconosciuti meritevoli, possono essere autorizzati a fare analogo uso del Fascio Littorio con decreto del Capo del Governo.
Giusta il R D. 12 ottobre 1933, n. 1440, relativo alla istituzione del Capo del Littorio, l’emblema del Fascio Littorio deve essere disposto negli stemmi, di cui gli enti anzidetti sono in legittimo possesso ed iscritti nei libri araldici del Regno, sotto forma di Capo, e costituito cioè da un Fascio Littorio in oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali su fondo rosso porpora situato al centro della terza parte superiore dello scudo. Rimangono quindi nello scudo riservati all’ente, i due terzi dello spazio per mettere il suo stemma (fig. 10).

Fig. 10 – Il Capo del Littorio.

Inoltre il Capo del Littorio può essere concesso anche ad altri Enti riconosciuti e a privati che, per servizi resi alla Patria e al Re, ne siano riconosciuti meritevoli. La disposizione in tal caso è disposta con R. D. su proposta del Capo del Governo, udito il Commissario del Re presso la Consulta Araldica.
Di tal che, per effetto dell’art. 4 del R. D. 12 ottobre 1933, che stabilisce che sono abrogate tutte le disposizioni ad esso contrarie o incompatibili, l’emblema del Fascio Littorio non potrà essere più dagli enti su indicati accollato a destra dei propri stemmi, ma potrà pur sempre essere usato dagli enti stessi, purché non caricato sullo scudo, tutte le volte che esso costituisce di per sé ornamento di opere pubbliche.
La procedura per ottenere l’autorizzazione a fregiare il proprio stemma del Capo Littorio, che costituisce un eccezionale riconoscimento di particolari benemerenze, è quella prevista dall’articolo 109 dell’ordinamento.
È da ricordare che in araldica il Capo è la pezza onorevole di primo ordine, e rappresenta il simbolo base e tipico del periodo storico che lo ha prescelto a sua rappresentazione. Siccome serve a ricordare tutta una epoca storica o fatti celebri si pone in testa agli stemmi particolari come un comune denominatore88 . Il Capo è adoperato in ricordo di avvenimenti storici celebri. Si ha per es. il Capo d’Angiò, introdotto in Italia da Carlo d’Angiò, il quale ai guelfi che lo avevano aiutato nell’impresa contro Manfredi (1266) concesse loro di portare nelle armi gentilizie la sua arma in ricordanza del fatto. Esso è d’azzurro a tre gigli d’oro posti fra quattro pendenti di un lambello di rosso. Vi sono poi il Capo d’Angiò Sicilia, detto anche Capo di Napoli, il Capo d’Aragona, il Capo dell’Impero, il Capo di Firenze, il Capo di Francia, il Capo di Francia Antica, il Capo di Leone X, il Capo di Malta, il Capo di S. Stefano, il Capo di Savoia, il Capo di Sicilia, il Capo di Sicilia Svevia.
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88 – GUELFI CAMAIANI, Dizionario Araldico, 2a ed., Milano 1921, voce «Capo».

Stemmi conferiti dal Sommo Pontefice
Per gli stemmi conferiti dal Sommo Pontefice alle persone alle quali possono essere conferiti titoli nobiliari (v. n. 52) nonché agli ecclesiastici, agli ordini religiosi ed agli Enti ecclesiastici in genere, è ammessa dal R. D. 10 luglio 1930 l’autorizzazione all’uso nel Regno, fatti in ogni caso salvi i diritti storici dei terzi. Gli stemmi concessi dalla S. Sede agli alti prelati sono strettamente personali (art. 37 or. nob.).
L’autorizzazione all’uso degli stemmi predetti è fatto con D. R. di autorizzazione seguito da Regie Lettere Patenti.

Lo scudo, i sostegni o supporti e i tenenti. (In nota: Gli smalti e la tratteggiatura).
Lo scudo è il fondo o campo sul quale sono figurate le armi, e nel significato araldica è quella figlia destinata a ricevere gli smalti89 , i colori, le partizioni, gli emblemi di un’arme gentilizia.
Il Re, la Regina ed il Principe Ereditario usano lo scudo pieno delle armi di Savoia: di rosso alla croce d’argento.
Tutti i Principi e le Principesse Reali e del Sangue usano lo scudo di Savoia rotto con la spezzatura speciale della loro linea. Alle linee attuali di Savoia Aosta e di Savoia Genova (fig. 6) il Re concede rispettivamente, la spezzatura di una bordatura composta di oro e d’azzurro e di argento e di rosso.
Le Principesse maritate usano gli scudi accollati di foggia ovata italiana. Le Principesse nubili usano lo scudo a rombo (v. n. 24, 25).
La Regina e le Principesse della Reale Famiglia attorniano gli scudi dell’arme con una cordelliera intrecciata e composta di fili d’oro e d’azzurro, terminata a fiocchi e passata in nodi di Savoia alternati da gruppi. La Regina vedova e le Principesse vedove e nubili portano la cordelliera senza gruppi. La Regina Reggente sostituisce alla cordelliera la grande collana dell’Ordine della SS. Annunziata.
Per le altre persone od enti lo scudo d’arme normale tradizionale in Italia è quello appuntato e per le donne quello ovato.
Sono tollerate le altre foggie di scudi, riservando la forma romboidale alle armi femminine (v. n. 68) (fig. 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25).

 

Nelle concessioni sono da escludere le foggie arcaiche e di torneo inclinate a tacca, a testa di cavallo, ecc. (fig. 26, 27).

Si chiama col nome di sostegni o supporti o tenenti tutto ciò che è posto ad uno o a tutti e due i lati dello stemma per sostenerlo.
Secondo alcuni autori di araldica essi si differenziano fra loro: i sostegni sono colonne, bandiere, alberi, trofei, ecc.; i supporti sono animali, i tenenti sono figure umane. Secondo altri autori e il vocabolario araldico ufficiale si distinguono solo i tenenti dai supporti o sostegni che rappresentano animali o figure non umane. Possono anche aversi figure miste: un tenente e un sostegno.
I sostegni degli scudi d’arme della Famiglia Reale sono di due leoni o al naturale o d’oro, affrontati, controrampanti e rimiranti all’infuori.
Per le altre persone i sostegni o i tenenti si possono riconoscere o concedere.
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89 – Sono chiamati smalti dagli araldisti l’insieme dei colori e dei metalli e pellicce che possono costituire il campo degli stemmi. I colori sono il rosso, l’azzurro, il verde, il nero, la porpora; i metalli sono l’oro e l’argento. Quando le armi non sono dipinte e cioè nelle stampe, nei disegni sul marmo o sul bronzo gli smalti si rappresentano con segni convenzionali detti tratteggi, che indicano: la punteggiatura l’oro; il bianco l’argento; le linee perpendicolari dalla parte superiore all’inferiore dello scudo il rosso; le linee orizzontali dall’uno all’altro lato dello scudo l’azzurro; le linee diagonali tirate dall’angolo superiore destro (sinistro di chi guarda) alla parte inferiore sinistra dello scudo il verde; le linee diagonali tirate dall’angolo superiore sinistro verso la parte inferiore destra il violato o porpora; le linee tirate in croce, cioè orizzontali e perpendicolari insieme, il nero, oppure facendo nere il campo o le figure.

L’elmo e gli svolazzi
L’elmo costituisce una parte integrante esterna dell’arme ed è posto sopra lo scudo. L’uso dell’elmo è concesso anche alle persone che, non essendo nobili, abbiano diritto di portare uno stemma. Gli ecclesiastici, le donne, gli enti morali, in massima non usano l’elmo.

Fig. 28
Elmo rabescato di fronte con manto.

Gli elmi indicano la dignità a seconda degli smalti che li coprono e secondo la loro posizione, la inclinazione della ventaglia e della bavaglia e la collana equestre della gorgiera. La superficie brunita o rabescata, le bordature e cordonature messe ad oro o ad argento, il numero dei cancelli nella visiera non danno indizio di dignità (fig. 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34).

Come ha rilevato il Manno la determinazione del numero dei cancelli per ogni titolo, come è stato fatto dai passati araldisti, sono pedanterie di seicentisti, che non trovano riscontro nei monumenti.
Gli elmi si adornano coi loro veli frastagliati a svolazzi trattenuti sul cocuzzolo da un cercine cordonato in banda. Il cercine o burletto è costituito da strisci e di stoffa, dai colori dell’arme, attorcigliate, ripiegate a ciambella per collocarlo sull’elmo e rattenervi gli svolazzi, detti anche lambrecchini. Il cercine e gli svolazzi sono divisati cogli smalti dello scudo d’arme, a meno di speciali concessioni o di casi storici di inchiesta (fig. 35, 36).

Figg. 35 e 36 – Svolazzi.

Nelle concessioni si descrivono gli smalti degli svolazzi, escludendo le smaltature all’antica fatte con figura o pezze dello scudo.
Gli elmi da sovrapporsi agli scudi d’arme della Famiglia Reale sono d’acciaio, dorati e rabescati, posti di fronte colla ventaglia alzata e la bavaglia alzata, colla collana di corazza dell’Ordine dell’Annunziata, col cercine e gli svolazzi d’oro e d’azzurro e col cimiero di un ceffo di leone alato d’oro. L’elmo del Re è completamente aperto ed è coronato dalla Corona di ferro.
Dai nobili e dalle famiglie di cittadinanza si possono usare tutte le forme di elmi che sono consuetudinarie nell’araldica.
Nelle concessioni si escludono quelle a becco di passero, a berrettone ed altre arcaiche (fig. 37, 38, 39, 40).

Gli elmi delle famiglie nobili sono argentati, colla gorgieretta fregiata di collana e medaglia, colla ventaglia chiusa e la bavaglia aperta, e si possono collocare o di pieno profilo o di tre quarti a destra. Quando lo scudo è fregiato dal manto, l’elmo si colloca di fronte. Essendovi più elmi, i laterali saranno affrontati, quello centrale, se esiste, sarà collocato di fronte.
Gli elmi delle famiglie di cittadinanza sono abbrunati, senza collana, colla visiera chiusa e collocati di pieno profilo a destra, ed in base all’articolo 38 del nuovo ordinamento (v. n. 56) sono adorni di penne dai colori dello scudo, senza cercine, né svolazzi, né motti (fig. 41).

Fig. 41
Elmo di cittadinanza (non visiera a mantice).

La corona
Le corone poste sopra lo scudo servono a distinguere la dignità del proprietario dell’arme. Il posto delle corone di grado è sopra il margine superiore dello scudo, e quando si pone la corona non si deve porre l’elmo. Ciò non toglie, dice il Tribolati, che nell’uso approvato non si pongano regolarmente le corone volanti sugli scudi e si decorino gli elmi delle corone di grado e di dignità.

La corona della Famiglia Reale
Le corone della Famiglia Reale hanno tutte la stessa base d’un cerchio d’oro coi margini cordonati, fregiato con otto grossi zaffiri, su cui cinque visibili, attorniati ciascuno da dodici gemme. Il cerchio è sormontato da quattro foglie di acanto d’oro (tre visibili) caricato in cuore di una perla, separato da quattro crocette di Savoia (due visibili), smaltate di rosso e ripiene di bianco, pomate con quattro perle ed accostate, ciascuna, da due perle collocate sopra una piccola punta, il tutto movente dal margine superiore del cerchio.
Il Re usa due corone: quella Reale di Savoia e quella regale d’Italia. La Corona Reale di Savoia è chiusa da otto vette d’oro (cinque visibili) moventi dalle foglie e dalle crocette, riunite con doppia curvatura, sulla sommità, fregiate all’esterno da grosse perle decrescenti dal centro o sostenenti un globo d’oro cerchiato, cimato, come Capo e Generale Gran Maestro dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, da una crocetta d’oro, trifogliata movente dalla sommità del globo.
La Corona Reale d’Italia è quella detta Corona di ferro che si conserva nel Real Tesoro della Cattedrale di Monza (v. fig. 3).
La corona della Regina è uguale a quella del Re colla sostituzione, alla crocetta trifogliata, di una crocetta piana, d’oro, pomata, alle tre estremità superiori con altrettante piccole perle e movente dalla sommità del globo.
La Corona del Principe Reale Ereditario è simile a quella della Regina, ma con sole quattro vette (tre visibili), moventi dalle foglie.
La Corona dei Principi Reali è chiusa da un semicerchio d’oro, movente dalle foglie laterali, fregiato superiormente con una fila di piccole perle, tutte uguali, e cimato dal globo, cerchiato e crociato, eguale a quello della Corona del Principe Reale Ereditario.
La Corona dei Principi del Sangue non è chiusa. La Corona del Re, della Regina e del Principe Ereditario sono foderate di un tocco di velluto chermisino.

La corona delle famiglie nobili
Le famiglie nobili usano corone d’oro formate da un cerchio, brunito o rabescato, gemmato, cordonato ai margini e sostenente le insegne del titolo o dignità.
La corona corrispondente al titolo nobiliare spetta solamente all’intestatario del titolo. I membri della famiglia dell’intestatario possono usare lo stemma sormontato dalla corona di Nobile.
La corona normale di Principe è sormontata da otto foglie di acanto o fiorone d’oro (cinque visibili), sostenute da punte e alternate da otto perle (quattro visibili) (fig. 42). Sono tollerate le corone di Principe che non hanno i fioroni alternati da perle o che sono bottonati di una perla o che hanno le perle sostenute da punte o che sono chiuse col velluto del manto a guisa di tocco sormontato o no da una crocetta d’oro o da un fiocco d’oro fatto a pennello (fig. 43, 44, 45, 46).

Le famiglie decorate del titolo di Principe del Sacro Romano Impero possono portare lo speciale berrettone di questa dignità (fig. 47). La Corona normale di Duca è cimata da otto fioroni d’oro (cinque visibili) sostenuti da punte. Sono tollerate le corone di Duca coi fioroni bottonati da una perla o chiuse col velluto del manto a guisa di tocco (fig. 48, 49).

Le famiglie che furono riconosciute nell’uso attuale di un titolo di creazione napoleonica possono usare il tocco piumato indicante il loro titolo (fig. 50, 51, 52, 53).

La Corona normale di Marchese è cimata da 4 fioroni d’oro (tre visibili), sostenuti da punte ed alternati da 12 perle disposte a tre a tre in quattro gruppi piramidali (due visibili). Sono tollerate le corone di Marchese coi gruppi di perle sostenute da punte o colle perle a tre a tre una accanto all’altra e collocate o sul margine della corona o sopra altrettante punte (fig. 54, 55, 56, 57).

Fig. 54
Corona normale di Marchese.

La Corona normale di Conte è cimata da 16 perle (nove visibili). Sono tollerate le Corone di Conte colle perle sostenute da punte cimate da 4 grosse (tre visibili) perle alternate da 12 piccole disposte in 4 gruppi (due visibili) di tre perle ordinate a piramide o collocate una accanto all’altra o sostenute dal cerchio o da altrettante punte (fig. 58, 59, 60, 61, 62, 63).
Con la massima 21 febbraio 1915 della Consulta Araldica venne stabilito che la corona da usarsi dai Conti Palatini è quella Comitale a 3 punte alzate e a 6 ribassate.
La Corona normale di Visconte è cimata da 4 grosse perle (3 visibili) sostenute da altrettante punte ed alternate da 4 picçole perle (due visibili), oppure da due punte d’oro (fig. 64, 65).

La Corona normale di Barone ha il cerchio accollato da un filo di perle con 6 giri in banda (tre visibili). Sono tollerate le corone di Barone col tortiglio alternato sul margine del cerchio da 6 grosse perle (4 visibili), oppure omesso il tortiglio colla cintura di 12 perle (7 visibili) o collocate sul margine del cerchio o sostenute da altrettante punte (fig. 66, 67, 68, 69).
La Corona normale di Nobile è cimata da 8 perle (5 visibili). È tollerata la corona di Nobile colle perle sorrette da altrettante punte (figure 70, 71).

La Corona normale di Cavaliere ereditario è cimata da 4 perle (3 visibili) (fig. 72).
Le famiglie decorate del Cavalierato germanico possono fregiare lo scudo d’arme secondo le varie insegne state attribuite, nei diversi tempi, nei diplomi di concessione.
La Corona normale di Patrizio è formata dal solo cerchio. Per quei patriziati pei quali potrà essere dimostrato con documenti o monumenti di storica importanza che godettero l’uso molto antico di corone speciali, queste potranno essere riconosciute caso per caso (fig. 73).
Con la massima 8 giugno 1911 la Consulta stabilì che i Patrizi Veneti possono far uso di una corona speciale formata da un cerchio d’oro gemmato sostenente 8 fioroni (5 visibili) a foggia di gigli stilizzati ed imperlati sostenuti da altrettante perle (fig. 74).

 

Le famiglie nobili o patriziali senza possesso di titolo speciale di nobiltà usano la corona collocandola sopra l’elmo. Le famiglie insignite della nobiltà germanica possono usare l’elmo cimato dalla coroncina tornearia, cioè di 4 fioroni (tre visibili) alternati da 4 perle (2 visibili); ma questa corona non si può usare staccata dall’elmo, del quale è fregio speciale e indivisibile (v. fig. 34).
Le famiglie titolate fregiano il loro scudo con due corone: una più grande appoggiata al lembo superiore dello scudo e contornante l’elmo ed un’altra più piccola sostenuta dall’elmo stesso. La corona maggiore sarà quella relativa al titolo personale, la minore quella del titolo più elevato della famiglia (fig. 75).

Fig. 75
Corona del titolo personale (Nobile) con l’elmo cimato della Corona di famiglia (Conte) N. N. Nobile dei Conti.

I Cardinali, gli ecclesiastici regolari, i Cavalieri di giustizia e professi dell’Ordine di Malta non portano la loro corona gentilizia, ma le insegne speciali della loro dignità e qualità (fig. 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83).

Le donne maritate usano la corona corrispondente al grado del loro consorte; le donne nubili, a meno di concessioni speciali, portano la sola corona del titolo personale.

La corona degli enti morali: Provincia, Città, Comune
Anche gli enti morali possono fregiare la loro arme o insegna con quelle corone speciali delle quali si proverà la concessione o il possesso legale.
La Corona della Provincia (a meno di concessione speciale) è formata da un cerchio d’oro, gemmato, colle cordonature liscie ai margini, racchiudente due rami, uno d’alloro e uno di quercia al naturale, uscenti dalla corona, decussati e ricadenti all’infuori (fig. 84).
La Corona di Città (a meno di concessione speciale) è formata da un cerchio d’oro aperto da 8 pusterle (5 visibili) con due cordonate a muro sui margini sostenente 8 torri (5 visibili) riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero (fig. 85).
La Corona di Comune (a meno di concessione speciale) è formata da un cerchio aperto da 4 pusterle (3 visibili) con 2 cordonate a muro sui margini, sostenente una cinta, aperta da 16 porte (9 visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, e il tutto murato di nero (fig. 86).

Il cimiero, la ornamentazione della basilica, il manto, i motti e le distinzioni di dignità.
Il cimiero 1 è una figura che cima l ‘elmo, e si colloca sul suo cocuzzolo. Per le famiglie titolate esce dalla piccola corona di famiglia. In massima non si concedono cimieri se non a famiglie nobili e titolate, e si escludono per gli stemmi che non portano l’uso di elmo (fig. 87, 88).
L’art. 37 dell’ordinamento nobiliare stabilisce che l’uso del cimiero in forma di Corno Dogale spetta ai Patrizi Veneti discendenti per linea retta maschile dai Dogi di Venezia (fig. 89).

Ove la discendenza diretta maschile sia estinta, l’uso di tale cimiero può essere riconosciuto a favore della linea collaterale agnatizia prossimiore.
In base all’articolo predetto l’ornamentazione araldica della Basilica , è riconosciuta ai capi delle famiglie papali e di quelle che ne hanno ottenuta speciale concessione.
Il manto o mantello è riservato al Re, alla Regina, al Principe Reale Ereditario, ai Principi Reali, ai Principi del Sangue, e come distinzione ereditaria è annessa solo ai titoli di Principe e di Duca.
Il Re ha due manti, il grande ed il piccolo. Il grande che serve di cortinaggio al padiglione è di velluto chermisino, sparso di ricami d’oro e d’argento, bordato di un gallone d’oro dell’Ordine Supremo, guarnito di frangia e foderato di ermellini. Il piccolo è di velluto chermisino, bordato, guarnito e foderato come il grande.
La Regina e il Principe Ereditario usano il piccolo manto reale.
Il manto dei Principi Reali e di quelli del Sangue è di velluto chermisino, foderato di ermellini, ma quello dei primi è guarnito di frangia d’oro e quello dei secondi è bordato con una striscia di ermellino.
I manti della famiglia Reale si annodano in alto con cordoni d’oro passati in nodi di Savoia. Il manto dei Principi e dei Duchi è di velluto porpora soppannato di ermellino senza galloni, ricami, bordature e frangie, e si colloca movente o dall’elmo o dalla corona, accollato allo scudo annodato ai lati in alto con cordoni d’oro (figure 90, 91).

I motti si scrivono sopra liste bifide e svolazzanti smaltate come nel campo dello scudo e scritte con lettere maiuscole romane (fig. 92).

Fig. 92
Motto.

Di regola si collocano sotto la punta dello scudo. Si rispettano le tradizioni storiche per i motti scritti con caratteri speciali e per i gridi d’armi. Nelle concessioni i motti saranno italiani o latini e scritti con lettere non arcaiche. Non si fanno concessioni di gridi d’arme, di pennoni, di bandiere, bracciali e altre insegne.
I Cavalieri dell’Ordine della SS. Annunziata possono accollare al loro scudo il manto dell’ordine, gli ecclesiastici possono usare le insegne della loro dignità, i magistrati aventi il grado di primo presidente possono accollare lo scudo colle mazze e colla toga delle loro dignità e cimarlo col rispettivo tocco (fig. 93, 94).

Gli ufficiali generali di terra possono accollare al loro scudo le bandiere nazionali decussandole in numero di sei se generali comandanti di corpo d’armata, di quattro se tenenti generali, di due se maggiori generali (fig. 95, 96, 97). Gli ufficiali generali di mare possono accollare il loro scudo ad un’ancora se contrammiraglio; a due ancore decussate se vice ammiraglio (fig. 98, 99).

I decorati di ordini equestri possono fregiare il loro scudo colle insegne delle loro decorazioni. I cavalieri di gran croce decorati del gran cordone dell’ordine dei SS. Maurizio o Lazzaro continuano a cingere lo scudo con la gran fascia verde annodata da più cifre reali coronate d’oro (fig. 100).

Fig. 100
Insegne della dignità di Gran Cordone Mauriziano.

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1 – La Basilica, secondo il Manno (Vocabolario Araldico cit.), è raffigurata da un gonfalone papale a guisa di ombrellone a gheroni rossi e gialli coi pendenti tagliati a vaio e di colori contrastanti; l’asta a forma di lancia coll’arresto ed attraversata dalle chiavi pontificie, una d’oro e l’altra d’argento, decussate, addossate gli ingegni in alto, legate di rosso. La massima 51 della Consulta Araldica riporta la definizione della Basilica: « il gonfalone della Camera Apostolica accollato con le chiavi pontificie, cimandone lo scudo e ponendola in capo, secondo la tradizione ».

Le insegne femminili
Circa le insegne femminili è stato detto sopra (n. 61) per quanto riguarda la Famiglia Reale.
Per le altre donne, le nubili possono portare l’arma della famiglia sopra un carello o tessera romboidale (v. n. 61) od ovata cimata dalla corona del loro titolo personale e circondata da una cordigliera d’argento sciolta o da una ghirlanda di rose (fig. 101, 102).

Le maritate portano le insegne gentilizie di nascita, accollate ed a sinistra di quel del marito colla corona che gli appartiene, e possono fregiare gli scudi colla cordigliera d’argento annodata o con due rami di olivo decussati sotto la punta degli scudi e divergenti (fig. 103, 104, 105, 106).

Le dame vedove portano le insegne gentilizie come le donne maritate, ma colla cordigliera sciolta, oppure con 2 rami di palma decussati sotto la punta dello scudo (fig. 107, 108).

Le insegne femminili di massima non sono fregiate da elmi, cimieri, sostegni e tenenti. Possono usare i motti.
Per le armi femminili di cittadinanza si ometteranno tutti gli ornamenti esteriori, fuorché i motti.

Le tasse nobiliari e i diritti di cancelleria
In base all’art. 30 dello statuto del Regno nessun tributo può essere imposto ai cittadini o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re.
I provvedimenti relativi ai titoli nobiliari, sia di grazia che di giustizia, dato che importano la prestazione di un servizio, sono sottoposti al pagamento di speciali tasse, che sono stabilite mediante provvedimento legislativo.
Questi provvedimenti sono il R. D. Legislativo 30 dicembre 1923 n. 3279, il R. D. 10 luglio 1930,
n. 974; il R. D. 22 settembre 1932 n. 1464. Le tasse riguardo ai titoli nobiliari sono:
Per i provvedimenti di grazia:
Per concessione di titoli e predicati nobiliari nazionali, o per autorizzazione a riceverli da Potenza estera o per conferma di quelli ricevuti:
Per il titolo di Principe L. 72.000
Per il titolo di Duca L. 60.000
Per il titolo di Marchese L. 36.000
Per il titolo di Conte L. 30.000
Per il titolo di Visconte L. 18.000
riducibili a 3/5 qualora i titoli non siano trasmissibili agli eredi. Nel caso di concessione con motu proprio la tassa è ridotta a 1/3.
Per qualunque altro titolo o per l’aggiunta anche contemporanea di predicato L. 9600.
Per rinnovazione o riconoscimento dei titoli o predicati suddetti la tassa è ridotta a 3/5 di quella sopraindicata.
Per concessione o approvazione di stemmi a privati, società o altri enti; o per conferma di stemmi concessi da Potenze estere: per gli stemmi civici L. 120, per gli altri stemmi se trasmissibili agli eredi L. 1440, se non trasmissibili L. 1080.
Per rinnovazione o riconoscimento di stemmi 3/5 di quella suddetta.
Per amplificazione di stemmi, esclusi quelli civici, L. 600.
Per l’autorizzazione a fare uso di decorazioni ed onorificenze che facciano parte di ordini stranieri ritenuti cavallereschi secondo i concetti tradizionali: se sono ereditarie o importino titolo ereditario la tassa è di L. 108; in ogni altro caso, importino o no titolo ereditario, L. 36.
La tassa di autorizzazione è dovuta indipendentemente da quella di concessione di titolo e predicato nazionale o per autorizzazione a ricevere o far uso di titoli esteri.
La tassa è però ridotta a metà per i pubblici funzionari o i militari.
Non sono comprese fra le onorificenze cavalleresche le onorificenze al merito o al valore conferite in segno di riconoscimento di speciali atti individuali di benemerenza, né le medaglie ed altre decorazioni commemorati ve distribuite a chi ha preso parte ad un dato avvenimento indipendentemente dall’azione personale svoltavi.
Per i provvedimenti di giustizia la tassa è ridotta ad 1/20 di quella stabilita per quelli di grazia, a seconda della diversa natura dei provvedimenti di giustizia, in base al R. D. 22-9-1932 n. 1464, riportato al n. 128 (v. n. 106).
Ma oltre queste tasse riscosse dallo Stato, alle spese del servizio araldico viene provveduto mediante la percezione di appositi diritti di cancelleria che sono dovuti a titolo di rimborso delle spese sostenute dallo Stato e la cui riscossione a cura dell’Ufficio Araldico è eseguita dal cassiere della Presidenza del Consiglio dei Ministri come stabilisce l’art. 108 dell’ordinamento nobiliare modificato dal R. D. 6 novembre 1930 n. 1494, che determina la nuova misura dei diritti di cancelleria anzidetti. Con Decreto del Capo del Governo 20 febbraio 1931 sono stati temporaneamente aumentati i diritti di cancelleria.

Modi di acquisto delle distinzioni nobiliari: originario e derivato; raffronto. La investitura – Il privilegio
È stato detto che parti innovative del nuovo ordinamento sono quelle concernenti le norme generali per la concessione, il riconoscimento, l’uso e la perdita delle distinzioni nobiliari e la successione ai titoli e attributi nobiliari.
Alla luce delle premesse storiche e giuridiche sovra esposte non poche disposizioni dell’ordinamento riusciranno di chiara interpretazione e dimostreranno che le disposizioni stesse sono state prevalentemente uniformate alle tradizioni dell’ex Regno delle due Sicilie, la cui nobiltà aveva dato luogo alla quasi totalità delle vertenze giudiziarie svoltesi in materia araldica dal 1860 in poi.
È anche da ricordare che il nuovo ordinamento cerca, per quanto lo consentano i suoi principi informatori, di rispettare i diritti già costituiti.
Poichè fonte di tutte le distinzioni nobiliari è il Sovrano, non possono essere riconosciute quelle di cui non si possa giustificare l’avvenuta concessione originaria o altro modo legittimo di acquisto, nonchè la legittimità del trapasso in favore di colui che ne chiede il riconoscimento (articolo 13).
A proposito di questo articolo è da ricordare che, come si è visto (n. 47, 48, 49), le distinzioni nobiliari possono sorgere, in seguito a manifestazione della volontà Sovrana, con la forma o della concessione, o della rinnovazione, o del riconoscimento, forme queste che costituiscono il modo originario di acquisto.
Accanto a questo modo originario ve ne è un altro, chiamato derivato, che è quello in cui non interviene la manifestazione attuale della volontà Sovrana, ma l’acquisto delle distinzioni nobiliari si verifica in virtù delle disposizioni contenute in una antica concessione Sovrana, e ciò avviene nell’acquisto dei titoli mediante successione.
È stato già detto (n. 9) che nella sua origine il titolo nelle leggi feudali era generalmente connesso col feudo, il quale fu dapprima concesso intuitu personae, cioè personalmente, e poi successivamente fu ammessa la successione nei feudi. Col decadere del feudalesimo il titolo venne anche scisso dal feudo e potè effettuarsi la vendita del feudo, retenti titulo.
Parlando della successione nei feudi (n.ri 8, 9, 10, 15, 16) è stato detto del modo con cui essa avveniva secondo il diritto franco, longobardo, o nella forma napoletana e siciliana, per cui per vedere in qual modo si verificava la successione nei titoli bisognava anzitutto far capo ai patti e clausole contenute nell’atto di concessione del feudo, detto investitura2.
Era poi dottrina feudale accolta che se dalla investitura si rilevava la volontà espressa del concedente e dell’investito di alterare la comune essenza del feudo, questa volontà andava rispettata prima di applicarsi il diritto romano comune. Siccome poi nelle consuetudini feudali (libro II, titolo 30 e 50) si accennava che, quando nell’investitura erano espressamente compresi i figli e i discendenti, spettava loro la successione ex pacto (feudale), allorquando invece si trovava nella investitura tassativa menzione degli haeredes o successores doveva intendersi per diritto romano che nel feudo erano successibili gli eredi ed i successori estranei (v. n. 8).
Bisognava poi però tener conto delle disposizioni legislative intervenute successivamente alla concessione che allargassero o restringessero le regole di successione nei feudi nei singoli Stati, o impedissero la successione nei titoli. Così per esempio le R. Costituzioni 7 aprile 1770 di Carlo Emanuele III in Piemonte (v. n. 19 A), la clausola per sé e suoi eredi e qualsivoglia successori apposta nelle investiture già concesse, dei feudi era dichiarata per sé stessa non atta ad immutare la natura del feudo semplice, retto e proprio, e nonostante detta clausola i feudi dovevano considerarsi come conceduti per retti e propri.
Inoltre la clausola d’eredi e successori che si trovasse in qualsivoglia modo apposta nelle investiture dei feudi non avrebbe dovuto intendersi se non degli eredi e successori del sangue e si avrebbero avuto con essa per chiamati solamente i figli e discendenti, abolita la specie di feudo misto (libro VI, titolo III, cap. 1).
Così è da ricordare che mentre per diritto feudale comune la confisca dei beni non comprendeva anche i titoli, i quali venivano perduti dal colpevole, ma non da chi doveva succedergli (v. n. 9), in taluni Stati, e fra essi la Toscana, venne stabilito con la legge 31 luglio 1750 che pel delitto di lesa maestà erano privati dei titoli non solo il reo, ma anche i suoi figli e nipoti, nati prima e dopo la condanna, e per gli altri delitti non venivano privati dei titoli i figli e i nipoti nati prima della condanna (v. n. 20 I). È anche da ricordare che fu ritenuto che per regola i titoli non potessero formare oggetto di vendita, donazione, testamento, legato (v. n. 9, 15), concetto questo confermato dallo Stato Italiano con Decreto ministeriale 13 marzo 1888, affermante che nei casi di vendita di terre ex feudali su cui erano annessi titoli nobiliari, gli acquirenti non acquistavano alcun titolo nobiliare.
Inoltre i figli naturali ed adottivi erano esclusi dalla successione (v. n. 86, 88).
Ma a tutte le anzidette regole sulla successione nei titoli in uso nelle varie regioni del Regno sono subentrate dal 7 settembre 1926 le disposizioni del nuovo ordinamento (art. 53 a 68).
È stato fatto sopra cenno del termine investitura. Esso viene adoperato in vari significati: per indicare la cerimonia solenne nella quale il vassallo piegando il ginocchio prometteva fedeltà al proprio Sovrano e questi a sua volta gli concedeva protezione e gli conferiva simbolicamente il feudo, mediante la consegna in mano di un bastone, di una spada, di una coppa d’oro, di un ramo d’albero detto festuca, e con l’anello ed il bacolo per i prelati; per indicare il documento, le pergamene o le carte in cui venivano scritti i patti feudali e che avrebbero servito come titoli perpetui ai feudatari e di cui copia rimaneva al Sovrano; per indicare la rinnovazione del titolo che il Sovrano concedente faceva ad ogni successore nel feudo o nuovo acquirente dopo la morte del suo autore.
L’investitura da principio avveniva con la sola cerimonia simbolica, donde il sorgere di liti sulla effettiva concessione del feudo e sulla natura del feudo concesso ai fini della successione (v. n. 8); successivamente accanto alla investitura simbolica si ebbe la consegna del documento della concessione feudale, detto privilegio. Nell’Italia meridionale, fin dal tempo del Conte Ruggero il Normanno venivano usati i diplomi di concessione di feudi. Successivamente ancora la cerimonia simbolica venne abolita, ed il privilegio sostituì l’investitura. Cessati i feudi di essere personali e trasformati in ereditari, nei casi di successione e di acquisto, colui che subentrava chiedeva al Sovrano la rinnovazione del titolo in di lui favore (detta investitura) ed il Sovrano, prima di concederla, esaminava la legittimità del diritto di colui che chiedeva la rinnovazione. Il Sovrano, oltre che nei casi di reversione dei feudi alla Corona, era interessato alla rinnovazione, perché percepiva ad ogni trapasso una data somma, detta relevio. La investitura era anche dovuta nei casi di cambiamento di Sovrano.
Nel mezzogiorno d’Italia si usava in ogni privilegio di rinnovazione inserire testualmente tutti i privilegi delle investiture passate sin dalla prima concessione del feudo. In Sicilia per effetto del capitolo 12 di Re Giovanni del 1458 non si inserirono più nelle investiture, che fossero state già prese con la formula per sé e successori, i privilegi di tutti i predecessori, bastando il giuramento di omaggio e fedeltà. In proposito la Consulta ha formulato la massima 97.
Nei tempi moderni si usa un sistema opposto:
il documento originale Sovrano viene conservato nei pubblici archivi, e agli interessati è rilasciata una copia autentica del provvedimento, ma date le speciali consuetudini della materia, oltre al Decreto Reale è emesso dal Sovrano e da lui sottoscritto apposito documento detto Lettere Patenti, che viene spedito al titolare della concessione a prova di essa.
Così fin dal regolamento del 1870, all’art. 30 di quello del 1896 venne stabilito che gli atti Sovrani riguardanti materie nobiliari e araldiche avevano luogo mediante DD. RR., sottoscritti dal Re e registrati alla Corte dei Conti, trascritti in apposito registro nel R. Archivio di Stato di Roma, e conservati in originale nell’archivio della Consulta Araldica. Gli art. 8 e 9 del nuovo ordinamento si uniformano a questi concetti allorquando stabiliscono: che i provvedimenti nobiliari emanati mediante Decreti Reali sono controfirmati dal Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, registrati alla Corte dei Conti, trascritti in apposito registro del R. Archivio di Stato di Roma e conservati in originale nell’archivio della Consulta Araldica del Regno (art. 8), e che alla persona, in favore della quale sia stato emanato un Decreto Reale è spedito un diploma in forma di Regie Lettere Patenti, sottoscritte dal Re, controfirmate dal capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, trascritte a cura del Cancelliere in speciale registro presso la Consulta Araldica (art. 9).
Attualmente in Italia, in base all’art. 79 dello statuto del Regno la trasmissione ereditaria dei titoli avviene senza bisogno di alcuna investitura, purché si abbiano i requisiti per concorrere alla successione nobiliare, requisiti che sono diversi da quella legittima (v. n. 85).
Quanto sopra è stato detto rende quindi chiaro che cosa debba intendersi per concessione originaria di distinzioni nobiliari, per modo legittimo di acquisto di esse, e per legittima devoluzione di esse, di cui si parla all’art. 13 surricordato dell’ordinamento.
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2 – Quando il fondatore abbia stabilito che la successione nella discendenza femminile si debba svolgere jure francorum, ogni qualvolta si verifichi il concorso di maschi con femmine, i primi hanno la preferenza, anche quando siano collaterali nel rapporto alla linea già investita. – C. App. Catania 5-12-1932, Paternò – Impellizzeri, Rass. Giudiz., 1933, 1, 38.

Incommerciabilità, imprescrittibilità, divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso
Gli art. 14 e 15 stabiliscono che le distinzioni nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atti tra vivi o di ultima volontà, e che non si estinguono per mancato uso, né si acquistano per lungo uso, salvi gli effetti dei riconoscimenti avvenuti prima dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento.
Queste disposizioni che rendono le distinzioni fuori commercio si uniformano alla tradizione storica, confermata dalla più recente legislazione napoletana e italiana (n. 16 e 70) dato che, essendo venuto a mancare il substrato economico del feudo, dopo l’abolizione della feudalità, le distinzioni sono rimaste titoli onorifici della personalità. Per il fatto stesso di essere fuori commercio, le distinzioni sono anche imprescrittibili e quindi non si estinguono per mancato uso .
Inoltre resta nell’erede del concessionario il diritto di rivendica delle distinzioni anche se di esse per lungo tempo non sia stato fatto uso3.
Anche nel diritto feudale la prescrizione non fu ammessa come causa di perdita dei feudi; la dizione esplicita poi dell’art. 14 dell’ordinamento elimina ogni dubbio sulla possibilità della prescrizione sia acquisitiva che estintiva dei titoli, che poteva nascere dalla locuzione adoperata dall’art. 51 del regolamento del 1896 che parlava di concessione originaria non prescritta o perduta.
Relativamente al divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso, lo stesso art. 14, mentre afferma un principio opposto rispetto al regolamento del 1896, ha voluto rispettare i diritti quesiti per quei riconoscimenti già avvenuti prima dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento, e per quelle domande che fossero ancora in corso di istruttoria o presentate entro il 31 dicembre 1932, ed all’uopo sono state dettate norme nell’art. 133 dell’ordinamento.
Per una migliore intelligenza di dette norme è da ricordare, dato che i documenti originali di concessione dei titoli potevano essere andati smarriti attraverso le vicende dei secoli, che gli articoli 27 b) e 28 del regolamento succitato ammettevano il riconoscimento del titolo o predicato non feudale con atto Sovrano quando il relativo possesso fosse fondato sull’uso pubblico e pacifico per quattro generazioni anteriori a quella del chiedente, e con atto governativo ove l’uso fosse risalito ad oltre quattro generazioni (v. n. 49). Il successivo art. 29 stabiliva i mezzi di prova dell’uso con la comminatoria che in tutti i casi la prova del possesso non poteva valere se fosse risultato che l’uso fosse proceduto da una usurpazione o da una errata interpretazione della concessione, ed il possesso era da ritenere prescritto se fossero intervenute deliberazioni di collegi o magistrati o autorità competenti che lo avessero già dichiarato infondato.
Senonchè la esperienza aveva dimostrato che la grandissima maggioranza delle istanze presentate, fondate sul lungo uso, avevano base nell’abuso inveterato o nella frode, per cui si rendeva necessario chiudere l’adito ad ulteriori tentativi, mediante la abolizione dell’istituto, rispettando i diritti quesiti, e stabilendo norme più rigide per quei riconoscimenti ricadenti durante l’applicazione delle disposizioni transitorie.
L’art. 133 del nuovo ordinamento stabilisce infatti che il divieto di acquisto delle distinzioni nobiliari per lungo uso non si sarebbe applicato alle domande che sarebbero state presentate entro il 31 dicembre 1932 per il riconoscimento della semplice nobiltà di un titolo primogeniale non ex feudale, senza qualifiche né predicati, del quale in difetto della prova di un atto di concessione, l’istante avesse potuto giustificare il possesso pubblico e pacifico per lungo uso durato per cinque generazioni consecutive, anteriori alla costituzione della Consulta Araldica avvenuta con R. D. 10 ottobre 1869, n. 5318, dimostrando altresì che nell’antico Stato al quale la famiglia dell’istante apparteneva il possesso per lungo uso era considerato prova sufficiente di nobiltà. Tale possesso doveva essere provato con almeno tre documenti autentici per ogni generazione, dei quali uno almeno per ogni generazione doveva provenire dal potere Sovrano. Le enunciazioni e le qualifiche negli atti dello stato civile, nei pubblici istrumenti o in altri atti che provenissero anche indirettamente dalla volontà degli interessati non costituivano sufficiente prova.
La prova del possesso, anche se completa, non aveva efficacia se risultava che l’uso del titolo procedeva da usurpazione o da erronea interpretazione di un atto di concessione, o se l’uso fosse stato dichiarato illecito da sentenza di magistrato o da dichiarazione di collegio o di autorità competente.
Il riconoscimento aveva luogo mediante decreto del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, previo parere della Consulta Araldica.
Dopo il 31 dicembre 1932 nessuna domanda di riconoscimento in base a lungo uso sarebbe stata più ammessa; le domande che fossero state respinte per qualsiasi motivo prima di tale data non avrebbero potuto essere ripresentate.
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3 – SABINI, L’imprescrittibilità dei diritti nobiliari, in «Riv. Dir. Pubb. », 1929, II, pag. 276 e L’ordinamento cit., pag. 111.

La surrogazione nel titolo in seguito a réfuta
L’istituto della refuta (v. n. 12) che aveva dato luogo a varie questioni di interpretazione, e a vertenze giudiziarie, specie per titoli nobiliari di concessione napoletana e siciliana, venne abolito con lo statuto nobiliare del 1926.
Il nuovo ordinamento prevede però un istituto consimile, e cioè una rinnovazione del titolo in seguito a refuta. In tal caso la refuta di un titolo, mediante rassegna di esso al Re da parte dell’intestatario, può essere accettata con atto Sovrano portante rinnovazione del titolo previo parere della Consulta Araldica, in favore di un discendente maschio ultrogenito, o, in difetto di discendenti maschi, di un fratello germano dell’intestatario da questi designato, purché il titolo non sia quello più elevato in grado, o che dà il nome d’uso alla famiglia e purché risulti da scrittura autentica il consenso di tutti i successibili intermedi. Se fra questi successibili vi sono dei minorenni, la refuta non sarà autorizzata prima che, trascorso almeno un anno dal raggiungimento della rispettiva maggiore età, ciascuno di essi abbia prestato il proprio consenso (art. 16).
Non siamo qui di fronte alla refuta vera e propria, ma alla cosidetta surrogazione in seguito a refuta, dato che trattasi di trasmissione del titolo fuori dell’ordine della successione diretta e con speciali garanzie per i successibili intermedi che possano essere danneggiati. Il Biscaro nella sua relazione al Re sull’ordinamento nobiliare erasi mostrato contrario alla conservazione ed alla estensione nelle altre regioni di questo istituto, proprio dell’ex reame di Napoli, per il pericolo che, nonostante le più rigorose cautele, si possa far servire la refuta quale artifizio per nascondere un mercato del titolo, sia pure nella cerchia ristretta dell’agnazione.

Acquisto della nobiltà per nascita o per concessione
È stato detto che la nobiltà può essere di vecchia creazione e che viene riconosciuta legalmente, oppure di nuova concessione Sovrana (v. n. 30). Nel caso che si tratti di vecchia nobiltà che venga riconosciuta, essa, perché già preesistente, si acquista da tutta la discendenza dal primo giorno della nascita, nel caso invece di nuova concessione si acquista dal giorno della concessione (art. 17).

Acquisto della nobiltà per matrimonio. (In nota: Il matrimonio morganatico)
Per i principi di diritto civile che regolano il matrimonio, la moglie segue la condizione del marito e ne assume il cognome (articolo 131 c. c.).
Tale principio è applicato nell’ordinamento nobiliare che stabilisce che la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva durante lo stato vedovile (art. 18). La massima 17 della Consulta, dalla quale l’articolo è derivato, aggiungeva che i figli non acquistano nobiltà pel fatto solo della nobiltà materna. In base all’articolo 18 dell’ordinamento è eliminato nelle famiglie nobili italiane il matrimonio morganatico, il quale è rimasto oggigiorno soltanto nelle Famiglie Regnanti4. Il. titolo che viene assunto dalla moglie non è proprio quello del marito, ma la forma femminile di esso. Inoltre esso viene perduto nel caso di scioglimento del matrimonio per causa diversa della morte del marito, come l’annullamento o il divorzio. Anche la Principessa moglie del Principe Ereditario e le consorti dei Principi della Reale Famiglia assumono la qualità ed il titolo del Principe marito (reg. 1890 art. 3 e 8).
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4 – Già per il diritto romano e germanico era vietato il matrimonio fra persone di condizione diversa. Per il diritto feudale furono considerate come concubinati le unioni di maschi appartenenti alle classi feudali con donne di altre classi o di grado inferiore anche se libere, ma la Chiesa fece prevalere il suo concetto che queste unioni fossero matrimoni indissolubili, sia pure con effetti giuridici limitati, donde derivò il nome di matrimonio morganatico (dal tedesco morgengabe: dono fatto dal marito alla m0glie il giorno dopo le nozze e di cui essa rimaneva proprietaria, e che in seguito diventò l’assegno maritale più importante, detto anche matrimonio della mano sinistra, di disparaggio, secondo la legge salica. Per detto matrimonio la moglie non veniva elevata al grado del marito, non partecipava ai titoli, agli onori, ai privilegi del marito, alla successione nel feudo, e i figli, pur essendo legittimi, seguivano la condizione della madre e non entravano nella famiglia paterna. La moglie e i figli nati da essa avevano diritto soltanto ai beni che il marito assegnava alla moglie al momento del matrimonio. Anche dopo l’abolizione del feudalesimo le famiglie della più alta nobiltà continuarono a ritenere che la nobiltà del marito non si comunicasse alla moglie, se figlia di commercianti o di artieri, né ai figli. Il matrimonio morganatico è rimasto oggigiorno solo nelle famiglie regnanti (per maggiori notizie v. SALVIOLI, op. cit., pag. 410). È controverso se il matrimonio in parola produca nei tempi moderni effetti civili, generalmente però si ritiene che esso sia una comunione nel sangue, non nei beni e nel grado, e quindi la moglie non assume il cognome del marito ed i figli prendono il cognome della madre, di cui seguono la condizione civile. Non manca in Italia qualche autore (STOLFI, Diritti di famiglia, pag. 141) che sostenga che il matrimonio morganatico produca effetti civili. Nello scorso secolo il matrimonio morganatico fu contratto in Italia da due Sovrani, però mediante il s0l0 vincolo religioso. Attualmente per il matrimonio dei Principi Reali è richiesto in base all’art. 69 c. c. l’assenso del Re, il quale per le R. Patenti 13 settembre 1780, che sono ritenute tuttora in vigore, può consentire che un Principe della sua Casa sposi una donna che non sia di sangue reale, purché di antico ed illustre lignaggio, il matrimonio di Principi Reali contratto senza l’osservanza di tali norme non è riconosciuto valido agli effetti della appartenenza alla Famiglia Reale e fa decadere i Principi, in base alle succitate R. Patenti «dal possesso dei diritti provenienti dalla Corona e dalla ragione di succedere nei medesimi, come pure da ogni onorificenza e prerogativa della Famiglia». Secondo l’Arangio Ruiz (Ist. dir. cost. cit., pag. 416) il Re che faccia un matrimonio diseguale non perde tale sua qualità, soltanto la moglie e i figli non fanno parte della Famiglia Reale, e il matrimonio diseguale compiuto da Principi della Famiglia Reale può diventare legittimo con l’ammissione del matrimonio stesso e delle conseguenti nascite nei registri dello speciale stato civile per la Famiglia Reale, di cui all’art. 370 c. c., ma la legittimazione deve esser fatta per legge.

La primogenitura – L’abuso dei diminuitivi
Ai fini della determinazione della primogenitura nel caso di parto gemello, si considera primogenito il primo venuto alla luce (articolo 19). Pei figli dei titolati, vivente il padre, non esistono scientificamente i diminutivi, ad esempio, di Marchesino, di Marchesina, di Contino, di Contessina, che costituiscono abusi. Solo i figli e le figlie del Re, i figli del Principe Ereditario di ambo i sessi hanno il titolo di Principi e Principesse Reali, e i nipoti del Re figli di Principe fratello e i figli e discendenti dei nepoti del Re e del Principe Ereditario, di ambo i sessi, hanno il titolo di Principi e Principesse del Sangue (art. 4, 5, 6, 7, reg. 1890).

Il titolo ex feudale appoggiato al cognome
Per seguire una tradizione storica (n. 20 L) è riconosciuto ai primogeniti Capi di famiglie romane, insigniti di titoli ex feudali di Principe o Duca, Marchese e Conte, l’antico uso di appoggiare il titolo principale al cognome, anzichè al predicato feudale (art. 22). Per aversi però uniformità di trattamento per gli investiti di titoli di tutte le regioni del Regno, lo stesso uso può essere riconosciuto, su domanda, mediante decreto del Capo del Governo, ai capi di quelle famiglie ex feudali delle altre regioni d’Italia che si trovano nelle stesse condizioni. Sono inoltre fatti salvi i riconoscimenti di tale uso già avvenuti (art. 22).

Divieto di rinnovazione e di passaggio ad altra famiglia di titoli concessi da Potenza estera
Per il fatto che la concessione dei titoli presuppone l’esercizio della sovranità, o due sovranità non possono essere concorrenti, i titoli ed attributi nobiliari concessi da una Potenza estera non possono formare oggetto di rinnovazione né di passaggio ad altra famiglia (art. 23).

I titoli concessi da Sovrani italiani prima dell’unificazione nazionale. (I titoli del Sacro Romano Impero, quelli conferiti da Napoleone I, da Murat, di Conte Palatino).
Per il principio della successione di Stato a Stato sono però considerati come titoli italiani, e ad essi equiparati, quelli concessi da Sovrani italiani o stranieri che regnarono nelle varie parti d’Italia prima della unificazione nazionale (v. n. 19, 20, 21) ai propri sudditi, qualora questi o i loro successori aventi diritto ai titoli, abbiano acquistato la cittadinanza italiana per effetto della unificazione, o in virtù di decreto di naturalizzazione (art. 30).
Per certi titoli sono poste però delle limitazioni, determinate da ragioni diverse. Così i titoli del Sacro Romano Impero (cessato il 6 agosto 1806 in seguito alla rinuncia alla corona imperiale d’Austria e di Germania fatta da Francesco II d’Asburgo) conferiti a famiglie italiane, sono riconosciuti nei limiti della concessione; ma non sono rinnovabili, né possono passare da una in altra famiglia (art. 26), dato che trattasi di titoli di impero scomparso, ed è quindi venuta a cessare la giurisdizione del Sovrano sui feudi imperiali. Detti titoli come è stato detto a proposito di quelli di Conte (v. n. 36) presentano la caratteristica che sono conferiti a tutti i membri della famiglia, maschi e femmine che fossero. Non devono però esser confusi i titoli del S. R. I. concessi fino alla sua cessazione, con quelli concessi successivamente dallo stesso Imperatore che assunse il nome di Francesco I d’Austria, per quanto egli abbia dichiarato in occasione della rinuncia al S. R. I. che d’allora innanzi gli Stati austriaci avrebbero costituito l’impero.
I titoli conferiti da Napoleone I, sia come Re d’Italia che come Imperatore dei Francesi, e quelli conferiti da Gioacchino Murat, Re di Napoli, a cittadini italiani non sono trasmissibili se all’epoca della concessione non fu costituito il prescritto maggiorasco, salvo speciale dispensa dall’obbligo di costituirlo risultante dall’aiuto di concessione (art. 27). In questo caso la Prerogativa Sovrana per la trasmissibilità dei titoli richiede che siano osservate le condizioni dell’originaria concessione (v. n. 19, 20, 21).
Il titolo di Conte Palatino, per i motivi sopraesposti (v. n. 36), e accogliendosi le massime formulate dalla Consulta Araldica, è dichiarato non rinnovabile, né trasmissibile senza speciale disposizione risultante dal diploma di concessione; non sono riconosciute le concessioni di questo titolo fatte a favore di un determinato collegio, o per delegazione perpetua del Papa o dell’Imperatore.
Sono però fatti salvi gli effetti dei riconoscimenti già avvenuti (art. 34.).

Il chirografo sovrano non seguito dal diploma
È stato detto (n. 70) delle vicende storiche subite dai documenti sovrani comprovanti la concessione di distinzioni nobiliari (diplomi originali e lettere patenti), ma poteva e può anche avvenire che il Sovrano in un suo atto scritto chiamasse una persona con un titolo nobiliare di cui essa non è fornita, e che eventualmente le è anche dato per consuetudine dall’opinione pubblica. Poiché in questi casi il Sovrano non intese conferire alcun titolo, dato che in materia nobiliare sono valevoli soltanto le nomine risultanti da speciali documenti in tutta legalità e conferenti una determinata nomina, ad ovviare ad ogni dubbio e seguendo l’aforisma nobilitas non confertur per verba enunciativa, l’art. 29 dell’ordinamento stabilisce che il chirografo Sovrano di concessione di un titolo, non seguito dal rilascio del diploma nelle forme consuete, non è sufficiente per il riconoscimento. Alla mancanza del diploma può esser concessa sanatoria con Reale Decreto di riconoscimento. Si comprende che tale sanatoria può esser concessa allorquando risulti che il Sovrano abbia effettuato la concessione.

Il possesso di un territorio o ex feudo titolato
Già la Consulta Araldica aveva adottato la massima che colla abolizione della feudalità rimase sciolto ogni vincolo feudale anche riguardo al possesso della terra infeudata e non sopravvisse che il titolo nobiliare che vi era annesso (massima 7).
Ma perché il titolo sia conservato da chi sia venuto in possesso della terra ex feudale e titolata, occorre che il titolo stesso sia passato nel nuovo possessore in modo legittimo, secondo i principi del diritto nobiliare, ed è stato visto che tale passaggio non si verifica nel caso di acquisto in seguito a vendita di terre titolate ex feudali (v. n. 71). In proposito la stessa Consulta Araldica aveva formulato la massima (art. 8) : il semplice possesso di una terra già feudale e titolata non costituisce, pel possessore, nessun diritto ad assumere il titolo o predicato. Il nuovo ordinamento accogliendo detta massima ha stabilito all’art. 24 che il semplice possesso di un territorio o di un ex feudo, al quale un tempo era annesso un titolo, non conferisce al possessore diritto ad assumere quel titolo e il relativo predicato, né per chiederne la rinnovazione.

Il Grandato di Spagna. I titoli stranieri (In nota: La Paria di Sicilia)
Per quanto riguarda altri titoli e dignità straniere l’art. 33 dell’ordinamento, accogliendo la massima 26 marzo 1926 della Consulta Araldica stabilisce che la dignità di Grande di Spagna è riconosciuta solamente a coloro che ne abbiano ottenuta personale investitura dal Re di Spagna. E ciò per il fatto che nessuna delle famiglie italiane, comprese quelle iscritte nel Libro d’oro della nobiltà italiana, ne ha il possesso effettivo.
Per quelli che si fossero trovati nelle condizioni di poterne domandare l’investitura, sarà fatta speciale annotazione nel libro d’oro della Consulta. Intanto in Spagna i titoli nobiliari sono stati aboliti nel 1930 con l’avvento della Repubblica. In proposito è da ricordare che i grandi feudatari della Spagna erano chiamati Ricoshombres e godevano del privilegio di parlare col Sovrano a capo coperto. L’Imperatore Carlo V, cui non garbava questo uso sostituì il titolo di Ricoshombres con quello di Grande e lo concesse solo a coloro che lo avevano seguito dalla Germania. In tal modo questo titolo venne ristretto a poche famiglie. Filippo II impose poi ai Grandi la cerimonia della investitura nella quale il candidato si presentava al Sovrano a capo scoperto, e non si copriva che a di lui invito. I Grandi erano divisi in 3 classi distinte dalla cerimonia della cubertura. Quello di 1a classe metteva il cappello in testa prima di parlare al Sovrano; quello di 2a classe parlava col capo scoperto, ma si copriva per attendere la risposta; quello di 3a classe per coprirsi doveva attendere che il Sovrano gli dicesse di coprirsi subito dopo la risposta. Le prime due classi erano ereditarie e si trasmettevano alle donne insieme col titolo. La terza classe era spesso conferita a vita, ma per lo più a due generazioni. I Grandi delle tre classi avevano il medesimo grado, perché erano ugualmente trattati da Cugini dal Sovrano, col titolo di Eccellenza, e si coprivano tutti indistintamente quando il Sovrano stava coperto. Le mogli e i figli primogeniti avevano uguale diritto agli onori e al trattamento da Cugini. La dignità di Grande di Spagna venne conferita ad illustri famiglie italiane. Sennonché con disposizioni legislative spagnuole del 1845 e 1846 venne stabilito che gli eredi della dignità di Grande erano obbligati entro 6 mesi a chiedere al Governo Spagnuolo le lettere patenti di conferma o riconoscimento e a pagare una rilevante tassa. Dopo la data anzidetta non tutte le famiglie italiane hanno curato di ottenere la necessaria ricognizione, donde la disposizione dell’art. 33 dell’ordinamento5 . Per il principio, già citato della successione dello Stato unitario italiano ai precedenti Stati, l’art. 31 dell’ordinamento, seguendo l’art. 38 del regolamento del 1896 stabilisce che i titoli stranieri, con o senza predicato, posseduti da antico tempo da cittadini italiani e già una volta esecutoriati o riconosciuti dalle competenti autorità degli antichi Stati italiani prima della unificazione politica, sono riconosciuti con decreto del Capo del Governo, ai legittimi possessori ed alla loro discendenza maschile, nei limiti della concessione, o, in difetto, nei limiti della esecutoria o dell’antico riconoscimento. Raggiunge lo stesso articolo che in qualunque altro caso, gli interessati, per ottenere il riconoscimento dei titoli dovranno produrre un attestato del Governo dello Stato dal quale promana il titolo, che ne confermi la spettanza allo istante. Ed in ciò uniformandosi alla massima 29 della Consulta Araldica che pel riconoscimento di un titolo nobiliare, posseduto da una famiglia italiana, e non ancora legittimamente confermato, occorre una dichiarazione della competente autorità, spedita dal Governo straniero in forma esecutiva, colla quale sia legittimata l’attuale autenticità del titolo invocato.
L’art. 32 dell’ordinamento stabilisce che lo straniero residente nel Regno, legalmente investito di titoli concessi da Potenze estere, può essere autorizzato con decreto ad personam del Capo del Governo, di farne uso nel Regno, previa produzione di un attestato dell’autorità competente dello Stato dal quale il titolo promana, che confermi il suo diritto al titolo. Per l’art. 5 del R. D. 10-7-1930, n. 974, questa norma si applica anche per l’uso, da parte degli stranieri residenti nel Regno, di titoli nobiliari pontifici.
Soggiunge lo stesso art. 32 che è in facoltà del Capo del Governo di far luogo all’autorizzazione predetta ed al riconoscimento dei titoli stranieri posseduti da antico tempo da cittadini italiani di cui sopra è stato detto, qualora consti del rifiuto dello Stato estero a rilasciare simili attestati, ma risulti che l’istante, cittadino italiano o straniero residente nel Regno, si trovi nel legittimo possesso del titolo. In ogni caso, dice l’ultimo capoverso, non potrà essere consentito l’uso nel Regno di qualifiche o trattamenti inerenti a titoli stranieri non ammessi per i titoli italiani.
Con questa facoltà assegnata al Capo del Governo è venuta risolta la situazione di quegli stranieri titolati residenti nel Regno, appartenenti a Stati che hanno abolito i titoli, o mostrano di ignorarne l’esistenza, o che negano sistematicamente detto attestato. Esigenze di carattere politico, discrezionalmente valutabili, hanno riservato la facoltà al Capo del Governo.
Questo articolo, di cui non si hanno tracce di precedenti legislativi, è stato per il suo ultimo capoverso criticato dal Sabini 6 , il quale osserva che non saranno molti gli stranieri in Italia che si sentiranno vincolati dalla sua limitazione, che per quanto riguarda gli agenti diplomatici essa non trova applicazione per il principio della extraterritorialità che protegge le rappresentanze diplomatiche.
Inoltre l’articolo, per quanto riguarda i privati cittadini stranieri, sarebbe in contrasto con l’art. 6 delle disposizioni preliminari al codice civile che stabiliscono che lo stato e la capacità delle persone e i rapporti di famiglia sono regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono, ed i diritti nobiliari appartengono alla stessa classe dei diritti di famiglia, costituendo un’appendice del cognome. Ove si volesse fare una rigida applicazione dell’ultimo comma di questo articolo un Pari inglese non potrebbe essere autorizzato in Italia a premettere al predicato del proprio titolo la qualifica di Lord, ed altri stranieri non potrebbero avere i trattamenti di Altezza Serenissima o di Eccellenza cui davano diritto i titoli stranieri posseduti.
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5 – Affine a questa disposizione è la massima 10 giugno 1928 adottata dalla Consulta Araldica in base alla quale per tutte le famiglie che hanno avuto la parìa di Sicilia annessa al titolo, famiglie comprese nell’elenco del 1848, si farà annotazione, come ricordo storico, nel Libro d’oro nella pagina delle rispettive famiglie. Da questa annotazione saranno esclusi quei titoli passati ad altre famiglie. Per l’interpretazione di questa massima è da ricordare che nel diritto feudale la parola parìa servì ad indicare eguaglianza tra gli uomini di più elevata condizione ed autorità. Essi erano detti pari, perché erano uguali tra loro per i privilegi di cui godevano e per il potere loro conferito dal Sovrano, di cui erano consiglieri, e per il valore del loro parere nelle decisioni da adottarsi. Erano chiamati pari in forma generale i Signori, vassalli comuni ed immediati di un medesimo Sovrano, e pari dei feudi o infeudati erano detti quei Signori che costituivano la curia o corte feudale o dei grandi feudi, e che avevano il privilegio di non essere giudicati che dai loro pari. La parola fu adoperata anche per sin0nimo di barone e vi furono ecclesiastici e donde pari, per i feudi posseduti. I pari come istituzione politica e gerarchica dello Stato sopravvivono attualmente solo in Inghilterra, negli altri Stati nell’epoca moderna hanno avuto vita in Francia, nel Regno di Napoli e Sicilia, e hanno costituito la Camera alta, o aristocratica, o Senato; istituto i cui membri conservano tuttora generalmente la prerogativa di essere giudicati dai propri colleghi. La paria esisteva in Sicilia annessa ai titoli nobiliari di determinati feudi, e per la costituzione del 1812 una delle due Camere del Parlamento era detta dei Pari e la paria continuava ad essere ereditaria. Nella costituzione siciliana del 1848 furono ammessi a far parte del Senato, in aggiunta ai membri elettivi, anche i pari temporali che siedevano per la costituzione del 1812. Successivamente la paria scomparve come istituzione ereditaria. L’elenco delle parie del Regno di Sicilia e delle famiglie che ne possiedono attualmente i titoli trovasi in PALAZZOLO DRAGO, Famiglie Nobili Siciliane cit., pag. 197.

6 – SABINI, L’ordin. cit., pag. 149, 150.

La perdita della nobiltà nelle vicende storiche
Nel diritto feudale, come è stato detto (v. n. 13) era prevista la perdita del feudo per fellonia, per delitto comune, per alienazione o aggiudicazione (nei primi tempi del feudalesimo), per mancanza di successori giusta l’atto di concessione, per refuta (v. n. 12), per inabilità o vizio fisico del vassallo a servire il Signore, o perché monaco (v. n. 10, 84) o chierico (v. n. 11, 84), per l’esercizio del commercio (v. n. 13). Successivamente era causa di perdita della nobiltà l’esercizio di alcune professioni liberali, di arti o professioni meccaniche, e per taluni Stati italiani il matrimonio di donne nobili con uomini non nobili (v. n. 14). Inoltre in taluni Stati italiani, come in Piemonte, in Toscana, a Venezia, a Bologna, a Modena, a Lucca, a Napoli era prevista la perdita della nobiltà in caso di condanna per crimine o a pena infamante. Negli ordinamenti italiani postunitari in materia nobiliare non esisteva nessuna disposizione circa la perdita dei titoli, però alcune delle anzidette cause di perdita del feudo potevano valere come motivo per la perdita del titolo solo in quanto non contrastanti col moderno ordinamento giuridico, e la Consulta Araldica adottò anche una massima 7 che vietava il riconoscimento di titoli nobiliari in persone interdette per infermità di mente ed altra sulla incapacità relativa degli ecclesiastici (v. n. 84). Solo nel codice penale del 1889 all’art. 20 era prevista la perdita dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni e altre pubbliche insegne onorifiche come effetto della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici. Anche il nuovo codice penale del 1930 agli art. 28 e 29 prevede, a proposito della interdizione perpetua o temporanea, la perdita dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche.
Il nuovo ordinamento nobiliare ha ritenuto di introdurre negli art. da 41 a 49 norme relative alla decadenza e alla sospensione dei titoli e attributi nobiliari in conseguenza di condanne.
Come è detto nella relazione del Capo del Governo del Re «queste sanzioni ripetono il loro fondamento storico giuridico dalle legislazioni di quasi tutti gli Stati d’Europa e degli stessi antichi Stati italiani sin da tempo remoto. D’altra parte l’assoluta purezza dei natali e la vigorosa integrità e dignità di vita sono condizioni essenziali perché l’aristocrazia della nascita possa sussistere nello Stato moderno».
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7 – Boll. Uff. Cons. Arald., n. 34, pag. 296 e n. 38, pag. 15.

La perdita definitiva e temporanea (ossia sospensione) della nobiltà
La perdita dei titoli o attributi nobiliari può essere definitiva o temporanea, quest’ultima è indicata nell’ordinamento (art. 45) col nome di sospensione. Tutte e due le perdite vengono dichiarate con Decreto Reale controfirmato dal Capo del Governo (art. 46). Inoltre la perdita definitiva ha luogo o di diritto, o mediante revoca su proposta della Consulta Araldica.
Oltre la perdita dei diritti nobiliari di cui il titolare attualmente è investito, la legge prevede il caso di colui che deve succedere in un titolo. Per quest’ultimo la perdita definitiva del diritto di succedere ai titoli ed attributi è indicata dalla legge col nome di decadenza a succedere. Così l’art. 41 stabilisce che incorrono di diritto nella perdita dei titoli e attributi nobiliari e nella decadenza del diritto a succedervi i condannati per delitto contro il Re, il Principe Ereditario o la Patria, contro il Sommo Pontefice, e contro il Capo del Governo, i condannati alla pena di morte, dell’ergastolo e della reclusione per una durata non inferiore ad anni cinque od alla interdizione permanente dai pubblici uffici (articolo 41). Si ha quindi qui riguardo a due elementi: o alla natura grave del reato o alla gravità della pena.
La Consulta Araldica può proporre al Re di decretare la perdita delle distinzioni nobiliari e la decadenza del diritto a succedervi in confronto dei condannati alla reclusione per qualsiasi durata per delitti contro i poteri dello Stato, contro la fede pubblica, contro la proprietà e il buon costume o per bancarotta fraudolenta; e di coloro che, allo scopo di eludere le leggi dello Stato, rinunziano alla cittadinanza italiana o che ne sono stati privati per Decreto Reale (art. 42).
In ambedue i casi anzicennati di perdita definitiva, di diritto o per revoca, questa colpisce esclusivamente la persona del colpevole, e quindi i titoli nobiliari sono riconosciuti all’immediato legittimo successore (art. 43). Inoltre la riabilitazione del condannato non produce alcun effetto sulla perdita già dichiarata dei titoli (art. 47). Circa la non ammissione dell’istituto della riabilitazione, la relazione Biscaro al progetto dell’ordinamento ne dà la spiegazione con la considerazione, da un lato, del maggior rigore che conviene esercitare nel controllo della integrità e dignità di vita di un ceto che si rappresenta, per le sue origini e tradizioni storiche e per la funzione che è ancora in grado di compiere, come il fiore della Nazione, e dall’altro dell’interesse di non lasciare, dopo la pronuncia della perdita definitiva del titolo o del diritto a succedervi, vacante il titolo stesso in vista di una lontana e sempre problematica eventualità, quale è l’applicazione dello straordinario beneficio della riabilitazione.
È qui da ricordare che nella legislazione di alcuni Stati preunitari era ammesso invece il riacquisto della nobiltà perduta o per grazia Sovrana, o per servigi resi al Sovrano o allo Stato, o per la vita decorosa tenuta per un certo tempo. Così in Toscana per la legge 31-7-1750, a Modena per l’Editto 2-1-1816; a Lucca per il decreto 27 aprile 1826 (v. n. 20).
Nel caso però di perdita di titoli in conseguenza della perdita della cittadinanza italiana, la legge ha voluto garantire la situazione dei figli minori di colui che ha perduto la cittadinanza e che, senza loro volontà, hanno acquistato la cittadinanza straniera. In tal caso, prima di farsi luogo al riconoscimento del passaggio del titolo ad altra persona, legittimo successore, diverso dai figli, occorre attendere il decorso di due anni dal raggiungimento della maggiore età del più giovane dei figli, per dar loro la possibilità di riacquistare la cittadinanza ed essere preferiti in confronto agli altri successibili, salvo che nel frattempo si verifichi il recupero della cittadinanza italiana da parte di qualcuno dei figli minori (art. 44).
Si evince da queste disposizioni chiaramente che, come si è già detto, i titoli e gli attributi nobiliari vengono mantenuti non per vana pompa personale dell’investito, perché, ove ciò fosse, nel caso di perdita definitiva di essi potrebbero farsi cessare del tutto, senza alcun riguardo dei figli o di altri legittimi successori.
La perdita temporanea o sospensione dai titoli, predicati e qualifiche nobiliari, per la minore gravità delle mancanze che la determinano, avviene su proposta al Re della Consulta Araldica e non può durare più di cinque anni. Questa sospensione può venire applicata in confronto dei condannati per oziosità, vagabondaggio o per mendicità, degli ammoniti a norma di legge e dei sottoposti alla vigilanza speciale della Pubblica Sicurezza, o alla pena del confino, qualora sia stata applicata per fatti disonorevoli o per addebiti di particolare gravità (art. 45) 8.
Per assicurare l’applicazione delle disposizioni anzidette, l’art. 48 prescrive che il Procuratore del Re dovrà trasmettere senza ritardo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un estratto delle sentenze passate in giudicato, che importino condanne di persone appartenenti a famiglie inscritte nell’Elenco Ufficiale Nobiliare alle pene e pei reati indicati negli articoli precedenti.
Giusta l’art. 49, l’annotazione del decreto che pronunzia la perdita dei titoli, predicati e qualifiche nobiliari a margine della relativa inscrizione nei libri e nei registri della Consulta Araldica, è fatta a cura del Cancelliere della Consulta sopra richiesta del Commissario del Re, il quale ne darà notizia alla Consulta nella prima riunione successiva all’annotazione.
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8 – Vedi per l’annotazione gli art. 164 e seg. e per il confino gli art. 180 e seg. del T.U. leggi di P. S. 18 giugno 1931, n. 773.

Gli infermi di mente – Gli ecclesiastici
In considerazione che nelle cause di perdita definitiva o temporanea dei titoli, predicati, attributi, qualifiche nobiliari non è prevista l’infermità di mente, la massima succitata (v. n. 82) adottata dalla Consulta Araldica sembra non possa trovare applicazione.
Come conseguenza del principio di diritto feudale della incapacità in possesso del feudo da parte dei chierici o monaci (v. n. 10 e 11), la Consulta Araldica ha stabilito le due massime seguenti:
«I cavalieri professi di giustizia del Sovrano Ordine Militare di Malta per poter adire le eredità o successioni nobiliari debbono provvedersi in via di grazia di un Reale assenso (mass. 33). Simile assenso è necessario agli ecclesiastici entrati negli ordini maggiori (mass. 34). Da parte sua la Santa Sede ha fatto divieto ai Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi di far uso di insegne e titoli nobiliari gentilizi (v. n. 52 nota). Sulla inscrizione dei sacerdoti nell’elenco nobiliare è detto al n. 110.
Per quanto riguarda la sorte dei titoli in seguito a dichiarazione legale di assenza di colui che ne è investito, provvede l’art. 68 dell’ordinamento, di cui è detto appresso (v. n. 94).

La successione nobiliare e la successione civile – Differenze
Lo statuto della successione ai titoli e attributi nobiliari, come è stato detto (n. 1) è uno dei punti fondamentali della riforma del 1926 ed ha dato luogo alle citate vicende della impugnazione di incostituzionalità della riforma stessa, nonostante che essa abbia garantito i diritti quesiti, conservando in sé traccia viva dei precedenti ordinamenti (v. n. 24).
Poiché le norme innovative in tema successorio furono emanate con R. D. 16 agosto 1926, n. 1489, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 7 settembre 1926, l’attuale ordinamento si richiama a quest’ultima data per indicare la decorrenza delle nuove disposizioni. Dice infatti l’art. 53 che alle antiche disposizioni che con norme diverse nelle singole regioni d’Italia, regolavano l’ordine delle successioni, riguardo ai titoli ed attributi nobiliari concessi dai Sovrani degli antichi Stati prima della unificazione politica, sono surrogate le disposizioni seguenti, con decorrenza dal 7 settembre 1926 .9
Già è stato detto delle varie forme, di successione nobiliare a seconda del diritto feudale o dei decreti di concessione nobiliare, e così sono da ricordare la successione in linea maschile e primogeniale e collaterale nei gradi permessi per diritto franco, la successione per diritto longobardo fra tutti i figli, con esclusione talvolta delle figlie o tal’altra in concorrenza con esse. È da ricordare che anche nei feudi jure francorum vi fu l’eccezione nel mezzogiorno d’Italia della successione per via di donne (successione napoletana e siciliana e sarda) in mancanza di discendenti maschi, per cui la successione collaterale veniva di fatto abolita in pro della femminile in linea retta. Inoltre è stato detto che certe concessioni di titoli, specie nel periodo della decadenza feudale, erano fatte non al solo concessionario ma a tutti i suoi discendenti (omnibus descendentibus vel nascituris in perpetuum), o tali altre concessioni, specie del Sacro Romano Impero e pontificie, erano trasmissibili non solo a tutti i maschi, ma a tutte le femmine di una agnazione.
Ora di fronte a queste diverse forme di successione nobiliare il regolamento del 1896 stabiliva che i titoli nobiliari si riconoscevano nella forma e con le condizioni della originaria concessione (art. 37), e per i titoli concessi da sovranità preesistite in Italia ad italiani non sudditi si riconoscevano le condizioni stabilite nell’atto di conferma dal Sovrano naturale. Se questa conferma non intervenne, essa si concedeva regolando la trasmissibilità secondo le norme tradizionali nella regione storica cui apparteneva la famiglia concessionaria (art. 38).
Per i titoli di nuova concessione, la trasmissibilità loro era in massima quella primogeniale e maschile (art. 39).
È anche da ricordare che le norme della successione nobiliare si differenziano dal diritto successorio civile, poiché in questo si bada alla prossimità del grado della parentela, senza preferenza di linea (art. 722 e 1422 c. c.) la successione si devolve ai discendenti legittimi, agli ascendenti, ai collaterali, ai figli naturali ed al coniuge (articolo 721 c. c.), e per figli legittimi s’intendono anche i legittimati, gli adottivi e i loro discendenti (art. 737 c. c.).
L’art. 54 del nuovo ordinamento stabilisce che la successione ha luogo a favore dell’agnazione maschile dell’ultimo investito, per ordine di primogenitura senza limitazione di gradi, con preferenza della linea sul grado. I chiamati alla successione debbono discendere per maschi dallo stipite comune, primo investito del titolo. I titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono alle femmine né per linea femminile, salvo quelli concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, alle quali spettano durante lo stato nubile e non danno luogo a successione (art. 57).
L’affermazione della successione nobiliare maschile, con esclusione della trasmissione per via di donne, corrisponde alla concezione fascista sui titoli nobiliari, quale culto delle memorie, poiché nel caso della trasmissione per via femminile i titoli e i predicati verrebbero sradicati dalle originarie famiglie di cui si vogliono tramandare le nobili gesta.
La successione per primogenitura senza limitazione di gradi a favore dell’agnazione maschile, cioè discendente, dell’ultimo investito esclude la successione retrograda a favore degli ascendenti ammessa dal codice civile. In caso di estinzione della linea diretta di successibili, è ammessa la successione per linea collaterale, purché il chiamato alla successione discenda per maschi dallo stipite comune, primo investito del titolo (art. 54 capv.). Inoltre nel caso della successione collaterale, è preferito colui che appartiene ad una linea più vicina all’ultimo investito, quantunque il grado di parentela fra il successore e l’ultimo investito sia più lontano di quello di un altro collaterale, ciò che si evince dalla formula troppo involuta adoperata nell’art. 54 «con preferenza dellamt linea sul grado», e ciò in contrasto col diritto civile che dà la preferenza al grado sulla linea.
Si ha così un ritorno al principio della successione feudale per primogenitura, con l’adattamento di esso, per quanto riguarda la non limitazione dei gradi, ai tempi moderni, dato che la Corona non ha ora più interesse, come era nel periodo feudale, a limitare i gradi di successione, al fine della reversione dei feudi alla Corona stessa in mancanza di successibili. Si raggiunge anche in tal modo la finalità, cui era inspirato lo statuto nobiliare del 1926, di far tornare i titoli alla agnazione maschile del primo investito. La preferenza accordata alla linea sul grado è più consona al principio della successione primogeniale, di quanto non fosse la successione collaterale, ed è più corrispondente alle formule di concessione feudale: tibi et successoribus tuis ex corpore legitime descendentibus ed alle altre corrispondenti.
Inoltre essa risolve la dibattuta questione se nella successione collaterale era da dare la preferenza alla linea o al grado di parentela.
A differenza del diritto feudale, nel quale l’ordine di successione poteva essere presunto, nel diritto moderno nel diploma di concessione esso è indicato con formula abituale «trasmissibile ai discendenti legittimi e naturali, maschi da maschi in linea di primogenitura» a meno che, a tenore dell’art. 67, non sia regolato con condizioni speciali l’ordine dei successibili, essendo in ciò libera la Prerogativa Sovrana.
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9 – Questo articolo corrisponde al primo dello statuto successorio del 1926. Vedi Gualtieri, op. cit., pag. 31. Il progetto originario di detta riforma è dovuto al Consultore Araldico Duca Agostino de Vargas Machuca.

La filiazione legittima, naturale derivante da matrimonio putativo
Per quanto riguarda i figli che possono succedere, essi debbono essere legittimi, nati cioè da legittimo matrimonio, con esclusione della filiazione naturale ancorché riconosciuta (art. 55), e ciò in disformità del diritto civile e conformemente ai principi del diritto feudale, che per rispetto alla compagine ed unità familiare non ammettevano alla successione nelle dignità i figli naturali riconosciuti o no10 . A volte nei diplomi di concessione si parla di discendenti legittimi e naturali, ma, salvo prova contraria l’espressione va intesa congiuntamente nel senso che il figlio abbia qualità di legittimo per vincoli di sangue e di naturale in contrapposto al figlio adottivo, e non già nel senso che sia ammessa la successione dei figli naturali. Ciò non pertanto si vedono nella storia medioevale e moderna casi in cui i figli naturali hanno potuto acquistare posti eminenti ed ai quali con Sovrana autorizzazione sono stati concessi titoli. È stato deciso che i figli nati da matrimonio putativo (dichiarato cioè nullo) succedono nei titoli nobiliari11 . Dei figli nati da matrimonio morganatico è stato detto al n. 74.
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10 – Cass. Regno, 9 maggio 1930, Treves c. Treves, Giur. It., 1930, I, 776. L’espressione figli legittimi naturali contenuta nelle concessioni di titoli nobiliari, salvo prova contraria, deve intendersi congiuntamente, nel senso che il figlio abbia qualità di legittimo e di naturale, essendo i figli naturali per le antiche consuetudini feudali nobiliari esclusi dalla successione nel feudo e nel titolo.

11 – C. Appello Catania, 2 settembre 1931, Paternò c. Cons. Araldica, Rassegna Giudiz., 1931, 483. Il matrimonio putativo assicura al figlio il godimento di tutti gli effetti civili di un matrimonio valido, e fra essi anche quello di succedere nei titoli nobiliari.

La filiazione legittimata
Per quanto riguarda i figli legittimati, bisogna distinguere le due forme di legittimazione: quella per Decreto Reale o rescriptum principis, e quella per susseguente matrimonio. Nel caso di legittimazione per susseguente matrimonio si ammetteva nella dottrina la successione perché si aveva la famiglia legittima, e la Consulta aveva formulato la massima n. 14 che ai figli legittimati per susseguente matrimonio, sotto il regime del codice civile italiano, si può riconoscere la successione ai diritti nobiliari, qualora provino lo stato libero dei genitori, dieci mesi prima della nascita del figlio12 .
Riguardo ai figli legittimati per rescriptum principis, e cioè quando il matrimonio dei genitori non può avvenire (art. 191 c. c.), non vi era uniformità di legislazione, ammettendosi che non succedessero, nella legislazione napoletana per il R. Rescritto 17 febbraio 1844, ed essendo equiparate le due forme di legittimazione nell’editto di Maria Teresa d’Austria del 1769 per la Lombardia. La Consulta Araldica aveva formulato la massima n. 12 per la quale i figli adottivi e quelli legittimati per rescritto del principe non succedono nei diritti nobiliari dell’adottante o del padre senza una speciale autorizzazione sovrana. Il nuovo ordinamento si è ispirato alla tradizione per i legittimati per susseguente matrimonio, stabilendo che succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi, e che gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento è posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento.
Per quanto concerne i legittimati per Decreto Reale il nuovo ordinamento ha allargato la massima della Consulta, stabilendo che succedono nei titoli e nei predicati del padre, purché questi non abbia figli o discendenti legittimi o legittimati per susseguente matrimonio o altri parenti maschi fino al 3° grado successibili nei titoli, e purché nel Decreto Reale di legittimazione ha dichiarato, in via di grazia, la capacità del legittimato di succedere nei titoli del padre (art. 55)13 . Queste disposizioni riguardanti la successione dei figli naturali e legittimati non sono assolute per le nuove concessioni, ma possono essere derogate da particolare autorizzazione della Prerogativa Sovrana (art. 55) 1).
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12 – La C. Appello di Catania nella sent. 2 settembre 1931 sopracitata ritenne questa restrizione della prova dello stato libero dei genitori non giustificabile.

13 – L’art. 55 corrisponde con ampliazioni a quello 3 dello statuto successorio del 1926, modificato dall’art. 2 del R. D. 16 giugno 1927, n. 1091.

La filiazione adottiva
Relativamente ai figli adottivi, la dottrina antica e le precedenti legislazioni ritenevano che essi non succedevano. Facevano eccezione i titoli creati da Napoleone e trasmissibili in seguito alla creazione del maggiorasco, per i quali era detto che passavano alla discendenza diritta e legittima, naturale o adottiva, di maschio in maschio per ordine di primogenitura (statuto 21 settembre 1808). È stata esposta anche la massima adottata in proposito dalla Consulta Araldica, e conformemente ad essa l’art. 56 del nuovo ordinamento stabilisce che i figli adottivi non succedono nei titoli e predicati spettanti all’agnazione dell’adottante salve le contrarie disposizioni della Sovrana Prerogativa, per i titoli di nuova concessione14 .
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14 – Cass. Regno, 14-3-1930, Pres. Cons. Ministri C. Malagola, Foro It., 1930, I, 764. Per un principio di diritto feudale consacrato anche nell’art. 56 del R. D. 21-1-1929, n. 61, i figli adottivi non possono succedere nei titoli nobiliari dell’adottante a meno che l’atto d’investitura ammetta alla successione qualsiasi erede anche non agnato. Se nell’atto di concessione la successione nel feudo sia riservata ai discendenti maschi ed agli eredi in linea maschile, vanno esclusi da essa i figli adottivi, intendendosi per eredi, in conformità della communis opinìo dei feudisti, i soli agnati in mancanza di figli o di altri discendenti.

Le donne titolate – I titoli degli ultrogeniti
Ma oltre che con la successione, i titoli possono acquistarsi anche col solo fatto della nascita, e ciò avviene per quei titoli di vecchia concessione conferiti con qualunque formula o legalmente riconosciuti per tutti i maschi di una agnazione, che si acquistano dal giorno della nascita. I titoli in parola, che sono concessi, oltre che a tutti i maschi anche alle femmine, si acquistano dalle donne con la nascita e spettano alle medesime soltanto durante lo stato nubile, perdendosi così in caso di matrimonio, e non danno luogo a successione (art. 57).
Questa larga forma di concessione di titoli si trova in antiche investiture, in cui più che onorarsi la persona, intendevansi onorare tutti quelli di una agnazione che avevano lo stesso cognome, anche se fossero donne. Ai fini però della trasmissione ed affinché i titoli non uscissero dalla famiglia, il nuovo ordinamento ne impedisce la trasmissione da parte delle femmine.
È stato già detto, parlando del titolo di nobile (v. n. 42), che in base al regolamento del 1896, il titolo di nobile era attribuito, fra gli altri, agli ultrogeniti delle famiglie titolate coll’aggiunta del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei». Quando i titoli del primogenito erano parecchi, agli ultrogeniti non si attribuiva la qualificazione generica che di un solo titolo o predicato seguendo le speciali tradizioni locali o familiari. Più esattamente il nuovo ordinamento regola i titoli degli ultrogeniti, nonché i titoli passati in altra famiglia per successione femminile, a proposito dei quali la Consulta Araldica aveva formulato la massima 16: quando un titolo o predicato nobiliare passa in altra famiglia, agli ultrogeniti della famiglia che lo possedeva non spetta il diritto di portarlo, preceduto dal segnacaso «dei», che personalmente. Chiariva la massima 15 della Consulta che in Italia la particella «di» o «de» premessa al cognome non è da sola indizio di nobiltà.
Gli art. 57 e 58 del nuovo ordinamento stabiliscono in proposito, più completamente, che agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali è attribuito, oltre alla semplice nobiltà, il diritto di aggiungere al cognome l’appellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso «dei»15 . Quando i titoli o predicati primogeniali sono parecchi, gli ultrogeniti aggiungono, dopo il segnacaso «dei», l’appellativo di quel titolo o predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia, salva diversa tradizione familiare, da riconoscersi dalla Consulta (art. 57). Quando uno o più titoli o predicati nobiliari siano passati per successione femminile in altra famiglia, il diritto suesposto degli ultrogeniti spetta ai membri della famiglia che ha perduto i titoli, nati prima del passaggio, ed a quelli della famiglia in cui sono pervenuti, nati dopo il passaggio (art. 58)16 .
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15 -Cass. Regno. 17 luglio 1931, Bonanno o Federico. Sett. Cass., 1931, 1369. Rispetto alla qualifica di nobile non è fatta distinzione fra femmine nubili e non nubili.

16 -L’art. 57 corrisponde con modifiche al 4 dello statuto nobiliare del 1926, ed il 58 è nuovo.

Regime dei titoli ricevuti per via di femmine o in possesso di femmine
Ma stabilito il principio della successione primogeniale maschile, occorreva regolare la situazione di coloro che avevano ricevuto titoli per via di femmine, e dei titoli che potevano trovarsi in possesso di femmine.
Qui il legislatore ha saputo contemperare i diritti quesiti con l’osservanza del nuovo principio informatore della successione nobiliare. E poiché il 7 settembre 1926, come è stato detto, era entrato in vigore il nuovo ordinamento, viene stabilito all’art. 59 che i titoli e predicati, provenienti da femmine, che prima del 7 settembre 1926 sono legittimamente pervenuti alla loro discendenza maschile, continuano a devolversi alla medesima discendenza secondo le norme stabilite dall’articolo 54, cioè secondo il nuovo ordinamento maschile primogeniale con esclusione delle femmine17 . Si riconobbe cioè l’acquisto fatto per via femminile, ma il trapasso avvenire deve aver luogo per via maschile.
Il trapasso alla discendenza maschile di tali titoli provenienti da femmine s’intende legittimo, per le successioni verificatesi dopo l’emanazione del regolamento del 1896, allorquando prima della data del 7 settembre 1926, siano state emesse le R. lettere patenti di assenso prescritte per il passaggio di titoli da una famiglia ad un’altra. Se dette lettere patenti siano state richieste prima del 7 settembre 1926, il rilascio delle medesime può aver luogo con effetto di legittimare la devoluzione dei titoli a favore della discendenza maschile18 . Ma questo trapasso dei titoli per via di femmine nella linea maschile sua discendente trova un limite, che riconduce, i titoli stessi nella famiglia da cui provenivano. Difatti stabilisce il 4° comma dell’art. 59 che, estinte le linee maschili, aventi per stirpe comune la femmina intestataria del titolo, questo con gli annessi predicati ritorna, previe lettere patenti di R. assenso, all’agnazione maschile della famiglia alla quale apparteneva nel giorno della promulgazione delle leggi abolitive della feudalità, ed osservati i nuovi principi regolatori della successione di cui all’art. 5419 .
Si è parlato finora dei titoli passati alla discendenza maschile provenienti da donne, ma può darsi anche il caso che i predicati e i titoli alla data del 7 settembre 1926 fossero pervenuti in femmine (art. 60). Qui si hanno due casi: le femmine possono essere nubili o maritate. Nel caso che le femmine rimangano nubili, i titoli, alla loro morte, e nel caso che si maritino, dal giorno del loro matrimonio, passano alla agnazione maschile della famiglia alla quale la donna appartiene con l’osservanza delle norme nuove regolanti la successione. Nel caso che detta agnazione più non esista, si consentono dalla legge, per l’art. 63, delle eccezioni per il passaggio del titolo attraverso la via femminile. Il secondo caso è quello che le donne cui siano pervenuti i titoli e i predicati al 7 settembre 1926 si fossero trovate già maritate. In questo caso si rispetta il diritto quesito dalle donne anzidette di conservare il titolo soltanto loro vita natural durante, ma vengono dichiarate senza effetto le lettere patenti di Regio assenso che avevano loro consentito il trapasso del titolo alla loro discendenza, nata dal matrimonio, dato che i titoli passano alla agnazione maschile delle famiglie donde le donne stesse provengono.
A questo principio è ammessa una attenuazione, poiché, nel caso che siano pervenuti più titoli a donna maritata prima del 7 settembre 1926, può essere consentito, su sua richiesta, mediante decreto di R. assenso, che dopo la morte della donna intestataria, succeda in qualcuno di quei titoli e annessi predicati il primogenito che discende da quel matrimonio e purché non si tratti del predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia (art. 60 ult. cap.) 1)20 .
È stato detto del principio che fissa il trapasso dei titoli dalla discendenza maschile estinta, cui erano pervenuti per via di donne, alla agnazione maschile alla quale appartenevano nel giorno della abolizione della feudalità.
Ma occorreva anche prevedere il caso che la agnazione, alla quale il titolo avrebbe dovuto passare, fosse anche estinta o si estinguesse dopo il 7 settembre 1926, ed in tal caso il titolo avrebbe dovuto di regola tornare alla Corona. Ma affinché il titolo non si estinguesse, ne è consentita la rinnovazione per via femminile, in via di eccezione alla regola maschile.
In proposito dall’art. 6321 è stabilito che se siano estinte, o dopo il 7 settembre 1926 si estinguano, le agnazioni maschili delle famiglie alle quali avrebbe dovuto tornare il titolo, passato per via di donne in altra famiglia, questo può essere rinnovato con atto Sovrano a favore di una figlia dell’ultimo investito e della di lei discendenza maschile, sotto condizione che la famiglia di quest’ultima si trovi inscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana (v. n. 110). Nel caso che esistano più figlie dell’ultimo investito del titolo è data preferenza alla più anziana di età, che all’atto della vacanza del titolo, abbia già prole maschile, appartenente a famiglia già inscritta nell’elenco suindicato.
È stato già fatto cenno che i titoli e predicati provenienti da donne al 7 settembre 1926 potevano essere in possesso di donne nubili, le quali perdevano i titoli stessi dal giorno in cui fossero passate a nozze, dovendo i titoli tornare alla agnazione maschile della famiglia cui essi appartenevano. Ed allora anche nel caso che siano estinte, o dopo il 7 settembre 1926 si fossero estinte, le agnazioni maschili cui i titoli avrebbero dovuto tornare, per ragioni di uniformità di trattamento col caso precedente, è stata consentita la rinnovazione del titolo. Stabilisce infatti il 2° comma dell’art. 63: nell’ipotesi di estinzione delle suddette agnazioni, la rinnovazione mediante atto sovrano potrà aver luogo a favore della discendenza maschile dell’ultima donna intestataria del titolo, sotto la condizione medesima che la famiglia di tale discendenza maschile si trovi già inscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana.
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17 – A norma del R. D. 21 gennaio 1929, n. 61 i titoli e predicati nobiliari provenienti da femmine continuano a devolversi alla loro discendenza maschile quando siano legittimamente pervenuti a detta discendenza prima del 7 settembre 1926 – Cass. 22-12-1932, Federico-Perez, Giur. It., 1933, 1, 1, 201.

18 – Cass. Regno, 22-12-1932, Federico c. Perez, Giur. It., 933, I, 201. E’ improponibile l’istanza avanti al magistrato ordinario per il riconoscimento del diritto al titolo nobiliare quando anteriormente al 7 settembre 1926 sia stata soltanto presentata l’istanza alla Consulta Araldica. In tale ipotesi l’attribuzione del titolo può però avvenire per Sovrana concessione.

19 – L’art. 59 corrisponde al 5 dello statuto nobiliare del 1926, integrato dall’art. 1 del R. D. 16-6-1927, n. 1091. – Detto articolo 5 ed i seguenti 6, 8 e 10 hanno formato oggetto di critiche, e sono stati paragonati al Saturno della favola, perché hanno in parte reso nullo il principio informatore della riforma del 1926. – Cfr. GUALTIERI, op. cit., pag. 70 e segg. – Le critiche sono però esagerate non potendosi non tener conto dei diritti quesiti.
20 -L’art. 60 corrisponde al 6 dello statuto nobiliare del 1926.

21 – Corrisponde al 9 dello statuto nobiliare del 1926.

Divieto di surrogazione nei titoli e nel nome – Restituzione in forma italiana di cognomi
e predicati nobiliari
A proposito della condizione apposta che la famiglia in cui si rinnova il titolo sia inserita nell’elenco ufficiale nobiliare è da far presente che l’art. 9 dello statuto del 1926 stabiliva l’obbligo della assunzione del cognome materno o tale assunzione di cognome dovette abbandonarsi in conseguenza del principio stabilito nell’art. 64 del nuovo ordinamento, che non trova riscontro nell’ordinamento del 1926, e per il quale non è ammessa alcuna forma di surrogazione dei cognomi di famiglia e nei rispettivi titoli, dipendente da antiche istituzioni fedecommissari e o comunque in uso specialmente negli antichi Stati della Chiesa.
Per la interpretazione di questo art. 64 è da ricordare che nello Stato Pontificio, per una non retta interpretazione dell’istituto dell’adozione dell’antico diritto pretorio, fu ritenuto che i testatori e gli istitutori di fedecommessi fossero autorizzati a stabilire l’ordine e la sequenza di successione dei loro beni, e quindi dei privilegi, titoli e giurisdizioni annessi ai beni stessi. In virtù di questa facoltà molti istitutori di fedecommessi stabilirono la sequenza successoria oltre il limite naturale della loro discendenza agnatizia, consentendo che estranei alla famiglia succedessero nei beni, nel nome, nei titoli. È questa la figura giuridica della surrogazione22 . Inoltre in altri casi, con l’assenso o la tolleranza del Governo papale, la surrogazione di una famiglia ad un’altra veniva effettuata come espediente per assicurare a una persona di conseguire un rango elevato, al quale non avrebbe potuto pervenire per altra strada, o una successione, che nei casi di estinzione di una famiglia sarebbe stata dubbia per la concorrenza di più famiglie discendenti da ceppo femminile, stante l’assenza quasi assoluta in Roma e nelle province romane di leggi generali di successione.
Talora anche l’ordine di successione fedecommissaria o testamentaria in caso di estinzione della famiglia subiva all’atto pratico deroghe e mutazioni per volontà del Papa. Di tal che con la surrogazione veniva imposto che l’onorato si sostituisse nei beni, nei titoli, nel nome alla famiglia dell’adottante, del testatore o dell’istitutore del fedecommesso.
Di tale istituto della surrogazione non si trovano tracce né nel codice Napoleonico, né negli ordinamenti degli ex stati italiani preunitari, ad eccezione dello Stato Pontificio ed in parte in Toscana. Inoltre per diritto romano (Codex De Mutatione nominis, 9, 25) ognuno aveva piena facoltà di mutare il proprio nome sia assumendo un nome che ad altri non appartenesse, sia assumendo un nome altrui purché ciò fosse fatto sine fraude et iniuria. Questo principio della mutabilità dei cognomi non subì alcuna innovazione nel diritto intermedio, né nel diritto pontificio che non emise in proposito alcuna disposizione innovativa. L’obbligo dell’assunzione di altro cognome dopo il secolo XIII, in cui il cognome divenne di uso generale, venne talvolta però anche imposto come condizione, sub conditione nominis ferendi, per l’accettazione di atti di liberalità, o per la contrazione di matrimoni in cui lo sposo assumeva o anteponeva al proprio il cognome della moglie, ma qui non si ha la figura della surrogazione. E in questi casi in taluni Stati occorreva l’assenso Sovrano.
Nel diritto italiano è ammesso soltanto che l’adottato assuma il cognome dell’adottante aggiungendolo al proprio (art. 210 c. c.). Inoltre per l’art. 119 del R. D. 15 novembre 1865, numero 2602 sull’ordinamento dello stato civile è ammesso il cambiamento di nome e cognome o l’aggiunta di un altro nome o cognome, ma tanto l’adozione quanto il cambiamento o l’aggiunta del nome o cognome non importano per il nostro diritto trasmissione di diritti e privilegi nobiliari. Di tal che può dirsi che con l’art. 64 del nuovo ordinamento si è ristabilita la uniformità di legislazione su questo punto, che era stata causa di tutte le controversie e di tutte le dispute nascenti dalle liberalità lasciate sotto condizione di assumere il cognome dei testatori o degli institutori di fedecommessi, e che sarebbe stato in contrasto col principio informatore della successione per via maschile.
La nostra legislazione ammette anche il cambiamento di cognome delle famiglie e di predicati nobiliari nei nuovi territori annessi al Regno, colle leggi 26 settembre 1920, n. 1322, e 19 dicembre 1920, n. 1778, ai fini della loro restituzione in lingua italiana. Stabilisce infatti il R. D. legge 10 gennaio 1926, n. 17, che le famiglie della provincia di Trento che portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue, o deformato con grafie straniere o con l’aggiunta di suffisso straniero, riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie. Saranno ugualmente ricondotte alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica, derivati da luoghi, i cui nomi erano stati tradotti in altra lingua o deformati con grafia straniera, e altresì i predicati nobiliari tradotti o ridotti in forma straniera. La restituzione in forma italiana viene pronunciata con decreto del Prefetto della provincia, che è notificato agli interessati, Pubblicato nella Gazzetta ufficiale del Regno ed annotato nei Registri dello Stato Civile. Chiunque, dopo la restituzione avvenuta, fa uso del cognome o del predicato nobiliare nella forma straniera è punito con la multa da lire 200 a lire 3000. All’infuori dei casi suddetti, su richiesta degli interessati, i cognomi stranieri possono essere ridotti con decreto del Prefetto in lingua italiana. Con R. n. 7 aprile 1927, n. 494 venne esteso il R. D. Legge suddetto a tutti gli altri territori annessi. Con circolare n. 8600 del 1° maggio 1928 della Presidenza del Consiglio dei Ministri vennero date istruzioni ai Prefetti del Regno sulla traduzione dei predicati nobiliari in dipendenza della applicazione delle disposizioni sulla restituzione in forma italiana di cui è stato sopra detto.
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22 – RIVERA, L’opera della Consulta Araldica cit., pag. 56; Idem, La successibilità nobiliare per surrogazione, in “Riv. Araldica”, giugno-luglio 19216.

Successione eccezionale nei titoli da parte di donne
L’assicurare che certi titoli non si estinguano e che non passino al rango collaterale nel caso che l’intestatario maschile possieda più titoli, ha fatto annettere, seguendo una tradizione storica fondata nel capitolo 204 dell’Imperatore Carlo V, una eccezione, permettendo una successione per via femminile. Così l’art. 6523 disponendo che in via eccezionale su domanda dell’attuale intestatario di sesso maschile, possessore di più titoli nobiliari, può essere disposto, mediante decreto di R. assenso che, per il caso di sua morte senza discendenza maschile, succedano in uno dei titoli ed annessi predicati, purché non si tratti del predicato che fa parte del nome d’uso della famiglia, a preferenza della propria agnazione maschile, la figlia primogenita dell’unico figlio premorto o, in difetto, la figlia primogenita, e in difetto nell’ordine successivo, la sorella prossimiore, e dopo la loro morte, la rispettiva discendenza maschile.
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23 – Corrisponde al 10 dello statuto nobiliare del 1926, che lo accolse sotto forma di eccezione dalla proposta fatta dalla Commissione Araldica Siciliana. Ha formato oggetto di critiche. Per l’art. 10, la disposizione eccezionale era applicabile solo alle successioni napoletana, siciliana e sarda.

Uso di titoli da parte del figlio primogenito dell’intestatario
È stato parlato della refuta, cioè della anticipata successione nel titolo e nel feudo da parte del prossimo successibile (v. n. 12), ed è stato visto che questo istituto è stato soppresso dall’art. 8 dell’ordinamento del 1926, conservando però i diritti quesiti degli investiti. Il nuovo ordinamento conferma questo principio all’art. 62, ove stabilisce che sono conservati i diritti degli investiti di uno o più titoli per anticipata successione legalmente consentita, e che l’ulteriore successione nel titolo ha luogo secondo le nuove norme stabilite dall’art. 54 e all’art. 16 tratta della refuta in senso largo con rinnovazione del titolo (v. n. 48). Inoltre all’art. 66 tratta di un istituto consimile alla refuta, già previsto dall’articolo 11 dell’ordinamento del 1926, e derivante dalla consuetudine vigente presso le più alte famiglie della nobiltà napoletana e romana e che è richiamata nel Reale Rescritto 24-9-1827 di Francesco I di Napoli, che ammetteva che il capo di una famiglia avente titoli diversi permettesse per consuetudine che durante la sua vita uno di questi titoli fosse portato dal figlio primogenito. Questa consuetudine era stata costantemente riconosciuta dalla Consulta Araldica. Trattasi della facoltà consentita al titolare di più titoli che il di lui figlio primogenito, e, in difetto, il primo chiamato alla successione dei titoli usi durante la vita dell’intestatario di uno dei titoli stessi.
Qui non si ha dunque un vero passaggio di titolo dall’intestatario all’altro, ma il semplice uso da parte del nuovo chiamato, restando il titolo nella sfera dell’intestatario. L’esercizio di questa facoltà è subordinata a varie condizioni, e cioè che l’intestatario ne faccia domanda, che disponga di più titoli, che vi sia parere favorevole della Consulta Araldica. Il provvedimento è adottato con decreto del Capo del Governo.

Uso da parte del marito di titoli della moglie; passaggio dei titoli in caso di assenza
È stato già detto (v. n. 14) che la donna titolata non trasmetteva la nobiltà al marito, e che nel Napoletano, essendosi formata una consuetudine contro legge, che il marito portasse i titoli della moglie nobile, fosse stato ratificato questo uso con Dispacci 4 marzo e 24 aprile 1828. In conseguenza la Consulta Araldica aveva stabilito la massima che per fare tale uso occorresse un decreto ministeriale di riconoscimento, anche in quei paesi ove l’usanza si applicava.
Il nuovo ordinamento ha dovuto conciliare i diritti quesiti con il nuovo principio della esclusione della successione in persona di donne, e di conseguenza ha dovuto limitare del marito, nel caso di vedovanza, l’uso del titolo principale della moglie senza l’impiego del predicato, appoggiandolo cioè al proprio cognome, pel fatto che il titolo per la morte della moglie ritorna all’agnazione maschile della famiglia d’origine di essa. Difatti l’art. 61 del nuovo ordinamento, risultante dall’art. 7 dell’ordinamento del 1926 modificato dal cit. R. D. nel 1927, stabilisce che il marito di donna titolata che alla data del 7 settembre 1926 portava legalmente titoli e predicati nobiliari della moglie li conserva in costanza di matrimonio. Nel caso di morte della moglie potrà usare il di lei titolo principale senza predicato, e non oltre lo stato vedovile.
La Consulta Araldica aveva adottato la massima che era in sua facoltà di esaminare tutte le prove addotte per la giustificazione di un titolo nobiliare, applicando le regole regali dell’assenza quando ne fosse il caso. Il nuovo ordinamento ha voluto sulla base di detta massima regolare la situazione dei titoli nel caso di assenza, in cui non vi è una apertura di successione, applicando i principi informatori del Codice civile (art. 25-33) sull’assenza. Stabilisce infatti l’art. 68 dell’ordinamento che qualora a seguito di dichiarazione legale di assenza, sia stata autorizzata dall’autorità giudiziaria la immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente, colui che nel caso di morte dell’assente sarebbe chiamato a succedergli nei titoli ed attributi nobiliari, può chiedere di essere autorizzato con decreto del Capo del Governo, alla anticipata successione. Trattasi però di successione nel titolo subordinata a condizione risolutiva, poiché gli effetti della anzidetta autorizzazione cessano di pieno diritto, e senza che quindi occorra un decreto del Capo del Governo, nel caso che l’assente ritorni, o se comunque venga provata la sua esistenza.

Libertà della R. Prerogativa di non attenersi alle disposizioni dell’ordinamento nobiliare
Perché si avesse uniformità nella regolamentazione di tutta la materia, l’articolo 67 chiarisce che le anzicennate disposizioni circa lo statuto delle successioni nobiliari si applicano non soltanto alle antiche concessioni, ma anche a quelle avvenute dopo la unificazione politica del Regno e a quelle future. Di tali disposizioni rimangono in vigore a meno che nei singoli casi concreti la Prerogativa Sovrana non abbia dato espressamente maggiore o minore estensione alle disposizioni stesse o non abbia regolato con condizioni speciali l’ordine dei successibili.
Nonostante quindi l’esistenza di queste norme di carattere generale, rimane piena libertà al Sovrano di adoperare nelle concessioni norme differenti.
La Corona, come è libera in base all’art. 1 lett. a) del nuovo ordinamento di stabilire norme giuridiche di carattere generale aventi forma di legge per l’acquisto, la successione, l’uso, la perdita dei titoli e qualifiche nobiliari, così è anche libera di stabilire, nei casi singoli, norme apposite. Come può il più, a forziori può il meno.

La Consulta Araldica
L’esercizio della R. Prerogativa viene effettuato, come è stato detto (v. n. 28, 54), direttamente dal Re o dal Capo del Governo.
Nell’esercizio della prerogativa stessa essi sono coadiuvati da organi consecutivi e da uffici amministrativi.
Sono organi consultivi la Consulta Araldica e il Commissario del Re, il quale ha la rappresentanza degli interessi della R. Prerogativa, le Commissioni Araldiche Regionali.
L’art. 69 dell’ordinamento stabilisce che la Consulta Araldica del Regno è istituita presso la presidenza del Consiglio dei Ministri per dare pareri ed avvisi al Governo sui diritti mantenuti dall’art. 79 dello statuto fondamentale del Regno e sulle domande e questioni concernenti materie nobiliari ed araldiche. A proposito di questo articolo nella relazione del Capo del Governo al Re sul nuovo ordinamento viene affermato che uno dei capisaldi della riforma è che la Consulta ha funzione puramente consultiva in tutti i casi previsti dall’ordinamento. Ciò è dovuto al fatto che negli Stati italiani preunitari si erano costituite due tipi di giurisdizioni speciali circa la materia nobiliare, l’uno esclusivo, l’altro con competenza limitata in rapporto ai diritti privati. Nel primo gruppo possono comprendersi: il Piemonte con il R. Editto 29 ottobre 1847 di Carlo Alberto per il quale fu mantenuta la competenza speciale della Camera dei Conti per statuire anche in forma di giudizio sulla spettanza dei titoli di nobiltà di qualificazioni di origine feudale; la Lombardia colla giurisdizione speciale affidata, prima ad un tribunale araldico col Dispaccio di Maria Teresa del 27 gennaio 1767, poi al Consiglio di Governo con l’editto di Giuseppe II del 18 aprile 1786 e infine ad una speciale Commissione Araldica col decreto 14 dicembre 1814; il ducato di Parma con la sua Commissione Araldica istituita da Maria Luigia con decreto 29 novembre 1823 per dar pareri ed esaminare e riconoscere i titoli e i possessi di nobiltà, la Toscana con la sua Deputazione toscana istituita da Francesco II con la legge 31 luglio 1750; lo Stato Pontificio con l’Assunteria di Bologna istituita da Pio VII con breve 26 settembre 1820 e in Roma con la Congregazione Araldica Capitolina con la bolla del 1746 di Benedetto XIV, e poscia con la Congregazione del Buon Governo e con la Congregazione della Sacra Consulta.
Il secondo gruppo comprendeva il Ducato di Modena con l’editto di Francesco IV del 2 gennaio 1816 istituente il Tribunale Araldico chiamato a decidere intorno alle questioni di nobiltà, meno per le controversie civili di successione e proprietà; il Regno di Napoli e Sicilia con la Reale Commissione dei titoli di nobiltà, istituita col decreto 23 marzo 1833 di Ferdinando II, e avente nelle sue attribuzioni tutto quello che in fatto di nobiltà e dei titoli apparteneva alle antiche autorità, con specialità in tutti i casi di passaggio o trasmissione dai titoli di nobiltà, ma con esclusione delle questioni di stato o di prossimità di grado da decidersi preventivamente dal magistrato ordinario. Queste speciali giurisdizioni furono poi soppresse in seguito all’unità italiana, e nel R. D. 10 ottobre 1869 n. 5318, col quale venne istituita, fu affidata alla Consulta Araldica il compito di dar parere al Governo in materia di titoli gentilizi, stemmi ed altre pubbliche onorificenze. Con R. D. 8 maggio 1870 fu approvato il regolamento per la Consulta araldica. Col R. D. 11 dicembre 1887 n. 5138 fu dato un nuovo ordinamento alla Consulta e con R. D. 8 gennaio 1888 fu approvato il relativo regolamento. Un successivo ordinamento fu dato alla Consulta con R. D. 2 luglio 1896 n. 313, che all’articolo 1 stabiliva che essa era istituita per dare pareri ed avvisi al Governo sui diritti garantiti dall’art. 79 dello Statuto del Regno e sulle domande e questioni concernenti materie nobiliari ed araldiche. La dizione adoperata da questo articolo, in cui si comprendevano per la prima volta tra gli atti di competenza della Consulta i pareri e gli avvisi al governo sui diritti nobiliari, fece sorgere in taluni l’opinione, sostenuta anche davanti l’autorità giudiziaria, che la Consulta costituisse una speciale giurisdizione per i diritti nobiliari. D’altro canto, data la tendenza antica e tradizionale della giurisdizione speciale, e avuto riguardo alla specialità della materia, si venne formando nei cultori del diritto l’opinione che fosse opportuno circondare di speciali garanzie l’esplicazione della R. Prerogativa e di limitare la competenza giudiziaria ordinaria. Di tal che nel 1906 venne formulato dalla Consulta, sotto la presidenza del Ministro Fortis, un progetto di legge diretto a attribuire alla medesima funzioni giurisdizionali per le controversie da parte di chi sentisse il bisogno di opporsi, o di chi si credesse leso da un atto Sovrano o governativo, in relazione anche alla conferma, rinnovazione o riconoscimento di un titolo, stemma o predicato, e per tutti gli esami attinenti alla esistenza del titolo o del possesso, che secondo legge potesse farne le veci, nonché per qualsiasi controversia o disamina relativa all’uso, al passaggio, o alla trasmissione di titoli nobiliari, riservando ai tribunali ordinari le sole controversie concernenti lo stato delle persone e la prossimità del grado e le altre congeneri questioni di mero diritto privato tra i vari interessati. Ma la proposta, quantunque caldeggiata nella sua relazione dal compilatore del progetto Senatore Pagano Guarnaschelli, non ebbe seguito per non accrescere il numero delle giurisdizioni speciali sorte in seguito alla abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo, e per le difficoltà che avrebbe incontrato nel Parlamento, specie alla Camera dei Deputati. D’altro canto la giurisprudenza si era venuta sempre affermando nel senso che la Consulta Araldica non è un organo giurisdizionale, al quale le parti potessero rivolgersi per far valere i propri diritti e le cui deliberazioni potessero attribuire i titoli controversi, ma che essa fosse un organo consultivo e che la Prerogativa Sovrana lasciasse all’autorità giudiziaria la funzione dichiarativa del diritto ai titoli, sia quanto alla loro esistenza, sia quanto alla loro trasmissione garantita dalle norme di diritto successorio24 .
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24 – Vedi per ultimo Cassazione 28-2-1921, Villadicani c. Villadicani, in Foro Ital., 1921, 437.

Sua composizione
La Consulta Araldica dalla sua istituzione avvenuta, come è stato già detto nel 1869, ha subìto continue modificazioni sia nel numero dei suoi componenti, sia nella loro qualità. Essa in base all’art. 70 dell’ordinamento nobiliare, sostituito dal R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, è composta di 14 Consultori, è presieduta dal Capo del Governo, ed è assistita da un Cancelliere, capo dell’Ufficio Araldico. I Consultori sono nominati con Decreto Reale su proposta del Capo del Governo, udito il Commissario del Re presso la Consulta.
Fanno parte di diritto della Consulta Araldica: Il Presidente della Corte di Cassazione e il Presidente del Consiglio di Stato; gli altri 12 membri sono scelti come segue:
a) due membri del Gran Consiglio del Fascismo, in rappresentanza di detto organo;
b) due Senatori, in rappresentanza del Senato del Regno;
c) due Deputati in rappresentanza della Camera dei Deputati;
d) tre in rappresentanza delle famiglie iscritte nel Libro d’oro della nobiltà italiana;
e) tre in rappresentanza degli Istituti Storici, delle R. Deputazioni e di Società di Storia patria.
Si hanno così membri di diritto e membri elettivi.
Eccettuati i membri di diritto, tutti gli altri Consultori durano in carica 4 anni e possono essere confermati.
La innovazione dei due Consultori di diritto ha dato luogo a critiche infondate circa la posizione di disagio in cui essi si verrebbero a trovare nella eventualità che sarebbero state impugnate avanti l’autorità giudiziaria o il Consiglio di Stato, da parte di coloro che si credono lesi, le deliberazioni della Consulta Araldica alle quali essi avessero concorso col loro voto. Invece la presenza di questi due alti magistrati in seno alla Consulta costituisce una garanzia, perché le sue deliberazioni, siano improntate a sensi di imparzialità e a criteri esclusivamente giuridici25 .
Per quanto riguarda la rappresentanza delle famiglie nobili iscritte nel Libro d’Oro è da tener presente che la nobiltà italiana non è raggruppata in organismo né per tutto il Regno, né regionale, per cui la rappresentanza va intesa nel senso che i membri consultori sono scelti tra i membri delle famiglie iscritte nel Libro d’Oro.
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25 – SABINI, L’ordinamento cit., pag. 160 e seg.

La Giunta Araldica
Giusta l’art. 71 dell’ordinamento, sostituito dal citato R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, poiché la Consulta non si riunisce a data fissa e continua, ma a sessioni, fra i suoi membri viene Costituita una Giunta permanente composta di un presidente nominato con Decreto Reale e di 5 membri nominati con decreto del Capo del governo. Il Presidente della Giunta e i suoi membri durano in carica quattro anni, seguendo i turni quadriennali della Consulta Araldica e possono essere confermati. Questo collegio, come si vedrà, con competenza propria costituisce una specie di comitato della Consulta. Esso fu istituito per la prima volta col R. D. 11 dicembre 1887, cd è stato mantenuto, con varianti, nella sua composizione.

Ripartizione di competenza fra la Consulta e la Giunta Araldica
La ripartizione di competenza fra Consulta Araldica e Giunta Araldica permanente si desume dal disposto degli articoli 72, 73, 74 dell’ordinamento. È da ricordare che in base all’articolo 7 dell’ordinamento, per tutti i provvedimenti sia di grazia che di giustizia, ad eccezione di quelli emanati di motu proprio del Re è necessario il preventivo parere della Consulta o della Giunta Araldica (v. n. 46). Come regola, le istanze e le proposte di provvedimenti da esaminare sono dal Cancelliere presentate alla deliberazione della Giunta Araldica insieme al parere scritto del Commissario del Re (v. art. 130) ed a quello delle Commissioni Araldiche Regionali (articolo 72) (v. n. 103). Fanno eccezione però le istanze e le proposte di provvedimenti sulle seguenti materie che devono essere invece presentate alla deliberazione della Consulta Araldica (art. 74). I casi sono:
a) quando la deliberazione possa importare una decisione di massima;
b) quando si tratti di parere su concessioni di nuovi titoli o su rinnovazioni;
c) quando il voto della Giunta sia difforme dal parere del Commissario del Re;
d) quando il richiedente reclami una Consulta contro le deliberazioni della Giunta;
e) quando alla domanda dell’istante siano state fatte formali opposizioni da terzi interessati;
f) in ogni altro caso in cui lo richieda il Commissario del Re o lo disponga il Capo del Governo.
Come si evince la competenza della Giunta è data per esclusione, e la Consulta Araldica ha nei casi di cui alle lett. c), d), una competenza di seconda istanza, in rapporto alla Giunta, e negli altri casi una competenza di prima ed unica istanza.
L’art. 74 dell’ordinamento vigente, in raffronto all’art. 8 del regolamento del 1896, allarga la competenza della Consulta anche al caso di parere su concessioni di nuovi titoli o su rinnovazioni.

Funzionamento della Consulta e della Giunta Araldica
Gli articoli dal 78 all’86 dell’ordinamento nonché il 70 modificato dal R. D. 9-10-1930 n. 1405 contengono le norme per il funzionamento della Consulta e della Giunta, delle quali norme è superfluo ogni raffronto con il regolamento del 1896. La Consulta è convocata dal Capo del Governo almeno tre volte all’anno, con inviti a firma del Cancelliere, corredati dall’ordine del giorno e spediti almeno dieci giorni prima dall’inizio della sessione. Le sedute sono presiedute dal Capo del Governo, e in caso di sua assenza o impedimento dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o dal Consultore più anziano di età, e, se di pari anzianità di età, dal Consultore più anziano di nomina. La Giunta è convocata dal suo Presidente, sentito il Commissario del Re. È qui da ricordare che per il citato R. D. 9 ottobre 1930 n. 1405 che ha modificato l’art. 70 dell’ordinamento, è stato soppresso il Commissario del Re aggiunto, per cui non occorre più la specificazione di Commissario del Re effettivo, come fa l’art. 79, né di Commissario intervenuto alla adunanza di cui è cenno negli articoli 85 e 86, dato che vi è un solo Commissario. La di lui presenza per la modifica dell’art. 76 è però necessaria per la validità delle adunanze della Consulta e della Giunta permanente araldica, in cui negli intervalli per illustrare il parere da lui formulato nelle pratiche iscritte all’ordine del giorno. Gli inviti alla riunione a firma del Cancelliere, corredati dall’ordine del giorno devono essere inviati con anticipazione almeno di 10 giorni, salvo i casi d’urgenza, nei quali la convocazione può essere fatta anche con avviso spedito 3 giorni prima.
Per la validità delle deliberazioni occorre che intervengano alle adunanze della Consulta almeno otto Consultori, e a quelle della Giunta almeno quattro.
I Consultori che senza giustificato motivo manchino a tre sessioni consecutive della Consulta si reputano dimissionari (art. 80). Per gli art. 70, 71 e 81 dell’ordinamento vi erano anche in seno alla Consulta sette Consultori supplenti, chiamati prima onorari, e in seno alla Giunta due Commissari supplenti, membri tutti che per il R. D. 1930, n. 405, sono stati aboliti. I Consultori e i Commissari supplenti potevano intervenire rispettivamente alle adunanze, e, quando vi supplivano i membri effettivi, potevano prendere parte alla discussione ed alla votazione per integrare il numero legale dei votanti effettivi.
Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti, in caso di parità il voto del Presidente prevale. A domanda di due Consultori le votazioni possono essere segrete (art. 82).
I membri della Consulta, nel termine stabilito per la convocazione delle adunanze, possono
prendere visione delle domande poste all’ordine del giorno e dei relativi documenti (art. 83). Quando alla Consulta o alla Giunta o ai rispettivi Presidenti sembri opportuno, gli affari di maggiore importanza possono essere affidati all’esame di uno o più Consultori per farne oggetto di una speciale relazione (art. 84).
Circa la determinazione degli affari di maggiore importanza è da rilevare che l’importanza non è data dalla sola natura del singolo affare, ma dalle conseguenze che esso può importare per la trattazione della materia in generale, dalla ripercussione che una decisione può avere su altri affari o su decisioni di massima ecc. È stato, e giustamente, rilevato dal Sabini che il sistema di trattazione degli affari in seno alla Consulta ed alla Giunta si discosta da quello di tutti gli altri organismi consultivi dello Stato, nei quali per ogni affare ordinariamente sono nominati un relatore o più relatori, mentre alla Consulta ed alla Giunta la nomina di uno o più relatori è riservata agli affari di maggiore importanza, e di regola gli affari vengono portati alle decisioni del Collegio accompagnati dal solo parere del Commissario del Re.
Una innovazione dell’ordinamento è quella che eleva la posizione del Cancelliere in seno alla Consulta ed alla Giunta, trasformandolo da semplice segretario redattore dei verbali a collaboratore effettivo. Infatti l’art. 87 lett. CL, dispone che egli assista alle adunanze della Consulta e della Giunta e richiami all’occorrenza le precedenti deliberazioni in casi analoghi, per cui egli con la sua opera di ausilio e di consiglio cerchi di assicurare, per quanto possibile, la uniformità di indirizzo delle deliberazioni.
I verbali delle adunanze sono compilati dal Cancelliere, vistati dal Commissario del Re e sottoscritti dal Presidente. In ciascuna tornata della Consulta o della Giunta viene data lettura del verbale della tornata precedente. Nei verbali delle adunanze si fa constare del parere del Commissario del Re, dell’avviso delle Commissioni Araldiche Regionali, delle conclusioni del relatore o dei relatori, dello svolgimento della discussione e delle deliberazioni prese (art. 85). Un estratto dei verbali a cura del Commissario del Re è sottoposto alla approvazione del Capo del Governo; dopo di che viene trascritto in due registri Speciali dell’Ufficio Araldico (art. 86).
Il Cancelliere, giusta l’art. 96 dell’ordinamento, custodisce i registri dei Decreti Reali, delle
R. Lettere Patenti, dei decreti ministeriali, dei verbali della Consulta e della Giunta. In base all’articolo 87 egli custodisce i libri, i registri araldici e l’archivio della Consulta, amministra i fondi assegnati alla Consulta, e per l’art. 103 fa compilare per tutti i registri araldici e per i Verbali delle adunanze della Consulta e della Giunta gli indici alfabetici dell’oggetto delle deliberazioni prese, dei nomi degli enti morali e delle massime adottate.
I certificati e gli estratti di detti libri e registri, collazionati ed autenticati, sono, in base all’articolo 104, rilasciati dal Cancelliere col visto del Commissario.

Portata delle deliberazioni della Consulta e della Giunta Araldica
Circa la portata delle deliberazioni della Consulta e della Giunta soccorrono gli articoli 73, 74, 131, 132.
Quando il voto della Giunta non è conforme al parere del Commissario del Re, l’affare deve essere sottoposto alla deliberazione della Consulta (art. 74); quando invece il voto è conforme, il Commissario presenta al Capo del Governo una relazione sul provvedimento da emettersi (articolo 73). Eguale relazione il Commissario è tenuto a presentare al Capo del Governo quando sia intervenuta una deliberazione della Consulta (articolo 131).
Quando il Capo del Governo abbia approvato (impropriamente sanzionato dice l’articolo) la deliberazione, il Cancelliere a mezzo dell’Ufficio Araldico cura la spedizione del provvedimento, e l’Ufficio stesso dà prontamente avviso agli interessati del tenore dal provvedimento messo (articolo 132).

Il Commissario del Re
Il Commissario del Re presso la Consulta Araldica fu istituito col R. D. 10 ottobre 1869, n. 5318, al pari della Consulta stessa, ed è stato successivamente conservato. Circa la sua nomina fin dalla istituzione venne stabilito dovesse effettuarsi mediante Decreto Reale, e così ancora era detto all’art. 70 dell’ordinamento, sennonché l’art. 1 del R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, che l’ha sostituito, non porta alcuna indicazione in proposito.
Non può però dubitarsi che, la sua nomina debba effettuarsi per Decreto Reale su proposta del Capo del Governo, data l’elevatezza della carica di rappresentante della Prerogativa Sovrana, che per la delicatezza delle sue funzioni deve riscuotere anche la fiducia del Capo del Governo26 . Parimenti l’ordinamento attuale continua nella tradizione iniziata col 1869 di non stabilire quali siano i requisiti per la nomina a Commissario del Re, per cui la scelta rimane del tutto libera al Sovrano. Circa le sue attribuzioni, tenuto conto delle modifiche contenute nel R. D. 1405 agli art. 75 e 76, il Commissario esamina le istanze e le proposte di provvedimenti nobiliari che gli vengono comunicate dall’Ufficio Araldico, chiede per il tramite del Cancelliere agli istanti chiarimenti ed anche più ampia e precisa documentazione, stabilendo all’uopo un termine non maggiore di tre mesi. Esaurita la istruttoria della pratica o trascorso inutilmente il termine prefisso, restituisce gli atti col proprio parere all’Ufficio Araldico. Inoltre il Commissario invigila sul funzionamento degli Uffici della Consulta Araldica e di quelli delle Commissioni Araldiche Regionali. Spetta anche al Commissario, udito il Capo del Governo, di sottoporre all’assenso Sovrano tutte le proposte di provvedimenti di grazia. Ma oltre questi compiti e quelli indicati sulla partecipazione alle sedute della Consulta e della Giunta (v. n. 100), il Commissario ne ha altri. Così, giusta l’art. 7 dell’ordinamento (v. n. 46) egli deve essere sentito previamente per i provvedimenti che riguardano predicati o stemmi, e deve ricevere pronta partecipazione dei provvedimenti di motu proprio Sovrano. Per l’art. 49 egli deve richiedere l’annotazione a margine sopra i libri e registri della Consulta Araldica del decreto che pronuncia la perdita dei titoli, predicati e qualifiche ed è tenuto a dare notizia di tale annotazione alla Consulta nella prima riunione successiva alla annotazione stessa (v. n. 83); per l’art. 77 egli è tenuto ad effettuare le verifiche degli alberi genealogici e ad autenticarne l’esattezza col visto del Capo del Governo, autenticazioni e verifiche da limitarsi all’inizio della nobilitazione; per l’art. 90 può chiedere, pareri ed avvisi (v. n. 103) alle Commissioni Araldiche Regionali. Occorre il di lui consenso perché sia data visione agli interessati che li produssero, dei documenti conservati nell’archivio della Consulta (art. 105), e perché in certi casi, specificati dall’art. 107, siano restituiti agl’interessati i documenti esibiti (v. n. 111). In materia di trattazione delle domande relative a provvedimenti nobiliari il Commissario, giusta l’art. 112, ha la facoltà, ove lo creda opportuno, di richiedere al Prefetto del luogo di domicilio dell’istante informazioni in via riservata sulla condotta morale e sulle condizioni economiche dell’istante e dei suoi prossimi congiunti (v. n. 116), e, giusta l’art. 123, può richiedere, allorquando le domande involgano palesemente interessi di terzi, che gli istanti ne facciano pubblicare un sunto nella Gazzetta ufficiale del Regno e nei fogli degli Annunci Legali delle province di origine e di residenza dagli istanti.
Dal lato storico, la competenza del Commissario del Re richiama alla mente la Commissione Reale dei titoli di nobiltà istituita da Ferdinando II di Borbone col decreto 23 marzo 1833, uno dei membri della quale aveva funzioni di pubblico ministero. Detto ufficio era ricoperto dal procuratore generale presso la Corte Suprema di Giustizia in Napoli o in Palermo, ed aveva anche il compito di praticare l’istruttoria delle domande sulle quali doveva deliberare la Commissione. Egli doveva essere necessariamente sentito in tutti gli affari, in modo che diventava il centro motore e controllore dell’attività della detta Commissione.
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26 – Ciò è confermato dal R.D. 27 luglio 1934, n. 1334, il quale dispone che il D. R. non è sottoposto alla registrazione della Corte dei Conti.

Le Commissioni Araldiche Regionali
Le Commissioni Araldiche Regionali sorsero col R. D. 15 giugno 1889 che approvava il regolamento per le iscrizioni di ufficio nei registri della Consulta Araldica, con il compito temporaneo della formazione degli elenchi regionali delle famiglie in possesso legittimo ed attuale di titoli nobiliari. Esse però si ricollegano ai corrispondenti onorari della Consulta, istituiti col R. D. 11 dicembre 1887, n. 5138, con l’incarico di fornire pareri e notizie alla Consulta ed al Commissario del Re. Con R. D. 5 marzo 1891 le Commissioni Regionali furono dichiarate permanenti e fu loro affidato inoltre l’incarico già disimpegnato dai corrispondenti onorari per le materie delle rispettive regioni. Come per i corrispondenti onorari, fu vietato alle Commissioni di avere relazioni ufficiali col pubblico. Le Commissioni Regionali furono conservate nel nuovo ordinamento della Consulta approvato col R. D. 2 luglio 1896.
L ‘art. 90 dell’ordinamento, integrato dal R. D. 9 ottobre 1930 n. 1405, stabilisce che le Commissioni Araldiche Regionali sono istituite per dare avvisi e notizie sulla materia nobiliare riguardante le rispettive regioni, a richiesta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Consulta Araldica o del Commissario del Re. Esse sono in numero di 14 in ciascuna delle seguenti regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Venezia, ex Ducato di Parma, ex Ducato di Modena, Toscana, Roma con Umbria e Marche, Romagna, ex Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Venezia Giulia e Tridentina. La nuova dizione adoperata di dare avvisi e notizie corrisponde alla precedente, poiché qui avviso è adoperato nel senso di parere illustrato.
La composizione delle Commissioni è stabilita dall’art. 91 dell’ordinamento modificato dal citato R. D. 9 ottobre 1930, e consta di 8 membri di cui 2 di diritto e 6 elettivi. Sono membri di diritto il Presidente, che è il Presidente della Corte d’Appello o del Tribunale secondo che nelle rispettive regioni esista una Corte d’Appello o un Tribunale, e il Vice Presidente, che è il Sopraintendente o Direttore dell’archivio di Stato della Regione. Sono membri elettivi: due scelti in rappresentanza degli istituti e archivi locali, quattro scelti in rappresentanza delle famiglie iscritte nel Libro d’oro della nobiltà italiana per il patriziato locale.
Il Presidente e i membri delle Commissioni Araldiche Regionali sono nominati con decreto del Capo del Governo su proposta del Commissario del Re, il quale come è stato detto (v. numero 102) vigila sugli uffici delle Commissioni Regionali. I membri elettivi durano in carica quattro anni seguendo i turni quadriennali della Consulta Araldica, e possono essere confermati27 .
Il Segretario è nominato dalla rispettiva Commissione e assieme col Sovraintendente o col Direttore dell’Archivio di Stato locale conserva l’archivio della Commissione e ne risponde verso l’Ufficio Araldico della Consulta (art. 92). Le Commissioni sono convocate dai rispettivi Presidenti, o in caso di impedimento, dal Commissario che ne fa le veci in ordine di anzianità di nomina, almeno una volta ogni bimestre, con invito a firma del Segretario inviato almeno 8 giorni prima dell’adunanza e corredato dall’ordine del giorno (art. 93). Quando la Commissione lo deliberi o quando il Presidente lo creda opportuno, gli affari di maggiore importanza possono essere affidati all’esame di uno o più Commissari per farne speciale relazione (art. 94). Le deliberazioni sono valide con l’intervento della metà dei componenti la Commissione; in caso di parità di voti, il voto del Presidente prevale. I Commissari che, senza giustificato motivo, manchino a tre sessioni consecutive sono considerati dimissionari. Il Segretario ne darà pronta partecipazione al Cancelliere della Consulta (art. 95).
Come si evince dalla composizione e dal funzionamento, le Commissioni Araldiche Regionali sono state modellate sulla Consulta Araldica, ciò che ha determinato critiche circa l’obbligo imposto al Presidente per la convocazione bimestrale della Commissione anche quando ad essa manchi lavoro da compiere, come può avvenire per quelle Commissioni che hanno una assai limitata competenza territoriale. È stata inoltre rilevata la scarsa utilità di esse, specie ora che è stata ultimata la compilazione DEGLI elenchi regionali delle famiglie nobili e che si è stabilita uniformità di legislazione per tutto il Regno. Ciò non pertanto non può escludersi la loro utilità, dato che possono sempre sorgere questioni che hanno bisogno di essere illustrate con documenti contenuti negli archivi di Stato locali, illustrazioni che possono esser meglio fatte da persone specializzate nella materia, e che è opportuno mantenere in permanente esercizio, dato che il diritto nobiliare ha finora trovato pochi cultori.
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27 – L’art. 5 del R. D. 9 ottobre 1930, per una sicura svista stabilisce che anche i membri di diritto durano in carica 4 anni, ciò che è un controsenso.

L’Ufficio Araldico
Parlando della Consulta Araldica (v. n. 97) è stato detto che il Cancelliere di essa è anche Capo dell’Ufficio Araldico. Di detto ufficio viene fatta menzione per la prima volta nel regolamento 8 gennaio 1888 per la Consulta, pur disimpegnando il Cancelliere le mansioni attribuite a detto ufficio fin dalla istituzione della Consulta. Nel nuovo ordinamento, come nel regolamento del 1896, sono stabiliti i compiti dell’Ufficio Araldico il cui Capo è ad un tempo alle dipendenze del Capo del Governo e coadiuva il Commissario del Re. Il personale di concetto e di ordine addetto all’Ufficio Araldico è alle dirette dipendenze del Capo di detto ufficio ed è nominato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 88).
Le attribuzioni del Capo di Ufficio Araldico insieme con quelle di Cancelliere della Consulta sono indicate per esemplificazione nell’art. 87 dell’ordinamento. Esse sono:
a) riceve le istanze e le proposte di provvedimenti nobiliari e provvede per la loro spedizione (v. n. 114, 116);
b) cura la riscossione dei diritti di cancelleria (v. n. 69);
c) amministra i fondi assegnati alla Consulta;
d) custodisce i libri, i registri araldici e l’archivio della Consulta (v. n. 100, 105);
e) cura la redazione dei provvedimenti Sovrani e di quelli del Capo del Governo e la loro trascrizione nell’apposito registro conservato nell’Archivio di Stato di Roma, a termini dell’art. 8 dell’ordinamento (v. n. 70);
f) rilascia, con l’autorizzazione del Commissario del Re, estratti delle deliberazioni della Consulta o della Giunta, già approvate (sanzionate) dal Capo del Governo, e certificati di quanto può risultare dai registri e dai libri araldici (v. n. 105);
g) provvede alla iscrizione nell’Elenco Ufficiale Nobiliare (v. n. 110), su domande degli interessati debitamente documentate, dei loro nomi, sempre che tali iscrizioni riguardino discendenti di persone già legalmente iscritte; provvede alla cancellazione dei nomi dei defunti. Questa attribuzione non è semplicemente esecutiva, ma implica un giudizio di merito sulla regolarità e sulla sufficienza della documentazione presentata. Limitazione a questa facoltà di iscrizione è che si tratti di discendenti di persone già legalmente iscritte. Così nel caso di cui all’art. 57, per i titoli concessi o riconosciuti per tutti i maschi di una agnazione quando sia provata la discendenza dal primo titolare. Così sembra anche per gli ultrogeniti di famiglia insignite di titoli primogeniali per far uso legale di titolo di nobile, quando sia provata tale qualità di ultrogeniti, quantunque non si tratti di discendenti, dato che il diritto al titolo nasce dallo stesso art. 57 della legge;
h) assiste, come è stato detto (v. n. 100), alle adunanze della Consulta e della Giunta, richiamando all’occorrenza le precedenti deliberazioni in casi analoghi e redige i verbali;
i) autentica i decreti del Capo del Governo;
l) compila sotto la direzione del Commissario del Re il Bollettino ufficiale della Consulta Araldica e d’ordine del Capo del Governo ne cura la pubblicazione.
Il Bollettino ufficiale predetto è una pubblicazione periodica la quale deve contenere, giusta l’art. 89 dell’ordinamento, il testo delle nuove norme giuridiche di legislazione nobiliare emanate dal Re, le decisioni di massima deliberate dalla Consulta ed approvate dal Capo del Governo e l’elenco di tutti i provvedimenti in materia nobiliare emanati rispettivamente dal Re e dal Capo del Governo. Possono pubblicarsi altresì nel Bollettino le sentenze più notevoli in questioni relative al diritto nobiliare e monografie storico-giuridiche-araldiche.
Il Bollettino venne istituito coll’art. 75 del regolamento del 1870.
m) comunica al Commissario del Re i provvedimenti e le deliberazioni del Governo.
L’Ufficio Araldico per l’art. 127 è tenuto entro 60 giorni dalla presentazione della domanda dell’interessato alla iscrizione nei registri della Consulta dei titoli o attributi nobiliari riconosciuti in seguito a sentenza passata in giudicato (vedi n. 123).

I libri araldici
I libri araldici che sono tenuti dall’Ufficio Araldica, sotto la direzione del Commissario del Re sono, giusta l’art. 97 dell’ordinamento, i seguenti:
a) il Libro d’oro della Nobiltà Italiana;
b) il Libro Araldica dei titolati stranieri;
c) il Libro Araldica degli stemmi di cittadinanza;
d) il Libro Araldico degli Enti morali; e) l’Elenco Ufficiale Nobiliare.
Nell’ordinamento della Consulta 11 dicembre 1887 non erano previsti i libri predetti, ma erano tenuti appositi registri nei quali erano iscritti coloro i cui diritti nobiliari fossero stati riconosciuti e potevano esservi pure iscritte tutte le persone componenti ciascuna delle famiglie nobili o titolate, tenendovi nota delle nascite, dei matrimoni o morti, se fossero stati presentati i documenti giustificativi. I libri predetti, escluso l ‘elenco ufficiale, furono istituiti col regolamento del 1896. Essi servono ad uso della pubblica amministrazione e i privati possono (v. n. 104) avere rilasciati dal Cancelliere certificati o estratti col visto del Commissario del Re (art. 104).

Il libro d’oro
Il Libro d’oro è una compilazione inedita28 fatta dalla pubblica amministrazione nella quale si inscrivono le famiglie italiane che ottennero la concessione, la rinnovazione, l’autorizzazione o il riconoscimento di titoli e attributi nobiliari. Dalla inscrizione deve risultare il paese di origine, la dimora abituale della famiglia, i titoli e attributi nobiliari con le indicazioni di provenienza e di trasmissibilità, i provvedimenti Regi o Governativi, la descrizione dello stemma e la parte di genealogia che fu documentata. Per aggiungere altri nomi alla pagina di una famiglia già inscritta nel Libro d’oro e nell’Elenco ufficiale nobiliare è sufficiente, per i discendenti in linea diretta di persona inscritta la produzione dei relativi atti di nascita. Nel caso che la aggiunta di altri nomi alla genealogia del Libro d’oro sia richiesta da collaterali degli inscritti, detti collaterali devono produrre, oltre alla domanda ed alla documentazione necessaria, il consenso scritto di colui o dei suoi aventi causa, se defunto, che procurò per primo la regolare ricognizione e inscrizione della famiglia. Il collegamento dei collaterali al capostipite deve però essere avvenuto posteriormente alla nobilitazione della famiglia, poiché se fosse anteriore il ramo collaterale non rientrerebbe nella linea diretta dei successibili del primo concessionario. Il consenso di colui che è inscritto o dei suoi aventi causa è necessario, dato che il collaterale verrebbe ad avvalersi dei documenti esibiti dal primo Concessionario. Nel caso che manchi detto consenso, il collaterale, ricollegantesi al capostipite comune posteriore alla nobilitazione della famiglia, dovrà esibire la documentazione per proprio conto e procurarsi il decreto di riconoscimento del Capo del Governo a termini dell’art. 7. In questo caso si fa luogo alla iscrizione di una nuova famiglia in un’altra diversa pagina del Libro nonostante che la famiglia porti lo stesso cognome. Le tabelle per la iscrizione nel Libro d’oro sono compilate dell’Ufficio Araldico, firmate dal Cancelliere e approvate dal Commissario del Re (art. 98). Gli interessati hanno diritto di far apportare le rettifiche occorrenti in caso di errori o di omissioni, presentando la necessaria documentazione. Parimenti essi hanno diritto a chiedere le iscrizioni nel caso di riconoscimento del diritto a titoli o attributi nobiliari in seguito a sentenza dell’autorità giudiziaria passata in giudicato, a sensi dell’art. 126 (v. n. 123).
Allo scopo di completare e aggiornare la compilazione del Libro d’oro col R. D. 7 settembre 1933, n. 1990 venne stabilito che i cittadini italiani indicati nell’Elenco ufficiale nobiliare, approvato con detto Decreto, non ancora iscritti nel Libro d’oro (quelli cioè non contrassegnati da asterisco) dovranno chiedere la iscrizione dei propri titoli, predicati e stemmi nel termine inderogabile di tre anni dal 13 febbraio 1934. Le domande di iscrizione possono essere trasmesse da ogni capo famiglia29 con le modalità prescritte dagli art. 109 e 122 dell’ordinamento, cioè mediante la esibizione dell’ordinaria documentazione (v. n. 114, 115). E ciò per il fatto che le iscrizioni nell’Elenco predetto di quelle famiglie non contrassegnate da asterisco furono fatte non in base a Decreto Reale o Ministeriale, ma d’ufficio dalle Commissioni Araldiche Regionali (v. n. 105) senza che, in generale, vi fosse stata presentazione di domanda e di documenti dimostranti il proprio diritto. Quindi se presso la Commissione Araldica Regionale non esiste prova sufficiente della concessione del titolo, questa prova bisogna darla; così pure se non fossero stati prodotti alla Commissione stessa gli atti di stato civile, di nascita e matrimonio, a corredo dell’albero genealogico da cui risultasse la posizione successoria dell’iscritto e l’attacco col primo concessionario o con l’ultimo investito o riconosciuto del titolo, bisognerà produrli. L’Ufficio Araldico si riserva di domandare direttamente agli interessati i diplomi di concessione dei titoli e dei predicati nobiliari.
Inoltre per il R. D. 22 settembre 1932 n. 1464 (v. n. 69) bisogna pagare le tasse in ragione di 1/20 delle tasse di concessione o autorizzazione del titolo, e in caso di più titoli di quello più elevato, e quello dello stemma (v. n. 128).
I cittadini italiani che nel termine suddetto non avranno presentato tali domande, e coloro le cui domande fossero state respinte non saranno più compresi nei successivi elenchi nobiliari se non dopo che avranno ottenuto la iscrizione nel Libro d’oro.
Inoltre coloro che sono già inscritti nel Libro d’oro dovranno inviare alla Cancelleria della Consulta Araldica copia autentica degli atti di nascita, di matrimonio, e morte dei membri delle rispettive famiglie, nel termine di tre mesi dall’avvenimento e dovranno versare al cassiere della Consulta la somma di L. 5 per ogni annotazione di nascita o matrimonio o morte.
Per il disposto dell’art. 30 dell’ordinamento (v. n. 78) per il quale sono considerati titoli italiani e ad essi equiparati quelli concessi ai propri sudditi da Sovrani italiani o stranieri che regnarono nelle varie parti d’Italia, prima della unificazione nazionale, coloro che appartenevano alle province ex Austro-ungariche annesse all’Italia, e sono divenuti cittadini italiani, sono da considerare, se insigniti di titoli nobiliari dal cessato Governo, come italiani, e come tali da inscriversi nel Libro d’Oro della nobiltà italiana.
In merito alla iscrizione nel Libro d’oro il Consiglio di Stato con decisione 11 dicembre 192530 ha stabilito che il provvedimento di iscrizione non ha in sé valore di una dichiarazione giuridica sulla esistenza e pertinenza del diritto alle distinzioni nobiliari di cui viene domandata la iscrizione, ma è bensì un atto amministrativo, che deve far seguito alle dichiarazioni delle autorità competenti (autorità giudiziaria) ad affermare il diritto stesso, e che è prescritto come condizione per poter valere i titoli nobiliari e per potere esigere che essi vengano ufficialmente attribuiti.
Contro i provvedimenti relativi alla iscrizione nel Libro d’Oro è ammesso ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale per motivi di legittimità. Tra iscrizione al Libro d’oro può essere legittimamente negata anche quando esista una sentenza che abbia riconosciuto il diritto alla distinzione per cui si domanda la iscrizione e che sia passata in giudicato fra le parti contendenti, qualora vi siano altre persone che possano contestare tale diritto e per le quali la sentenza non costituisca cosa giudicata.
La iscrizione nel Libro d’oro non costituisce un adempimento puramente meccanico in base a determinate documentazioni, ma una delicata funzione che implica un apprezzamento da parte della Consulta Araldica circa l’esaurienza della documentazione prodotta. Dal punto di vista storico è stato già detto dei Libri d’oro nei vari ex Stati (v. n. 19, 20, 21, 40) specie di quelli più antichi di Venezia e di Genova, rimontanti al 1506 e al 1528.
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28 – I cosidetti Libri d’Oro che sono in vendita sono compilazioni di privati, che non hanno valore legale. Pregevole è però per la copia e la esattezza delle notizie il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, pubblicato periodicamente fin dal 1910 per cura del Collegio Araldico Romano.

29 – Rappresentante, o come dicesi colonnello della casa, capo della famiglia, è colui al quale spettano i titoli di cui la famiglia è investita.

30 – Giur. It., 1926, III, 50.

Il libro dei titolati stranieri
Nel Libro dei titolati stranieri sono segnate tanto le famiglie italiane che sono nel legittimo possesso di titoli stranieri, debitamente riconosciuti o confermati nel Regno, quanto le famiglie straniere che sono nel legittimo e riconosciuto possesso di titoli italiani o stranieri (articolo 99). Le iscrizioni in detto Libro sono effettuate con le stesse norme di quelle nel Libro d’oro. In confronto al regolamento del 1896, il Libro dei titolati stranieri importa l’innovazione di comprendere anche le famiglie straniere, residenti nel Regno e in possesso di titoli stranieri.
In applicazione dell’art. 5 del R. D. 10 luglio 1930, n. 974, sono da comprendere in detto Libro gli stranieri residenti nel Regno che hanno avuto concessi titoli nobiliari dalla Santa Sede, e siano stati autorizzati all’uso nel Regno e nelle Colonie.
Circa i titoli nobiliari e stemmi pontifici concessi a cittadini italiani o a cittadini dello Stato della Città del Vaticano dopo il 1870, e dei quali è stato autorizzato l’uso nel Regno e nelle Colonie, lo stesso R. Decreto, mentre stabilisce che essi sono annotati nei registri araldici e nell’Elenco Ufficiale della nobiltà italiana con la specifica annotazione di concessione pontificia, nulla dice circa la iscrizione delle relative famiglie nel Libro d’oro o nel Libro araldico dei titoli stranieri.
In base però all’articolo 6 del Regolamento interno per l’autorizzazione all’uso dei titoli nobiliari pontifici, deliberato dalla Consulta il 2 febbraio 1925, la loro iscrizione viene effettuata nel Libro d’oro della Nobiltà Italiana.

Il libro degli stemmi di cittadinanza
Il Libro araldico degli stemmi di cittadinanza serve alla inscrizione di famiglie cittadine che sono nel legittimo e riconosciuto possesso di stemmi (v. n. 56). Il libro contiene la descrizione dello stemma e dei suoi ornamenti, le indicazioni della concessione o riconoscimento e delle relative deliberazioni (art. 100). Nel regolamento del 1896 era chiamato libro della cittadinanza.

Il libro degli enti morali
Nel libro araldico degli enti morali (v. n. 105) sono segnati gli stemmi, le bandiere, i sigilli, i titoli e le altre distinzioni riguardanti province, comuni, società e di altri enti morali, con le indicazioni dei riconoscimenti e delle relative deliberazioni (art. 101).

L’elenco ufficiale nobiliare
Nell’Elenco Ufficiale nobiliare sono segnati i nomi e cognomi per ordine alfabetico di tutte le persone che si trovano nel legittimo e riconosciuto possesso di titoli e attributi nobiliari (art. 102). Per l’art. 4 del R. D. 7 settembre 1933, n. 1990, gli stranieri residenti o domiciliati nel Regno, che hanno ottenuto l’autorizzazione di cui all’art. 32 dell’ordinamento, sono iscritti in appendice nell’Elenco Ufficiale. Dei titoli pontifici concessi dopo il 1870 a cittadini italiani o dello Stato della Città del Vaticano è stato già detto (v. n. 107). La Consulta nel 1926 aveva adottato la massima che nell’Elenco dovevano essere iscritti tutti i membri delle famiglie nobili, anche se appartenenti al clero, salvo a mettere nel Decreto Reale che approva l’Elenco un articolo in cui si dichiari che i religiosi non possono usare i titoli nobiliari loro derivanti dalla appartenenza a famiglie nobili. Questa massima non è stata però seguita nell’approvazione dell’Elenco del 1933 (v. anche n. 84).
L’elenco è approvato con D. R. su proposta del Capo del Governo. Per tenere l’elenco aggiornato, ogni anno dovrebbe pubblicarsi un elenco suppletivo coi nomi e cognomi delle persone alle quali sia stato durante l’anno riconosciuto, confermato, concesso o revocato un titolo o altra distinzione nobiliare (art. 102). Sennonché l’Elenco ufficiale supplementare previsto dal R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442, non fu mai pubblicato, e solo col R. D. 7 settembre 1933, n. 1990, pubblicato il 12 febbraio 1934, fu approvato il nuovo Elenco Ufficiale, contenente anche le nuove iscrizioni in seguito alla riforma del 1929. Allo scopo di assicurare la conoscenza di coloro che hanno diritto a portare titoli o altre distinzioni nobiliari e di reprimere quindi gli abusi da parte di coloro che li usurpano o ne fanno illegittimo uso (v. n. 125) l’art. 5 del R. D. 7 settembre 1933 stabilisce i modi onde render notori l’Elenco ufficiale e i suoi supplementi. Un esemplare stampato va trasmesso alle Prefetture e alle Intendenze di Finanza per esservi depositato a disposizione di chiunque voglia prenderne visione. I Prefetti danno notizia al pubblico di tale deposito, mediante un manifesto da affiggersi nei modi consueti e da inserirsi nel foglio periodico degli annunzi legali delle rispettive province. Un esemplare a stampa dello stesso elenco e dei successivi supplementi va rimesso ai Ministeri, al Primo Presidente della Corte di Cassazione, al Presidente del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, alle Procure Generali del Re, alle Procure del Re, alle Preture, alle Questure, agli Archivi Notarili, all’Archivio di Stato di Roma, alle Commissioni Araldiche Regionali, alle R. Ambasciate, ai R. Consolati e alle R. Agenzie Consolari all’estero. In caso di errori od omissioni gli interessati hanno diritto di chiedere le rettifiche presentando la necessaria documentazione.
L’elenco ufficiale è derivato dall’art. 15 del R. D. 15-6-1889 sulle inscrizioni d’ufficio nei registri della Consulta, che prevedeva la riunione in Unico elenco generale di tutte le famiglie che erano nell’attuale legittimo possesso di titoli nobiliari. L’elenco fu approvato con R. D. 3-7-1921 e pubblicato nel 1922 dall’editore Bocca di Torino.
L’elenco del 1922 ha in confronto di quello del 1933 il vantaggio di contenere le condizioni di trasmissibilità del titolo, la data di concessione o riconoscimento o rinnovazione, ciò che consente di conoscere con facilità a quale epoca rimonti la nobiltà della famiglia. L’elenco del 1933 presenta però il vantaggio di essere corredato di un elenco alfabetico dei predicati, ciò che permette di identificare il cognome della famiglia cui spetta la distinzione nobiliare.
Ad ambedue gli elenchi non sono mancate le critiche per la loro incompletezza e per gli errori tipografici, critiche ed errori in parte scusabili per ragioni diverse. Basti solo accennare che l’elenco del 1933 è redatto in ordine alfabetico per cognome e contiene la registrazione di 7750 famiglie e di 41.853 individui nominativamente annotati, con la rispettiva enunciazione del nome del padre e dell’avo, dell’elenco regionale nobiliare.

I documenti d’archivio
Le carte relative agli affari araldici sono conservate nell’archivio della Consulta Araldica (art. 106). Dei documenti conservati in detto archivio non si dà comunicazione o visione se non ai membri della Consulta ed al Commissario del Re ed agli interessati che li produssero, previo in quest’ultimo caso il parere del Commissario (articolo 105).
La Consulta ha adottato la massima che dei documenti conservati nel suo archivio non si concedono copie autentiche che per gli atti originali, o da considerarsi come tali.
Si possono col consenso del Commissario restituire agli interessati i documenti esibiti (articolo 107):
a) quando il richiedente abbia rinunciato alla domanda prima dell’avviso della Commissione Regionale (v. n. 116);
b) quando i documenti di cui si chiede la restituzione non riguardano la deliberazione presa;
c) quando, in sostituzione degli originali, si presentino dall’interessato copie da collazionarsi e autenticarsi previamente dal Cancelliere;
d) quando la decisione fu negativa, salvo che il Commissario creda opportuno chiederne copia, da formarsi a spese dell’interessato e da collazionarsi e autenticarsi come alla lettera c.
Gli alberi genealogici e gli stemmi e gli atti autentici di stato civile non si restituiscono se non in copia da formarsi a spese dell’interessato (art. 107).
I certificati di quanto può risultare dai registri e dai libri araldici e gli estratti delle deliberazioni della Consulta o della Giunta, già approvate dal Capo del Governo, sono rilasciati collazionati e autenticati dal Cancelliere previa autorizzazione e col visto del Commissario (art. 87 f e 104).
Tutte le disposizioni anzidette sono derivate dal regolamento del 1896.

Natura del diritto ai titoli nobiliari – Varie teorie degli autori e della giurisprudenza
I titoli ed attributi nobiliari in coloro che ne sono legittimamente investiti fanno sorgere dei diritti. E che siano diritti muniti della relativa tutela, risulta dalle seguenti fonti: l’art. 79 dello Statuto, l’art. 81 cod. proc. civ., art. 3 R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442, il R. D. 21 gennaio 1929, n. 61, approvante il nuovo ordinamento nobiliare.
L’art. 79 dello Statuto stabilisce che: «I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che ne hanno diritto. Il Re può conferirne di nuovi» (v. n. 3).
L’art. 81 cod. proc. civ. dice: le controversie di stato, di tutela, di diritti onorifici ed altre di valore indeterminabile si considerano di valore eccedente le L. 1500 (ora elevato di L. 5000 per effetto della legge 15-9-1922, n. 1287).
L ‘art. 3 del R. D. 20 marzo 1924, n. 442, modificato dal R. D. L. 28-12-1924, n. 2337, stabilisce: «Coloro ai quali in seguito alle contestazioni svolte in conformità delle norme dell’articolo precedente con sentenza passata in giudicato sia riconosciuto il diritto di portare titoli o attributi nobiliari sono obbligati a promuoverne l’iscrizione nei registri della Consulta Araldica».
È superfluo riportare tutti gli articoli del nuovo ordinamento in cui si parli di diritto ai titoli, ai quali si rimanda. Solo va rilevato che non esattamente nell’art. 123 si parla di interessi di terzi, anziché di diritti dei terzi, allorquando è detto: qualora le domande (di provvedimenti) involgano palesemente interessi di terzi.
Nella dottrina si è discusso sulla natura del diritto ai titoli e attributi nobiliari. Si ricorda che quanto sarà detto riguardo ai titoli vale per lo stemma, l’arme e gli altri distintivi araldici. Secondo una teoria, i titoli sono un elemento dello stato individuale, perché sono una qualità della persona che serve a designarla nella sua individualità, sono dei semplici accessori del nome, e il diritto ai titoli è un diritto personale analogo al nome civile rientrante nella categoria dei diritti su cose immateriali e incorporali. Questa teoria è condivisa dal Fadda e Bensa, dal Venzi, dal Coviello31 .
Racioppi e Brunelli32 considerano i titoli come una proprietà sui generis, garantita dalla protezione giuridica dello Stato in base all’art. 29 dello Statuto per il quale tutte le proprietà sono inviolabili. Sennonché questo concetto contrasta con il principio della incommerciabilità e imprescrittibilità dei titoli (art. 14 e 15 dell’ordinamento) e con quello della disponibilità nella maniera più assoluta di cui all’art. 436 c. c., disponibilità che difetta negli investiti dei titoli. Altra limitazione al diritto ai titoli è stabilita dagli art. 41 e 42 dell’ordinamento (v. n. 83), nei quali è prevista la perdita definitiva della nobiltà per gravissimi delitti ope legis, e la perdita temporanea per reati minori su proposta della Consulta Araldica, per cui la teoria della proprietà viene ad essere battuta, ed il diritto del privato è fatto vivere soltanto in funzione dei compiti che lo Stato assegna alla esistenza della nobiltà.
Secondo il Ferrara e lo Stolfi si tratta invece di un diritto di natura personale, diritto ad uno stato onorifico e che si distingue dal diritto al nome, poiché mentre il nome serve ad individuare una persona, il titolo serve ad onorarla, il nome spetta a tutti i membri della famiglia, mentre il titolo spetta solo al capo di essa, e si trasmette ordinariamente secondo la linea primogeniale maschile.
Secondo il Mortara si tratterebbe di una categoria speciale di diritti onorifici contemplati dall’art. 81 c. p. c., definizione più strettamente aderente alle fonti ed alla giurisprudenza, che ha assimilato i diritti nobiliari agli onorifici.
Il Sabini, con una teoria risultante dalla fusione delle precedenti, ha ritenuto trattarsi di «un diritto immateriale sui generis» che può ritenersi come un accessorio del cognome, in quanto serve a meglio identificare una famiglia o un individuo. Esso non ha contenuto patrimoniale stricto sensu, però in certo modo il titolare di esso può subire un danno di vera e propria natura patrimoniale, sol che alcuno se ne arroghi abusivamente la pertinenza, o ne impedisca il godimento al legittimo proprietario. E se al diritto sul nome non si può negare un interesse morale, questo deve riconoscersi in altissimo grado ai diritti nobiliari in quanto traggono origine da una concessione Sovrana altamente onorifica, e perciò rientrano nella speciale categoria dei diritti onorifici previsti dall’art. 81 c. p. c.
Il Gorino ritiene che converrebbe fare una ulteriore specificazione. Si dovrebbe distinguere fra i titoli nobiliari in senso stretto (Principe, Duca, Marchese, ecc.) e le distinzioni o attributi nobiliari. Per i primi si tratta certamente, di diritti onorifici, mentre per gli altri, fra cui il predicato feudale o no, e lo stemma, trattasi verosimilmente di un diritto perfettamente analogo a quello che si ha sul proprio cognome.
Il titolo, difatti, in senso stretto è comune a tutti gli altri nobili decorati del medesimo grado, proprio come agli insigniti di pari grado del medesimo ordine equestre; per contro il predicato feudale e tanto più lo stemma formano una cosa unica col cognome ed hanno natura personalissima. Così in una medesima agnazione sarà il predicato a distinguere i vari rami e la stessa funzione eserciterà la brisura nello stemma (v. numero 57).
La distinzione del Gorino, derivata da un ulteriore sviluppo della teoria del Ferrara, sembra meritevole di accoglimento.

1) FERRARA, Trattato di diritto civile italiano, Roma 1921, pag. 584, 585.
2) STOLFI, Diritto Civile, vol. I, p. 11, pag. 115, Torino.
1) MORTASA, I Titoli di nobiltà e la competenza giudiziaria, in «Temi Veneta», 1882, 473.
1) SABINI, Saggi cit., pag. 103-104, riportato in L’ordinamento cit., pag. 18.
1) GORINO, op. cit., pag. 6 e seg.
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31 -FADDA e BENSA, Note alle Pandette di Winscheid, Torino 1926, vol. IV, pag. 172; VENZI, Foro It., 1902, I, 73 e in PACIFICI MAZZONI, Istituzioni di diritto civile, Firenze 1904, volume ZII, pag. 16 e 19; COVIELLO N., Manuale di diritto civile, Milano 1910, pag. 161.

32 – RACIOPPI e BRUNELLI, Commento cit., 111, pag. 704.

Attività da svolgersi per ottenere provvedimenti nobiliari
Occorre qui richiamare la distinzione fra provvedimenti di grazia emanati dal Sovrano nell’esercizio della sua prerogativa concessione, rinnovazione, riconoscimento, autorizzazione, assenso) e che possono essere di motu proprio o su proposta del Capo del Governo, e provvedimenti di giustizia (v. n. 46 e 54).
Per i provvedimenti di motu proprio che avvengono sulla iniziativa del Sovrano, nessuna azione può essere svolta dai privati al fine di ottenerli. Poiché come è stato detto (v. n. 46) i provvedimenti di motu proprio importano una riduzione delle tasse di concessione, talvolta il Sovrano per le speciali benemerenze dell’investito ed al fine di ridurre le tasse, effettua concessioni con la forma del motu proprio, quantunque esse siano state provocate da domande degli interessati. Può invece darsi il caso che terze persone si ritengano lese dai provvedimenti adottati in favore di altra persona col Sovrano motu proprio o in via di grazia su proposta del Capo del Governo, ed allora esse hanno diritto a far ricorso all’autorità giudiziaria.
Per ottenere provvedimenti di grazia o di giustizia occorre che gli interessati facciano domanda.
In conclusione la R. Prerogativa, eccetto il caso di provvedimenti di Sovrano motu proprio, per potersi esplicare, occorre sia provocata dalla azione degli interessati.

La domanda
Questa azione si inizia mediante domanda, che, deve essere scritta in carta da bollo ed indirizzata al Capo del Governo presso l’Ufficio Araldico, per i provvedimenti nobiliari o araldici di giustizia, e se trattisi di provvedimenti di grazia deve essere indirizzata a S. M. il Re, presentando anche altra copia al Capo del Governo.
La domanda deve contenere alcuni dati indispensabili stabiliti ed essere corredata da appositi documenti. Così deve contenere l’indicazione del cognome e nome, della paternità, del luogo di nascita e domicilio, della cittadinanza e della condizione sociale ed economica del richiedente, la enunciazione, in fatto e in diritto della richiesta, la dichiarazione del petente di esser pronto a soddisfare le tasse e i diritti stabiliti, l’elenco in duplice copia su carta semplice dei documenti esibiti, la sottoscrizione autografa del petente (articolo 109). Alla domanda deve essere anche allegata la bolletta del deposito prescritto, che può spedirsi anche a mezzo di vaglia postale, variabile secondo la natura dei provvedimenti richiesti (L. 100 pei privati, L. 10 per gli enti), e indicato dal R. D. 6-11-1930, n. 1494 (art. 110).
Detto deposito non viene restituito in caso di ritiro o di esito negativo della domanda presentata.
La documentazione serve a comprovare il fondamento, oltre che di fatto anche giuridico, della richiesta, in modo che gli organi chiamati a dar parere o decidere si trovino in possesso di tutti gli elementi per una giusta valutazione della questione. Pertanto alla domanda debbono essere unite: la documentazione della esistenza di titoli, predicati o stemmi pei quali si chiede il provvedimento, la dimostrazione documentale dell’attacco genealogico fra il richiedente e il concessionario o l’ultimo investito o riconosciuto, la dimostrazione per linea e grado del diritto di succedere nel titolo, nonché il diploma di concessione o di conferma e lo stemma a colori con la descrizione in termini araldici (art. 111). Dei modi di effettuare la documentazione sarà detto appresso (v. n. 115).
Gli atti possono essere spediti, oppure consegnati personalmente al Capo dell’Ufficio Araldico (art. 87 a), il quale è tenuto ad effettuare l’esame se essi sono regolari dal punto formale (art. 130), compreso l’accertamento del pagamento avvenuto della tassa di deposito.

Prove documentarie da porre a corredo della domanda. (In nota: Ordini Cavallereschi italiani estinti che richiedevano la prova della nobiltà: di S. Stefano di Toscana, di S. Gennaro di Napoli. L’Ordine Sacro Angelico Imperiale Costantiniano di S. Giorgio di Napoli e di Parma)
Circa le prove da porre a corredo della documentazione di istanze, opposizioni, ricorsi, negli articoli da 113 a 122 dell’ordinamento sono contenute apposite disposizioni, le quali sono derivate dal regolamento del 1896, con qualche modificazione. Le prove dirette sono quelle che si fanno per mezzo di diplomi, di lettere di nobilitazione, ottenuti da Sovrani o da Principi.
Qualora manchi il diploma originario di concessione, la prova dell’esistenza dei titoli e predicati può essere supplita con la produzione del più recente atto autentico di investitura, di intestazione, di conferma o di riconoscimento (art. 113). Questa disposizione deriva in parte dall’art. 51 del regolamento del 1896, il quale poneva come condizione che la originaria concessione non fosse prescritta o perduta a norma delle legislazioni preesistenti, e che aveva indotto in taluni la condizione erronea che sotto l’impero del cod. civ. italiano i titoli fossero prescrittibili.
Le prove genealogiche si devono dare con la produzione di copie autentiche degli atti legali di nascita, di matrimonio e morte, grado per grado, di tutti gli individui compresi nella dimostrazione genealogica (art. 114). È questa la ricerca più difficile per il rintraccio e la lettura degli atti antichi.
Le prove degli stemmi si fanno o mediante l’atto di concessione o mediante la dimostrazione di un possesso legale legittimo (art. 115). Per quanto riguarda la prova del possesso bisogna distinguere lo stemma di nobiltà da quello di cittadinanza. Per lo stemma di nobiltà, per le famiglie la cui nobiltà è stata riconosciuta, è sufficiente la prova di un possesso pubblico e pacifico dello stemma per 30 anni (art. 116). Non si può però ottenere il riconoscimento di stemmi nobiliari se in pari tempo non si prova la nobiltà della famiglia. Per il riconoscimento degli stemmi di cittadinanza è necessaria a tenore dell’art. 38 dell’ordinamento (v. n. 57) la dimostrazione di un possesso pubblico e pacifico non inferiore a 150 anni. Di detto possesso, tanto per lo stemma nobiliare che per quello di cittadinanza, bisogna dimostrare sempre il filo genealogico.
La semplice prova del possesso, per quanto continuato nel tempo, non giustifica l’uso di corone; di manti, di ornamentazioni araldiche, di capi, di figure di cimi eri e di altri segni particolari (articolo 117). In mancanza di prove dirette sono ammesse quelle per equipollenti (art. 118). L’art. 59 del regolamento del 1896 chiariva che le prove equipollenti devono essere legali e non procedenti dalla volontà ed influenza degli interessati. Il fatto che detto articolo non sia stato riprodotto dimostra che il legislatore ha voluto lasciare maggiore larghezza nella valutazione delle prove per equipollenti. Così possono essere mezzi di prova per equipollenti le lettere di abilitazione, ove qualche rampollo della fantiglia abbia derogato, i documenti comprovanti la ammissione ai corpi nobili, l’aggregazione al patriziato di una città, le cariche e dignità illustri sostenute da membri della famiglia, i registri pubblici delle città in cui sono notate le dignità municipali conferite alla nobiltà, le tombe, i sigilli in cui stanno impressi gli stemmi gentilizi, i libri antichi, i monumenti antichi, le carte di fondazioni, dotazioni, donazioni fatte alle chiese, ai monasteri, le sottoscrizioni dei testimoni, perché in antico solo i signori molto qualificati e grandi ufficiali segnavano gli atti dei Principi e vi apponevano il loro sigillo.
Mezzo di prova sussidiario è l’atto notorio, cioè l’attestazione giurata di quattro testimoni avanti il Pretore o il Notaio, il Console. Esso ai fini della documentazione è accettato con alcune limitazioni, e cioè nel solo caso che sia impossibile, per eventi di forza maggiore, la dimostrazione diretta ad accertare fatti, e che i fatti stessi non eccedano la memoria dell’uomo. Sono anche ammessi gli attestati rilasciati dalle Commissioni Araldiche Regionali riguardanti le famiglie titolate della regione (art. 119). Al riguardo la Consulta aveva adottato la massima 4, per la quale tali atti di notorietà potevano emanarsi dalle Commissioni Araldiche Regionali.
Sono ammesse come prove, senza bisogno di ulteriore documentazione, la nobiltà, gli stemmi e le genealogie già approvate dai Tribunali, Uffici o Commissioni araldiche degli antichi Stati Italiani (v. n. 96) o dai Grandi Magisteri del S. O. di Malta (v. n. 45, nota) o di altri antichi Ordini militari Cavallereschi italiani, che esigevano prove di nobiltà33 . E ciò per il fatto che trattasi di accertamenti già fatti da organi statali o da antichi ordini cavallereschi, o da quello di Malta, che hanno tradizioni di rigidità nel giudizio delle prove di nobiltà dei suoi membri. Occorre soltanto la esibizione delle relative sentenze dei predetti organi statali o dei processi di giustizia degli ordini cavallereschi.
Non hanno però valore probatorio le prove risultanti da processi per grazia, nonché quelle riferentisi alle enunciazioni di titoli specifici e feudali contenute sia nei processi degli ordini predetti, sia nelle sentenze degli organi statali sunnominati (art. 120). La Consulta Araldica ha stabilito la massima, circa le genealogie predette, che esse fanno prova non quanto ai titoli nobiliari in esse enunciati, ma per la filiazione, e nei soli casi di prove ammesse per giustizia e non per quelle di grazia o di cuore e devozione.
I diplomi e documenti che si producono devono essere in originale (art. 121), e ciò può avvenire per i diplomi e privilegi antichi allorquando essi venivano consegnati in originale all’investito e non per le concessioni moderne nelle quali vengono al titolare consegnate le R. Lettere Patenti (n. 70). Per il valore di autenticità che hanno gli atti conservati nei pubblici uffici, è ammessa la produzione di copie autentiche degli atti esistenti nei R. Archivi di Stato, o negli archivi delle Curie Vescovili o di altri enti di diritto pubblico, o in quelli del S. O. M. di Malta e di altri antichi Ordini militari cavallereschi, o nei protocolli notarili anteriori al 1860, essendo fino a quell’epoca consentita la conservazione di documenti importanti, col farli inserire nei protocolli dei notai aventi funzioni di certificatori.
È riservato però sempre alla Consulta il diritto di chiedere prove integrative di autenticità del documento esibito.
Dei documenti e diplomi originali in possesso di privati non è ammessa la esibizione di copie notarili, le quali se possono attestare la conformità letterale del documento prodotto al notaio, non garantiscono la autenticità del documento stesso, la quale va accertata con la scienza diplomatica (art. 121.). Con la massima 21 febbraio 1909 la Consulta approvò che fosse propagato l’uso delle copie di documenti e monumenti eseguiti in fotografia ed eliografia.
I documenti in lingua straniera devono essere prodotti insieme con la traduzione italiana, dichiarata autentica dal competente Ufficio Traduzioni esistente presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Dei documenti antichi in lingua latina o italiana può essere dalla Consulta, perché scritti con abbreviazioni e caratteri non più in uso e di facile lettura, richiesta la trascrizione paleografica, autenticata dal R. Archivio di Stato della regione da cui proviene il documento (articolo 122). Tutti i documenti che si esibiscono devono essere in forma legale e quelli che sono trasmessi dall’estero devono essere vidimati dalle autorità consolari italiane.
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33 – Degli ordini cavallereschi estinti degli ex Stati italiani preunitari richiedevano la prova della nobiltà nei Cavalieri di giustizia quelli di S. Stefano di Toscana (8/4) fondato da Cosimo dei Medici e ricostituito da Ferdinando III nel 1817; di S. Gennaro di Napoli (4/4) fondato da Carlo III nel 1738. – Anche l’ordine della Religiosa Milizia dei SS. Maurizio e Lazzaro in Piemonte richiedeva pei Cavalieri di giustizia le prove di nobiltà (per 4 gradi, cioè 8/4, v. n. 18 e 45). L’ordine Sacro Angelico Imperiale Costantiniano di S. Giorgio di Napoli, già di collazione Borbonica, è attualmente indipendente ed è posto sotto la protezione della S. Sede che vi delega un Cardinale protettore. Esso richiedeva durante la Monarchia Borbonica pei Cavalieri di giustizia 4/4 di nobiltà. Lo stesso ordine, ramo di Parma, secondo la massima 36 adottata dalla Consulta Araldica è ritenuto equestre c non nobiliare. Secondo la massima 75 della Consulta stessa possono pretendere la iscrizione nell’elenco nobiliare col titolo di Nobile i componenti delle famiglie ascritte per giustizia all’ordine Costantiniano di Napoli (vedi CUOMO, Ordini cavallereschi cit., pag. 73, 908, 909, 913). Circa l’ordine di S. Giuseppe di Toscana (vedi n. 18) la Consulta Araldica ha formulato la massima 50, per la quale i decorati non sudditi Toscani e quelli sudditi Toscani che non si fecero ascrivere ad una delle nobiltà civiche del Granducato non possono ora pretendere il riconoscimento della nobiltà.

Istruttoria della domanda
Ricevuta la istanza e riconosciutala formalmente regolare (v. n. 114) il Capo dell’Ufficio Araldico, quale Cancelliere della Consulta, la trasmette nel termine massimo di 15 giorni alla competente Commissione Araldica Regionale, la quale deve restituirla col suo avviso all’Ufficio Araldico, di regola, entro due mesi dal ricevimento. Pervenuta la pratica, egli la comunica al Commissario del Re (art. 130). Questi la esamina, e a mezzo del Cancelliere, qualora ritenga insufficiente la documentazione, può far chiedere all’istante chiarimenti, e anche una più ampia e precisa documentazione, stabilendo all’uopo un termine non maggiore di tre mesi (R. D. 9 ottobre 1930, n. 1405, art. 4). Inoltre lo stesso Commissario può, ove lo creda opportuno, chiedere, pel tramite del Cancelliere, al Prefetto del luogo di domicilio dell’istante informazioni in via riservata sulla condotta morale e sulle condizioni economiche dell’istante e dei suoi prossimi congiunti (art. 112).
Quando la domanda involge palesemente diritti di terzi, a richiesta del Commissario del Re, l’Ufficio Araldico invita il richiedente a farne pubblicare a sue spese, per due volte e con l’intervallo di un mese fra la prima e seconda pubblicazione, un sunto nella Gazzetta ufficiale del Regno e nei fogli degli annunzi legali delle province di origine e di residenza dell’istante. Il richiedente dovrà poi giustificare all’Ufficio Araldico di avere adempiuto questa formalità.
Lo stesso Ufficio Araldico provvede inoltre, in quanto sia possibile, a far comunicare a mezzo del Prefetto della provincia un esemplare della seguita pubblicazione ai terzi interessati (articolo 123).

Opposizione di terzi in sede amministrativa
Coloro che credono di aver ragione di opporsi alla domanda dell’istante devono, nel termine di due mesi dall’ultima pubblicazione o dalla comunicazione ad essi fatta, esporre i motivi della loro opposizione con contro istanza (detto ricorso, o opposizione in via preventiva e in sede amministrativa), indirizzata al Capo del Governo. Ugualmente può fare opposizione chiunque abbia notizia della presentazione della domanda che ritenga lesiva dei suoi diritti già acquistati (articolo 124). Sennonché per costui, nel caso che non siano state effettuate le pubblicazioni, non sembra possa pretendersi l’applicazione del termine di due mesi per la opposizione. Inoltre l’opposizione preventiva da parte sua può farsi nella fase ancora di istruttoria e prima che siano stati emanati i provvedimenti Reali o Governativi.
In tal modo viene assicurata la tutela dei diritti dei terzi, i quali potrebbero essere pregiudicati dalla domanda dell’istante, la quale richieda ad es. concessione, rinnovazione, riconoscimento di titoli, predicati o stemmi di loro pertinenza, o intenda avvalersi di atti o documenti e genealogie appartenenti ad altre famiglie.
Le opposizioni dei terzi in sede amministrativa sono prese in esame dalla Consulta e su di esse esprime il suo parere (art. 124).
Se la opposizione dei terzi viene proposta dopo che la Giunta o la Consulta abbiano deliberato, ma prima che sia stato emanato il provvedimento, sia esso di grazia o di giustizia, la Consulta, ove ritenga la opposizione manifestamente infondata, dichiara di non far luogo a riesame. Nel caso che ritenga l’opposizione fondata riesamina la pratica per emettere una nuova deliberazione (art. 128).
Qualora l’opposizione riguardi lo stato delle persone, o venga impugnato di falso qualche documento, la Giunta o la Consulta, a mezzo dell’Ufficio Araldico, invita gli interessati a far decidere la questione in via giudiziaria, prefiggendo agli opponenti un termine per adire i tribunali. Trascorso inutilmente questo termine, la parte interessata ha la facoltà di ripresentare la domanda alla Consulta, la quale in tal caso delibera definitivamente (art. 129).
Gi articoli 124, 128 e 129 del vigente ordinamento trovano riscontro rispettivamente negli articoli 96 del regolamento del 1896 e 8 e 9 del R. D. 2 luglio 1896, n. 313 sul nuovo ordinamento della Consulta, per la quale era detto che essa, trascorso inutilmente il termine fissato alle parti per adire i tribunali, avrebbe deliberato sempre salvando i diritti dei terzi interessati. Il fatto che nel nuovo ordinamento non è ripetuta questa formula finale non implica che nelle deliberazioni adottate non siano sempre salvaguardati i diritti dei terzi interessati, poiché i terzi stessi continuano ad aver la tutela dei loro diritti ricorrendo all’autorità giudiziaria ordinaria (v. numero 120).

Esame della domanda da parte della Giunta o della Consulta Araldica
Esaurita la istruttoria della pratica, o trascorso inutilmente il termine prefisso all’istante per i chiarimenti o la più ampia documentazione, o il termine per le opposizioni in caso di pubblicazione della domanda,la pratica viene rimessa dal Commissario, col proprio parere, all’Ufficio Araldico per inoltro alla Giunta o alla Consulta (R. Decreto 1930). È stato già detto (v. n. 99) dei casi in cui occorra la deliberazione o della Consulta o della Giunta.
Qualora l’istante insista affinché si provveda in base agli atti esibiti ed alle notizie date, senza corrispondere alla richiesta fatta dal Commissario, la pratica è sottoposta alla deliberazione della Giunta col parere del Commissario (art. 130).
Nel caso che il parere del Commissario concordi con l’avviso della Commissione Regionale per l’accoglimento della domanda e non vi sia opposizione di terzi, la relazione del Commissario alla Giunta o alla Consulta può limitarsi ad una breve dichiarazione; ed alla indicazione del provvedimento da adattarsi. Ove il Commissario proponga il rigetto della domanda, o vi sia difformità tra il parere del Commissario e l’avviso della Commissione Regionale, o vi sia opposizione di terzi, la relazione del Commissario dovrà essere motivata (art. 130).

Comunicazione delle deliberazioni della Giunta e della Consulta Araldica al Capo del Governo – Provvedimenti conseguenziali
Intervenuta la deliberazione della Giunta o della Consulta, il Capo del Governo attraverso l’estratto dei verbali, che deve essere sottoposto alla sua approvazione, viene a conoscenza delle decisioni prese, anche nel caso che egli non sia intervenuto alle sedute della Consulta (art. 86 e R. D. 1930). Se il parere è di rigetto della istanza, il Capo del Governo ne fa dare comunicazione in suo nome allo istante. Qualora il parere sia favorevole all’accoglimento della istanza, il Commissario del Re presenta al Capo del Governo una relazione sul provvedimento da emettersi (art. 131). Approvata la deliberazione della Giunta o della Consulta da parte del Capo del Governo e la relazione del Commissario, il Cancelliere a mezzo dell’Ufficio Araldico cura la spedizione del provvedimento (art. 87 lett. e) e dà pronto avviso agli interessati del tenore del provvedimento emesso, invitandoli a pagare le occorrenti tasse (art. 132) (v. n. 69).

1) Consiglio di Stato 11 agosto 1927 – Foro It. 1927, III, 129.

Impugnativa contro il rigetto della domanda – Ricorso in via giudiziaria
I privati in conseguenza dell’esercizio della R. Prerogativa possono ritenere di essere stati lesi nei loro diritti. Ed in base ai principi generali sulla tutela dei diritti, stabilita dalla legge abolitiva del Contenzioso amministrativo 20 marzo 1865, n. 2248, alleg. E, il nuovo ordinamento nobiliare contiene disposizioni al riguardo.
Si possono avere vari casi:
L’interessato ritiene che ingiustamente non sia stata accolta una sua richiesta di provvedimenti di giustizia. Se si tratta di diritti a titoli o distinzioni nobiliari o stemmi già costituiti legittimamente in favore di colui che ha invocato il provvedimento, egli ha diritto di impugnare il provvedimento del Capo del Governo soltanto avanti l’autorità giudiziaria, unica competente a reintegrare i diritti lesi.
Se si tratta invece di diritti non costituiti nel richiedente, di diritti non perfetti, ma di semplici
aspettative, in questo caso il provvedimento del Capo del Governo non è suscettibile di impugnativa giudiziaria. Nessuna azione giudiziaria o amministrativa poi può esperirsi allorché il Sovrano non ritenga di adottare provvedimenti di grazia richiesti, essendo la manifestazione della R. Prerogativa in provvedimenti singolari, come ebbe a dichiarare il Consiglio di Stato, attribuzione avente carattere di potere politico che si ispira ad alte e complesse considerazioni di indole sociale34 . In questi ultimi due casi l’interessato può soltanto ripresentare una nuova domanda con maggiore documentazione e nuovi argomenti giuridici, ma l’accoglimento di essa non è obbligatorio.
Ma può darsi anche il caso di un individuo che si ritenga leso nel suo diritto, già costituitosi legittimamente, da un provvedimento di grazia o di giustizia adottato nei riguardi di un terzo. In questo caso egli può impugnare il provvedimento adottato avanti l’autorità giudiziaria. Stabilisce infatti l’art. 125 che la parte che si crede lesa dal provvedimento adottato sia esso di grazia o di giustizia, ha diritto di impugnarlo innanzi ai Tribunali ordinari. É da tener presente che il compito dell’autorità giudiziaria deve limitarsi a decidere sull’esistenza e sulla appartenenza dei diritti nobiliari. La posizione di detto articolo, collocato dopo le opposizioni dei terzi, potrebbe indurre a ritenere che l’esperimento dell’azione giudiziaria sia subordinato allo svolgimento preventivo dell’azione amministrativa, come poteva dedursi dall’art. 9 capov. del R. D. 2 luglio 1896, n. 313, ma ciò non è, poichè il principio del ricorso ali ‘autorità giudiziaria nasce dall’art. 2 della legge del 1865 contenzioso amministrativo, riaffermato successivamente nell’art. 2 del R. D. 20 marzo 1924.
Già il Venzi in occasione di altra sentenza del 1902 in materia nobiliare aveva ritenuto che la procedura amministrativa stabilita dal suindicato R. Decreto 2 luglio 1896 non poteva costituire che un esperimento, un tentativo di ottenere, per via più facile e spedita, il riconoscimento del proprio diritto, ma non poteva mai importare rinuncia al diritto di poter far valere le proprie pretese nel modo consentito dalla legge. La competenza dell’autorità giudiziaria era riconosciuta dalla stessa Consulta Araldica, dato che nella relazione Pagano Guarneschelli alla Consulta stessa era detto che l’opera di essa era semplicemente consultiva, salvo la decisione di chi ha in modo esclusivo giurisdizione per riconoscere il giusto valore dei diritti privati.
La competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria è stata sempre sostenuta dal Sabini e dallo
Stolfi.
È da escludere poi per i provvedimenti Sovrani o del Capo del Governo, che importino lesione di diritti nobiliari, il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, dato che questo organo può essere, in base all’art. 26 T. U. 26-6-1924, numero 1054, chiamato a giudicare quando i ricorsi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, come è invece nel caso attuale.
Il ricorso al Consiglio di Stato può aver luogo nel caso che l ‘Ufficio Araldico non si uniformi alle decisioni dell’autorità giudizi aria in seguito all’effettuato riconoscimento di diritti nobiliari (v. n. 123), o per motivi di legittimità nel caso di diniego di inscrizione al Libro d’oro (n. 106).
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34 – È inammissibile l’azione promossa da un cittadino per dimostrare il suo diritto ad un titolo nobiliare, se già prima con decreto ministeriale era stata disattesa l’istanza da lui proposta per ottenere le lettere patenti di Regio assenso. Corte di Appello Palermo, 2 luglio 1931, Federico c. Perez, Foro Siciliano, 1932, 42.

Limiti fra l’esercizio della R. Prerogativa e l’autorità giudiziaria
Circa i limiti tra l’esercizio della Regia Prerogativa e l’autorità giudiziaria, merita di essere ricordata la sentenza 28 febbraio 1921 della Cassazione a Sezioni Unite: «Quanto alla R. Prerogativa è ormai accettato che essa è limitata alla funzione attributiva nella forma sia di concessione di titoli nuovi, o di rinnovazione dei titoli già estinti o di riconoscimento (improprio) di titoli con possesso difettoso o insufficiente e alla funzione autorizzatrice pei passaggi di titolo da una famiglia all’altra e per l’uso di titoli conceduti a cittadini di Potenze estere. La Prerogativa Sovrana lascia dunque intatta all’autorità giudiziaria la funzione dichiarativa del diritto ai titoli sia quanto alla loro esistenza, garantita dall’art. 79 dello statuto, sia quanto alla loro trasmissione, garantita dalle forme rigorose del diritto successorio, nel quale è inammissibile l’esercizio di qualsiasi potere discrezionale sia pure del Principe. E quanto all’attività, che pure in questa materia è riservata all’autorità amministrativa pel riconoscimento ai sensi dell’art. 26 del Regolamento corrispondente all’art. 11, lett. a dell’attuale ordinamento e per le inscrizioni nei registri araldici, essa si esplica in provvedimenti, che al pari di ogni altro atto amministrativo, sono salvi i noti limiti soggetti al sindacato giudiziario».
I limiti di cui si tratta sono stabiliti dall’art. 4 della citata legge del 1865, per i quali i Tribunali si devono limitare a conoscere degli effetti dell’atto dell’autorità amministrativa in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non può essere revocato o modificato se non sovraricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si devono conformare al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.
E stato deciso che rientrano altresì nella competenza dell’autorità giudiziaria le controversie relative alla autenticità ed al valore giuridico di atti e concessioni Sovrane in materia di titoli e qualità nobiliari, la dichiarazione di legittimità dell’acquisto di un titolo, la dichiarazione di non spettare il titolo a nessuna delle parti litiganti. La omessa iscrizione nei registri della Consulta Araldica non impedisce di dimostrare in giudizio o rivendicare il titolo nobiliare. L’autorità giudiziaria è però incompetente a conoscere degli effetti di una concessione o riconoscimento di nobiltà a favore di uno straniero per atto di Sovranità straniera, ad annullare il Decreto del Capo del Governo o Ministeriale con cui sia stata riconosciuta ‘appartenenza di un titolo nobiliare, l’inibire l’uso di un titolo a colui che risulta indebitamente iscritto nel Libro d’oro fino a quando la Consulta Araldica non si sarà uniformata al giudicato.
L’autorità giudiziaria da adire in base all’articolo 81 del cod. proc. civ. è il Tribunale, e ad esso dovrà richiedersi, in base a documenti il riconoscimento della esistenza e della appartenenza nel petente del diritto nobiliare o araldico affermato, con ogni esclusione di richiesta di revoca o di annullamento dell’eventuale denegato provvedimento di giustizia, Sovrano o del Capo del Governo, e di grazia o giustizia se intervenuto in favore di terzi35 .
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35 – La dichiarazione di appartenenza del titolo o della distinzione nobiliare è di competenza dell’Autorità Giudiziaria, la quale però non ha facoltà di ordinare inscrizioni e cancellazioni nei Registri nobiliari, spettando tale facoltà soltanto alla Consulta Araldica. Il provvedimento di inscrizione nel Libro d’oro o il rifiuto di provvedervi da parte della Consulta Araldica non ha in sé valore di dichiarazione giuridica sull’esistenza o pertinenza del diritto alle distinzioni nobiliari, ma è soltanto un atto amministrativo prescritto per poter far valere i titoli nobiliari e per esigere che essi siano ufficialmente attribuiti. C. App. Palermo, 18 ottobre 1930, Bonanno-Bonanno, Riv. Dir. Privato, 1931, II, 104, con nota del Prof A. VISCONTI. L’Autorità Giudiziaria è incompetente ad annullare il decreto ministeriale con cui sia stata riconosciuta l’appartenenza di un titolo nobiliare, Trib. Catania, 26-1-1930, Paternò c. Impellizzeri, Giur. It., 1930, 361. Riconosciuto con D. M. il diritto ad un titolo nobiliare, tale diritto permane sino a quando non sia dimostrato che siffatto riconoscimento fu illegale e il Decreto stesso sia dichiarato nullo. Cass. 17-7-1931, Bonanno Federico, Settimo della Cass., 1931, 1369.

Obbligo della notifica all’Ufficio Araldico dell’inizio delle contestazioni giudiziarie su titoli nobiliari
Può anche darsi che la vertenza giudiziaria in materia di diritti nobiliari sorga fra privati. In questo caso è sempre interesse della R. Prerogativa di intervenire nel giudizio. In proposito una disposizione era stata dettata nell’art. 2 del R. D. L. 20 marzo 1924, n. 442, la quale è stata trasfusa nell’art. 126 dell’ordinamento. Essa dice: «Nessuna domanda o contestazione sull’appartenenza di titoli o attributi nobiliari può avere corso avanti l’autorità giudiziaria, sia per impugnare uno dei provvedimenti di cui all’articolo precedente (cioè sia di grazia o di giustizia), sia per iniziare in giudizio di rivendicazione di diritti nobiliari in confronto di terze persone o del Regio Governo, se l’interessato non dà la prova di aver notificato l’atto di citazione in primo o secondo grado, o il ricorso in Cassazione, all’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che in ogni caso ha diritto di prendere parte ai giudizi in rappresentanza della R. Prerogativa, con l’assistenza della R. Avvocatura dello Stato36 ».
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36 – C. App. Palermo 2 luglio 1931, Federico-Perez, For. Sic., 1932, 42: l’Ufficio Araldico nella rappresentanza della Prerogativa Sovrana e nelle ragioni dei legittimi aventi diritto ha fac0ltà di instare in giudizio per la inammissibilità delle domande di chi pretenda a titoli nobiliari. – C. App. Catania, 2-9-1931, Consulta Araldica, Paternò c. Consulta Araldica, in Rass. Giudiz., 1931, 483: La Consulta Araldica, in rappresentanza della R. Prerogativa è parte in causa nei giudizi nobiliari, ed indipendentemente dalla esistenza di altri contraddittori, può opporsi all’attribuzione dei titoli a colui che, a suo avviso, non vi abbia diritto. – Cass. 22-12-1932, Federico-Perez, Giur. It., 1933, 1-1, 201: Nelle controversie sull’appartenenza di titoli nobiliari l’Ufficio Araldico è parte in giudizio quale rappresentante della R. Prerogativa. – C. App. Catania, 5 dicembre 1932, Paternò-Impellizzeri, Rass. Giudiz., 1933, 1, 38: La Consulta Araldica in rappresentanza della R. Prerogativa, è parte in causa nelle contestazioni nobiliari ed in tale qualità ha facoltà di proporre tutte le ragioni che essa ritenga si oppongano alla attribuzione dei titoli a chi li rivendica . La Consulta Araldica, intervenendo nei giudizi nobiliari in rappresentanza della R. Prerogativa, non può subire condanna alle spese, ancorché rimanga soccombente.

Obbligo di promuovere la iscrizione nei registri della Consulta Araldica delle decisioni dell’autorità giudiziaria
Intervenuta la decisione dell’autorità giudiziaria, coloro ai quali in seguito alla contestazione sollevata, sia stato riconosciuto con sentenza passata in giudicato il diritto a determinati titoli o attributi nobiliari, devono promuovere la iscrizione di essi nei registri della Consulta Araldica. L’iscrizione da parte dell’Ufficio Araldico non è facoltativa, ma obbligatoria, poiché è stabilito per la iscrizione stessa il termine di 60 giorni dalla presentazione della domanda, accompagnata da copia autenticata, della sentenza (art. 127). Questa disposizione è stata trasfusa nell’attuale ordinamento dall’art. 3 del R. Decreto Legge 20-3-1924, n. 442, modificato dal R. Decreto Legge 28-12-1924, n. 2337. Per coloro il cui diritto viene riconosciuto dalla autorità giudiziaria, detta inscrizione per poter far uso del diritto stesso è obbligatoria e non facoltativa (v. n. 124). Ove per ipotesi l’Ufficio Araldico si rifiutasse di fare la inscrizione, allora l’interessato potrebbe ricorrere, a termini dell’art. 27, n. 4, del T. U. al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale per obbligare l’Amministrazione a conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso al giudicato della autorità giudiziaria che ha riconosciuto la lesione del suo diritto.

Uso dei titoli nobiliari – Obbligo della iscrizione nei registri della Consulta Araldica dei titoli e attributi nobiliari
Allo scopo di garantire in coloro che ne hanno titolo il legittimo uso di titoli e attributi nobiliari col R. D. 20 marzo 1924, n. 442, furono emanate disposizioni al riguardo.
L’art. 1 di detto Decreto stabilisce che nessuno può far uso di titoli o attributi nobiliari se non sia iscritto come legittimamente investito di tali titoli o attributi nei registri della Consulta Araldica. Delle iscrizioni fa fede l’annotazione nell’Elenco ufficiale nobiliare, la cui ultima edizione è quella pubblicata nel 1934 (v. n. 110).
La mancata o ritardata iscrizione non importa però decadenza dal diritto, perché esso continua ad esistere, solo il titolare non può farne uso, il diritto resta per cosi dire allo stato potenziale.
Inoltre l’art. 127 dell’ordinamento (v. n. 123) stabilisce l’obbligo della iscrizione, in seguito a riconoscimento di diritti nobiliari fatto dall’autorità giudiziaria.

Contravvenzione per uso illegittimo di titoli
Ora colui che tale inscrizione non abbia curato, e che, sia in documenti ufficiali, sia in qualsiasi atto giuridico o anche nei rapporti sociali ordinari faccia uso di titoli o attributi nobiliari che non risultino appartenenti da conforme iscrizione nei registri della Consulta, in base all’art. 5 del R. D. 442, è punito con l’ammenda da L. 1000 a L. 5000, e in caso di recidiva con una ammenda non inferiore al doppio di quella precedentemente inflitta, oltre all’applicazione delle pene pecuniarie stabilite dalla legge nei casi in cui l’uso dei titoli sia subordinato al pagamento di una tassa di concessione governativa. È questa la figura della contravvenzione amministrativa, detta uso legittimo dei titoli, contravvenzione che può essere estinta, prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna, mediante il pagamento dell’oblazione in misura non inferiore alla metà dell’ammontare dell’ammenda. In caso di recidiva non è ammessa l’oblazione.
Per impedire questo uso illegittimo di titoli nobiliari è accordato agli agenti autori delle denuncia di contravvenzione una quota delle ammende applicate nelle singole contravvenzioni, per le quali si procede in seguito a rapporti dell’intendente di Finanza e di qualunque pubblico ufficiale od anche d’ufficio (art. 6 R. D. 442).
Inoltre i notai, gli ufficiali dello stato civile, tutti gli altri pubblici ufficiali non possono attribuire ad alcuno in atti pubblici o in qualsiasi altro documento di carattere ufficiale titoli od attributi nobiliari, se non risultino appartenenti all’interessato dagli elenchi ufficiali nobiliari, o se l’interessato non dimostri esserne investito esibendo un certificato di iscrizione nei registri della Consulta. Eguale obbligo spetta ai presidenti dei consigli di amministrazione o direzione di corpi morali, di società, di associazioni, di circoli, nella compilazione degli elenchi dei componenti e nei rispettivi atti contravventori a questa disposizione (art. 4 R. D. 442) sono puniti con l’ammenda da L. 500 a 1000.

Delitto di usurpazione di titoli
Nel caso invece di colui che, come dice l’art. 498 c. p., si arroga titoli, e cioè se li attribuisce indebitamente facendone mostra, e con coscienza di non aver alcun diritto, siano questi titoli di nessuno o appartengano legittimamente ad altri, si ha la figura del delitto di usurpazione di titoli, punibile con la multa da L. 1000 a lire 10.000.
Tanto nella contravvenzione di uso illegittimo di titoli che nel delitto di usurpazione di titoli, la condanna importa la pubblicazione a cura dell’Intendente di Finanza, di un estratto della sentenza in uno o più giornali. La spesa occorrente, a carico del condannato, è liquidata dal Tribunale con ordinanza avente forza di titolo esecutivo non soggetto ad impugnazione.

Azione di tutela dei titoli: di reclamo e di contestazione
Colui che è legittimamente investito di titoli e attributi nobiliari ha a tutela dei suoi diritti verso i terzi, due azioni da far valere avanti l’autorità giudiziaria, quella di reclamo e quella di contestazione. Quella di reclamo è detta anche di rivendicazione del titolo, ma meno esattamente, perché la rivendicazione include il concetto del diritto di proprietà, che in fatto di titoli non può ammettersi (v. n. 112).
Con l’azione di reclamo il titolare mira a eliminare le molestie e le contestazioni mosse da terzi, che gli impediscono o gli ostacolano il libero esercizio del suo diritto al titolo. Chi esperimenta l’azione deve provare il suo diritto al titolo e dimostrare le contestazioni o le molestie mosse da colui contro il quale egli agisce.
L’azione di contestazione, detta anche di usurpazione, mira ad impedire che altri, ledendo il suo diritto, faccia uso illegittimo del titolo di cui non è titolare. Colui che esperimenta l’azione deve dimostrare il suo diritto al titolo e l’uso illegittimo di esso da parte del convenuto37 . Questa azione è indipendente da quella penale per il reato di usurpazione di titoli (v. n. 125).
Le due azioni di reclamo e di contestazione di titoli mirano, di regola, ad ottenere dal magistrato la dichiarazione della pertinenza del diritto al titolo, ma possono anche tendere ad ottenere il risarcimento dei danni prodotti dalla molestia e dalla usurpazione 2).
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37 – C. App. Palermo, 18-10-1930, Bonanno-Bonanno, Riv. Dir. Priv. 1931, II, 104: La dichiarazione di appartenenza del titolo o della distinzione nobiliare è di competenza dell’autorità giudiziaria riguardando un vero e proprio diritto subbiettivo da cui promana azione giudiziaria in confronto di coloro che il titolo medesimo usurpano: Cass. Regno, 17-7-1931, Bonanno c. Federico, in Settimana della Cass., 1931, 1369: Il titolo nobiliare come parte integrante del nome va considerato come diritto della personalità umana, e pertanto chi del titolo o di una distinzione nobiliare è in possesso, con facoltà di avvalersene, acquista il diritto e l’interesse a vietarne le indebite assunzioni indipendentemente dal presupposto di una ingiuria o di un danno economico.

Testo del R. D. 22 settembre 1932 n. 1464 relativo all’imposizione di tassa per i provvedimenti nobiliari «di giustizia»
Il R. D. 22 settembre 1932, n. 1464, concernente la imposizione di tassa pei provvedimenti nobiliari di «giustizia» (v. n. 69, 106) cosi suona:
ARTICOLO 1. Sono soggetti al pagamento di una tassa nella misura di un ventesimo di quella stabilita dal titolo III, tabella A, n. 13, allegata al R. Decreto 30 dicembre 1923, n. 3279, per la concessione od autorizzazioni dei corrispondenti titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari, i seguenti provvedimenti araldici, da emanarsi a termini dell’art. 11 del R. Decreto 21 gennaio 1929, n. 61:
a) primo riconoscimento della legale spettanza ad una famiglia di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari;
b) riconoscimento della devoluzione per successione agli aventi diritto di titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari ereditari già riconosciuti ai termini della precedente lettera a), di quelli pontifici per cui fu già autorizzato l’uso, nonché di quelli concessi da potenze estere, per i quali fu autorizzata l’accettazione;
c) autorizzazione ad usare nel Regno titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari concessi o riconosciuti da una potenza estera ai propri sudditi, siano questi od i loro successori tuttora stranieri residenti nel Regno, o divenuti in seguito cittadini italiani; ,
d) autorizzazione ad uno straniero di usare titoli, predicati, qualifiche e stemmi nobiliari italiani legittimamente pervenutigli.
ARTICOLO 2. Sono soggetti al pagamento di tassa nella misura stabilita dall’articolo precedente i provvedimenti previsti dagli articoli 59, 60, 65, 66 e 68 dell’ordinamento dello stato nobiliare italiano, approvato con R. Decreto 21 gennaio 1929, n. 61.
ARTICOLO 3. Quando i provvedimenti di cui sopra riguardano più titoli, la tassa di cui all’articolo precedente è dovuta soltanto per il maggiore di essi.
ARTICOLO 4. Il presente decreto entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del Regno (23 novembre 1932).

1) STOLFI, Dir. civ., cit., pag. 102.

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